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(10 Gennaio 2010) Enzo Apicella
Dopo la rivolta degli schiavi di Rosarno

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(13 Gennaio 2010)

Più di due milioni di disoccupati in Italia, pari ad un tasso dell’8,3%, che non tiene conto della cassa integrazione, anticamera ai licenziamenti. Questo il contesto locale.
Negli Stati Uniti abbiamo 15 milioni di disoccupati, mentre l’Europa a 27, ne sfiora 23 milioni, con una perdita, negli ultimi 12 mesi, di 5 milioni di posti di lavoro.
Lo scorso Dicembre, la Giunta regionale calabra, ha dichiarato lo stato di crisi di mercato per il comparto agricolo e per le sue produzioni, chiedendo al Ministero dell’Agricoltura l’emanazione di un decreto allo scopo di porre gli imprenditori agricoli nelle condizioni di ottenere benefici economici e di esentarli anche dal pagamento dei contributi assistenziali e previdenziali per la campagna in corso.
Eppure, sulle nostre tavole, hanno continuato ad essere presenti i prodotti della terra di Calabria.
In agricoltura, è facile da comprendere, non può essere applicato il toyotismo, per cui ( anche in periodi di crisi ) “necessita” la presenza di manodopera vittima di un sistema economico e politico che la sfrutta ed all’occorrenza, la criminalizza. Un sistema, muto, sordo e cieco, dove si tollera sfruttamento e schiavismo, con il suo corollario di condizioni di vita disumane ( abitazioni, assistenza medica ).
Gli amministratori, lo stato ( ispettorato del lavoro, polizia ), le associazioni di categoria, anche loro: muti, sordi e ciechi.
Un apparato, che non fa distinzione fra irregolare o regolare ( anche se più ricattabile il primo ), ma che, piuttosto, esige la garanzia della precarietà esistenziale, affinché possa disporre di forza-lavoro a basso costo. Un apparato, dove il confine tra legalità ed illegalità non è percepibile, dove non è dato conoscere l’imprenditore che utilizza manodopera migrante “offerta” dalle organizzazioni criminali, da quello che subisce “protezione”, a quello cui vengono “proposti” specifici distributori per i suoi prodotti.
A chi oggi ciancia di colpevole tolleranza nei confronti dei “clandestini”, consigliamo di leggersi i rapporti Eurispes 2007/2008: l’economia criminale produce un “PIL nero” di 725 miliardi ( il 41% del PIL 2007 ), pari ad un’imposta evasa per 206 miliardi. Quale intolleranza crea più danni?
Ma tralasciamo le farsesche boutade.
Negli ultimi anni abbiamo avuto i prodromi di ciò che è e continuerà ad essere il prossimo futuro: definitivo annichilimento del welfare, la recessione ( con conseguente incertezze economiche e rassegnazione alla precarietà permanente ), la rafforzata “richiesta” di sicurezza, il consolidamento dell’egoismo sociale, la mercificazione/privatizzazione di quei beni, che secoli di lotte avevano conquistato allo stato sociale e che potranno essere comprati come le offerte ai supermercati. Una reificata “struggle for life” dove competitività, egoismo e desiderio di possesso, renderanno il più debole ancora più inerme e marginale. Una marginalizzazione sempre più escludente e per questo soggetta ad una sorta di chiusura solidaristica, che trasmuterà nell’esclusivo riconoscimento dell’appartenenza alla propria “comunità”, al “campanile”, alla “contrada”, piuttosto che alla classe.
L’immigrazione è una complicazione. Crea contraddizione, antinomia. L’”esercito industriale di riserva” da essa prodotto, è il problema ( inutile nasconderlo ): esso “preme durante i periodi di stagnazione e di prosperità media sull’esercito operaio attivo e ne frena, durante il periodo della sovrapproduzione e del parossismo, le rivendicazioni. La sovrappopolazione relativa è quindi lo sfondo sul quale si muove la legge della domanda e dell’offerta del lavoro. Essa costringe il campo d’azione di questa legge entro i limiti assolutamente convenienti alla brama di sfruttamento e alla smania di dominio del capitale…”. L’immigrato, quindi, è una “minaccia” per il lavoratore autoctono, che vede abbassarsi il suo salario. Questo, non può avere un atteggiamento umanitario e razionalizzare il suo diverso status, fino a quando non ri-tornerà a sentirsi soggetto di una determinata classe.
L’aver abbandonato, da parte di alcuni settori politico-sindacali ( ma anche in ambito “movimentista” ), un’analisi di classe dell’immigrazione e delle sue ripercussioni sociali, ha prodotto uno scollamento dalla realtà, provocando arretramento rispetto a battaglie sociali durate decenni. Privilegiando la retorica dell’accoglienza e dell’antirazzismo, anzi, spesso erigendosi a tutori e protettori di soggetti ritenuti adolescenti incapaci a realizzare qualcosa di determinato, nulla si è arrecato sotto il profilo materiale, quasi che l’auto-organizzazione del migrante facesse paura, perché fa perdere potere ed implicherebbe nuovi assetti. Va da sé, che il rischio di essere percepiti come strutture erogatrici di servizi, o meri “movimenti d’opinione”, è sempre in agguato, senza dimenticare, che certi atteggiamenti, rischiano di essere ostacolo ad una presa di coscienza sociale degli immigrati.
