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(10 Gennaio 2010) Enzo Apicella
Dopo la rivolta degli schiavi di Rosarno

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    Rosarno: rivolta di classe ed ipocrisie di Stato

    (13 Gennaio 2010)

    In Italia sono circa 50.000 gli immigrati che vagano per il paese seguendo il ciclo delle stagioni e dei raccolti. Un esercito di moderni schiavi, senza identità e diritti che costituiscono una componente fondamentale del tessuto economico-sociale legato al lavoro della terra, tanto importante quanto sfruttato. Da decenni, ormai, l’attività di raccolta funziona sulla base di questa forza-lavoro a basso costo che costituisce il vero affare del mercato ortofrutticolo.
    50.000 esseri umani di quasi 40 nazionalità diverse sparsi per i campi di mezz’Italia con salari da 15-20 euro al giorno. Una città fatta di cartoni infradiciati, lamiere arrugginite, tavole di compensato, teli di plastica, dove manca acqua, luce e gas ma con tanta immondizia, escrementi e topi. Una grande Soweto italiana, ha descritto qualcuno, che va da San Nicola a Varco (Eboli) a Cassibile (Catania), da Cerignola, Stornara, Stornarella (Puglia) a Castelvolturno (Campania) …

    L’affare però non si limita a questo, ma continua anche nella grande distribuzione che impiega insieme al lavoro nero il sistema legalizzato delle cooperative dove la forza-lavoro, molto spesso immigrata, è sottoposta a ricatti e ritmi feroci in cambio di basse paghe ma la “certezza” di un permesso di soggiorno.
    Il lavoratore immigrato, insomma, sia clandestino che regolare, costituisce un grande business che lega in un unico sodalizio gli attori del sistema del profitto: imprenditori, criminalità organizzata e politica.
    Elemento fondamentale di questo sistema è il ricatto. Una questione che riguarda la forza-lavoro in generale, ma che viene spinta esponenzialmente sulla forza lavoro immigrata. Ciò viene fatto sapientemente non solo per un profitto immediato, ma anche in prospettiva, perché il maggior ricatto su alcuni (immigrati) è funzionale ad un maggior ricatto verso gli altri (autoctoni).
    Ricatto, paura e terrore, oltre a ricoprire questa funzione, fanno parte a tutti gli effetti del sistema di profitto. Gli attuali CIE, ex CPT, voluti dal centro-sinistra (governo Prodi) con la legge Turco-Napolitano, veri lager per immigrati, costituiscono un grande giro d’affari sul quale in molti hanno messo le loro mani sporche di sangue. Attualmente sono 13 i centri per un totale di 1814 posti, ma con il prolungamento a 6 mesi della detenzione introdotta dal ‘pacchetto sicurezza’ si prevede che per l’ampliamento dei CIE esistenti e la costruzione di nuovi, la spesa da sostenere sarà di rispettivi 22 e 117 milioni di euro. A questa spesa va aggiunta quella per il loro ordinario funzionamento, per i rimpatri forzati etc.
    Il mercato dello sfruttamento unito al mercato della paura si è fatto ormai sistema in quanto non riguarda solo l’immigrazione, ma i rapporti sociali in generale. Le misure repressive, le riforme istituzionali, gli accordi capestro dei sindacati di regime sul tema dei contratti, delle retribuzioni, delle pensioni, già attuate e nel cassetto, lo dimostrano concretamente.
    La Rivolta di Rosarno è uno squarcio a tutto questo, un grido di ribellione e di libertà.
    Lo stesso grido che la comunità immigrata di Castel Volturno lanciò attraverso la sua sommossa all’indomani della strage di San Gennaro il 18 settembre ’08, quando una pioggia di piombo lasciò a terra tre ghanesi, un liberiano e un cittadino del Togo, tutti lavoratori, nessuno implicato con la cosiddetta criminalità organizzata.
    Lo stesso grido che viene lanciato dalle ripetute sommosse nei lager di Stato (CIE) dove una minoranza di immigrati vive l’inferno a monito per tutti gli altri loro connazionali.
    Lo stesso grido lanciato dai lavoratori immigrati delle cooperative di Origgio, Turate, Corteolona, Brembio, contro lo sfruttamento, i licenziamenti politici ed il libero arbitrio di capi e capetti.
    Situazioni differenti, ma legate da una realtà economica, sociale e politica che li vuole schiacciati e silenziosi.
    Testa bassa o legnate. E’ questo il messaggio istituzional-imprenditorial-mafioso che quotidianamente gli immigrati ricevono in questo paese.
    Dinnanzi alla rivolta degli “ultimi”, contro i quali si scaglia anche l’ignoranza e l’arretratezza popolare egemonizzata su posizioni reazionarie dal potere, lo Stato è insorto con un “basta violenze!” inviando le sue truppe per ristabilire l’ordine.
    Questo imperativo avanzato sui fatti di Rosarno dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dall’”intollerante” ministro leghista dell’Interno Maroni e di seguito da tutta la classe politica istituzionale di governo ed opposizione, è la faccia ipocrita di un dominio classista che dietro parole come democrazia, alternanza di governo e legalità spreme come limoni proletari di ogni colore.
    E’ o non è violenza costringere esseri umani a lavorare 12 ore e più al giorno per un salario da fame ? Relegarli ad una vita ai margini della società in baracche fatiscenti e all’addiaccio ridotti ad una condizione di semischiavitù ? Imporgli il ricatto di un permesso di soggiorno che può essere perso in breve tempo se si viene licenziati ? E’ o non è violenza il fatto di criminalizzare la clandestinità, una condizione che nessun immigrato ha ricercato ma che la realtà della guerra e della miseria gli ha imposto, sradicando a forza milioni di essere umani dai loro paesi e dai loro affetti ? E’ o non è violenza rinchiudere gli immigrati in veri e propri lager dove i soprusi sono la regola ed i più deboli sono spinti a forme di autolesionismo e al suicidio ?
    Cessare le violenze, per lo Stato non significa farla finita con questa realtà. Cessare le violenze significa spegnere la ribellione, fare in mondo che le cose si possano svolgere in quel silenzio disarmante che uccide le coscienze ed umilia gli oppressi. Cessare le violenze, per lo Stato, significa garantire che l’unica violenza ammessa sia quella del potere costituito per continuare a fare affari e fortune sulla pelle di un proletariato sempre più multietnico, anche in paesi come il nostro.
    Ancora una volta gli “ultimi”, uomini del Ghana, della Nigeria, del Senegal, della Sierra Leone, del Marocco… rompono il velo ipocrita di questa società. Una rivolta che non è la prima e non sarà l’ultima. Una rabbia che non è solo disperazione ma anche coscienza di una condizione inaccettabile che va modificata. Queste lotte sono parte integrante di quella resistenza di classe che comincia a riemergere nella crisi e che vede sacrificati sull’altare del profitto milioni di lavoratori. Aprire gli occhi su questo, fare in modo che storie e segmenti di questa realtà di sfruttamento e di lotta costruiscano dei ponti, dei legami è una necessità. Alla violenza dello Stato si risponde con la lotta e l’unità di classe.

    Solidarietà ai rivoltosi di Rosarno

    LOTTA e UNITA’ per l’organizzazione proletaria

    Fonte

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