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(17 Gennaio 2010) Enzo Apicella
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La beatificazione civile di Craxi

(22 Gennaio 2010)

Il caso ha voluto che si sovrapponessero due anniversari che hanno a che fare con il socialismo italiano: i dieci anni dalla morte di Bettino Craxi e i cento da quella di Andrea Costa. Tutti e due il 19 gennaio. Ma le analogie finiscono qui perché, mentre il Costa è ricordato come pioniere del movimento operaio e tra i fondatori del Partito socialista, Craxi sarà ricordato come il leader politico che ha dato il colpo di grazia al socialismo italiano.

Andrea Costa apparteneva a quella generazione di militanti che, nella seconda metà dell’ottocento, percorrevano il Paese in lungo e in largo, ponendosi come ragione di vita la necessità di dare voce agli interessi della classe lavoratrice. È l’epoca in cui si fondano le prime leghe di braccianti e le prime associazioni operaie di mestiere. Un’epoca in cui i socialisti, anarchici o marxisti, contendono alla democrazia piccolo-borghese rappresentata dai mazziniani, l’influenza sul proletariato. Il Partito socialista rivoluzionario di Romagna, animato e diretto da Costa, dieci anni prima della fondazione del PSI, contiene nel programma, primo tra i partiti socialisti di tutti i paesi, la rivendicazione della dittatura del proletariato come mezzo per arrivare alla completa liquidazione del capitalismo e alla proprietà e gestione collettiva dei mezzi di produzione, cioè al socialismo.

Con tutto questo Craxi c’entra molto poco. Eredita un partito già abbondantemente fuori dagli orizzonti del socialismo originario. Tenta di farne lo strumento in grado di superare l’anomalia italiana, ovvero quel “bipartitismo imperfetto” per il quale la Democrazia Cristiana è costantemente al governo mentre i voti di sinistra sono in gran parte “congelati” nel Partito Comunista, un partito molto più grande del PSI ma impedito nella sua strada verso il potere dalla filiazione sovietica, e quindi dal veto del potente alleato-padrone americano. Buon conoscitore degli ambienti sindacali, politicamente scaltro e senza eccessivi scrupoli, Craxi impone un nuovo stile politico: il decisionismo. Sottrae il PSI alla posizione in gran parte subalterna nei confronti del PCI, fa appello, con successo, all’orgoglio di partito. L’era Craxi nel PSI è anche l’era della politica-spettacolo, dei gadget firmati da grandi stilisti venduti nei congressi di partito, dell’esaltazione della bella vita, dell’adesione completa sfrontata e proclamata agli stili di vita delle classi privilegiate.

Oggi un coro quasi unanime ne esalta le qualità di “statista”. Si è arrivati, bisogna dirlo, al ridicolo. A parte l’istituzionalizzazione del culto di Craxi, c’è stato chi, come Giuliano Cazzola, ex dirigente della CGIL passato armi e bagagli con Berlusconi, ha ricordato il leader socialista con le parole del poeta americano Walter Whitman: “Oh Capitano, mio Capitano…” . Sul berlusconiano L’Opinione, si è potuto leggere che Craxi è stato il più importante socialista dopo Turati, e De Michelis, in un’altra intervista, dice che “era veramente come Garibaldi, a favore di chi lottava per la libertà del proprio paese, da Arafat ad Allende”.

Si dice, e la cosa è stata ripetuta dalle massime cariche dello Stato: “Non confondiamo le vicende giudiziarie con l’apprezzamento dell’uomo politico”. In fin dei conti è un modo di ragionare a cui in Italia siamo abituati da generazioni. Il poeta toscano Renato Fucini, in un celeberrimo sonetto in vernacolo sul santo patrono di Pisa scriveva: “Levato quer viziaccio di rubbare, San Ranieri è un gran santo di ve’ boni” . Se Ranieri può mantenere il suo titolo di santo pure avendo avuto il “viziaccio” di rubare, la beatificazione civile di Craxi, che sembra già ben avviata, non stupisce più di tanto.

Si capisce che, superata da più di 15 anni la bufera giudiziaria di “mani pulite”, ci sia una corsa a riabilitare Craxi e il suo gruppo dirigente. In primo luogo perché le classi dominanti e i loro portavoce cercano sempre di auto-assolversi (e hanno molti mezzi a disposizione per far ingoiare al pubblico la loro “verità”). In secondo luogo per rivendicarne la politica anti-operaia. Craxi al governo, infatti, varò il famoso decreto di San Valentino, il 14 febbraio 1984, con il quale impose il congelamento di alcuni punti di scala mobile sui salari operai. L’operazione, condotta con il pretesto di contrastare l’inflazione, fu un importante segnale di disponibilità che il governo a direzione “socialista” dava al padronato, segnale reso più forte dalla decisione di ignorare l’ostilità del PCI e di gran parte della CGIL. Nel merito segnò la strada a tutti i governi successivi, da quel momento in poi con la complicità della stessa CGIL, fino all’abolizione definitiva del meccanismo di adeguamento automatico dei salari al costo della vita. In terzo luogo perché molti tra i socialisti “rampanti” dell’era Craxi hanno tuttora un importante ruolo politico. Lo spiega Gianni De Michelis in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera lo scorso settembre, in cui fa l’elenco dei socialisti tuttora sulla cresta dell’onda: “Agli Esteri c’è Frattini, cresciuto alla corte del nostro grand-commis Nino Freni e portato da Martelli. Poi c’è la Boniver, che capisce la politica estera. A Palazzo Chigi c’è Bonaiuti, un amico: lui era proprio demichelisiano. Capo dei deputati è Cicchitto, che ha una finissima cultura marxista (sic!); certo più di Bersani”. A dirigere la CGIL c’è Epifani, continua l’ex ministro di Craxi, “che nel PSI è sempre stato alla mia destra, prima demartiniano poi craxiano. All’Economia c’è Tremonti, cresciuto con Reviglio e Formica. Ma, conclude, “i miei figli sono Sacconi e Brunetta”.

Lasciamo ad altri la decisione se si può considerare Craxi un “grande statista” o meno. La galleria dei nemici della classe lavoratrice è piena di “grandi statisti”, per il semplice fatto che la macchina dello stato è sempre stata, in un modo e nell’altro nelle mani della grande borghesia e il buon statista è come il buon meccanico che conosce la macchina, è in grado di farla ben funzionare e sa all’occorrenza ripararla.

Certamente Craxi non rappresentò il socialismo per come dovrebbe intendersi: il movimento politico teso all’emancipazione del lavoro e dei lavoratori dal paralizzante dispotismo del capitale. Di questo dispotismo fu piuttosto un sicuro sostenitore. Ma come sarebbe ingiusto e falso sostenere che fu l’unico leader politico a beneficiare, con il suo partito, di un sistema di corruzione, di bustarelle, di appalti truccati, altrettanto ingiusto e falso sarebbe farne l’unico colpevole della fine del movimento socialista in Italia.

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