Troppo spesso, abbiamo assistito ( e di fatto compartecipato ), a defatiganti disquisizioni inerenti aspetti sovrastrutturali ( culture, religioni, diritti ), dimenticando quale sia la loro funzione in società basate sullo sfruttamento. Mentre, altrettanto spesso, abbiamo dimenticato, che l’immigrato, come soggetto sociale, come classe non esiste e che le condizioni di vita ( complessive ) sociali di un lavoratore italiano emigrato al nord, non sono tanto diverse.
Rosarno ( come Castel Volturno ), per dirla brutalmente, ci ha insegnato che se spari a degli immigrati, questi, già esasperati per notori motivi, giustamente s’incazzano. Una rivolta contro la n’drangheta, che li vende? Contro il “caporale”, che gli chiede il pizzo? Avverso il padrone che lo schiavizza e lo fa bastonare per non pagarlo? Avverso il sindacato, che non li protegge? Oppure, una sommossa in opposizione ad un Stato ed una parte di popolazione assenti? Niente di queste amenità.
Ci saranno altre Rosarno, forse avranno il nome di quartieri di grandi città, forse ancora nel profondo sud: la crisi deve ancora mostrare i suoi denti ed aprirà ulteriori contraddizioni fra le masse di lavoratori autoctoni, prede sempre più facili da conquistare, per ottenere consensi verso politiche razziste; perché, in fondo, tutti si aspettano qualcosa dal capitale che fino ad oggi li ha coccolati ed elargito briciole, per renderli borghesi piccoli... piccoli.
Almeno, grazie a quella rivolta ( e ciò non deve essere sottovalutato ), è calato il sipario dell’ipocrisia che ci presentava un padronato dal volto umano, ci mostrava l’avanzamento delle politiche d’integrazione, la indefessa battaglia contro il lavoro nero e la disoccupazione. E ci ha mostrato, come il lavoratore immigrato, non sia in concorrenza con l’autoctono ( questi altrimenti sceglierebbe di lavorare la sua terra ), piuttosto, viene utilizzato come regolatore delle dinamiche salariali. Una sorta di ideal tipo di lavoratore delle società capitaliste: pura forza lavoro, con pochi bisogni, disposto a farsi sfruttare, senza rivendicazioni.
Ma Rosarno può offrire ulteriori insegnamenti. L’attuale crisi economica sta falcidiando migliaia di posti di lavoro e milioni di buste paga; i lavoratori italiani, dato il mutato contesto, potrebbero orientarsi nuovamente su lavori che avevano abbandonato, esacerbando i già precari rapporti con i lavoratori immigrati. Da parte sua, il capitale, tramite lo Stato, potrebbe iniziare a praticare politiche di immigrazione selettiva, una selezione di professionalità funzionali all’apparato produttivo e non, pur non precludendo completamente l’ingresso a basse qualifiche, sempre utili per tenere alto il tasso di competitività fra lavoratori. Un processo non breve, ma i cui prodromi sono stati l’inasprimento dei ricongiungimenti familiari e la sanatoria colf.
Aver trascurato la possibilità di unificare le potenzialità di lotta, ha di fatto consegnato la gestione del lavoro immigrato al ricatto dei padroni. La comprensione del ruolo dell’immigrazione e della sua valenza nell’ambito delle dinamiche liberiste, non troveranno risposte attraverso uno smielato buonismo o all’”unità d’azione antirazzista”: difficilmente, il lavoratore autoctono, considerato il deterioramento della condizione lavorativa, potrà comprendere, se non attraverso una riflessione ed una presa di coscienza, che travalichi il proprio soggettivismo.
Non basta più ripartire ad ogni fruscio di foglia, ma impegnarsi per un intervento costante, attraverso ( non, inutili e rituali scadenze ) forme di lotta, che non si riducano ad improduttive opposizioni resistenziali ( pur necessarie ), ma che implichino una diversa conflittualità, laddove siano ancora possibili spazi legalmente percorribili, e che vedano protagonisti sia coloro ai quali vengono negati diritti di cittadinanza, sia coloro che vedono immiserirsi le condizioni esistenziali. Senza dimenticare la necessità di impegnarsi, affinché possa essere espresso un più vasto movimento di opposizione sociale, attraverso una nuova egemonia culturale, che sappia ripartire dai territori metropolitani, laddove è più che mai necessario supplire con altre forme politico/sindacali.

Luciano Di Gregorio
RdB - CUB Immigrati Roma

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