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Berlusconi, quando l’ideologia frena il business

(6 Febbraio 2010)

Le frasi tutte ideologiche di Silvio Berlusconi nel viaggio-vetrina in Israele con la coda delle esplicite accuse al governo iraniano rischiano di avere contraccolpi economici tutt’altro che marginali per il nostro Paese. Alla stregua di molto Occidente e delle potenze mondiali che minacciano sanzioni, l’Italia ha cospicui investimenti nell’Iran degli ayatollah. La tivù di Stato iraniana ha diffuso una piccata replica e bollato il discorso del Capo del governo come servile verso Israele. Ha inoltre sottolineato il cinismo sull’aggressione militare a Gaza “il vostro premier è arrivato ad affermare che quell’intervento fu giusto e così ha calpestato i cadaveri di 1.400 civili palestinesi uccisi”. L’affermazione di Berlusconi sul “giusto attacco a Gaza” e la successiva retromarcia durante l’incontro con Abu Mazen a Betlemme sono la quintessenza dell’opportunismo politico del leader italiano che mentre cercava benevolenze su ogni fronte è riuscito a scontentare tutti.

I rappresentanti della pur morbida Anp sono rimasti gelidi al paragone delle vittime di Gaza con quelle della Shoah e gli israeliani si sono risentiti nella duplice veste di vittime del passato e carnefici del presente. Nell’ennesima figuraccia estera il leader italiano non ha tenuto in nessuna considerazione il recente rapporto Goldstone sui crimini contro l’umanità dell’esercito d’Israele nell’operazione “Piombo fuso”, che avrebbe suggerito quantomeno un pizzico di prudenza. Il filosionismo che sta caratterizzando la maggioranza di governo, come fosse una delle componenti più retrive del partito repubblicano statunitense, era già inciampato nella boutade sul “sogno d’Israele nella Ue”, assolutamente deriso dall’intera stampa locale per l’irrealismo. Molte nazioni europee osteggiano l’ipotesi che trova un gradimento nullo fra gli stessi membri della Knesset, essi mai si sognerebbero d’impantanarsi nei vincoli politici, giuridici ed economici che l’adesione a quell’area comporta.

Volendo superarsi in affermazioni perentorie e minacciose Berlusconi s’è lanciato a dichiarare quello che sinora neppure Obama pronuncia contro Teheran per continuare a tenere aperti canali diplomatici. La linea delle sanzioni come punizione alla ritrosia della Repubblica Islamica a piegarsi alle desiderate occidentali attorno all’arricchimento dell’uranio per le centrali nucleari, aveva visto negli ultimi giorni anche la Merkel e Sarkozy alzare la voce. Immediatamente il ministro degli esteri cinese Yang Jiechi prendeva le distanze, nell’assise dei “cinque più due” che vuol regolamentare il nucleare iraniano, la Cina conta perché ha diritto di veto. Del resto sulla questione delle sanzioni esiste una discrasia fra ciò che ogni potenza afferma al proprio elettorato sui princìpi da rispettare e quanto fa in ambito commerciale. La Cina, grande fabbrica del mondo, è uno dei maggiori clienti energetici dell’Iran ed è la potenza che meno pensa a utilizzare il ricatto sanzioni.

Tutt’e sette i grandi si ritrovano, fra import ed export, ad avere fatturati aperti e copiosi col Paese degli ayatollah. La forzatura di Berlusconi forse provocherà proprio all’Italia una prima contrizione del business, che nella fase di timidissima uscita dalla crisi non appare una mossa geniale. Infatti uno dei volti del capitalismo italiano all’estero, il “cane a sei zampe matteiano” s’è visto costretto quasi a giustificare l’impegno iraniano. L’amministratore delegato Scaroni ha dichiarato che “le iniziative in corso, in via di esaurimento, risalgono ad accordi del 2001”. Era l’epoca del governo Khatami e quei contratti erano stati improntati dal precedente governo Rafsanjani, il chierico dei grandi business. Certo la forza estrattiva di greggio dell’Eni in Iran conta attualmente 28.000 barili al giorno, quantitativo assai minore delle estrazioni di altre aree (Libia, Arabia Saudita) o il territorio dell’Iran sul quale avvengono estrazioni e ricerche è di 1.456 km quadrati, un’inezia di fronte ai 193.200 scandagliati in Mali o i 38.400 in Pakistan.

Ma è anche vero che solo nel 2005 s’inaugurava lo sfruttamento del giacimento del Darkhovin che offre 160 mila barili giornalieri, attraverso una joint venture nella quale l’azienda italiana detiene il 40% delle quote e la National Iranian Oil Company il 60%. Il più generale nostro giro d’affari, che guarda naturalmente ad altre partnership, ha comunque con l’Iran un rapporto non insignificante. Finora abbiamo ricoperto il 4° posto nelle esportazioni con 6.740 milioni di dollari che sono sensibilmente cresciuti (erano 1.838 nel 1997) e importiamo pur sempre per 40.686 milioni di dollari. Una dei settori di punta della nostra esportazione è la meccanica con macchine per impieghi speciali e generali che fruttano alle nostre aziende 348.000 migliaia di euro. Anche nel 2008 questo genere d’esportazione ha avuto considerevoli incrementi, nel settore delle grandi macchine - per trasporto, edilizia - di + 27,94% (le automobili invece sono in flessione) e della metallurgia con + 43,12%.

Insomma più d’un anno fa il totale delle nostre esportazioni iraniane è cresciuto del +16,92% mentre le importazioni diminuivano del 5%. Una nota della Farnesina, fedelissima alle esternazioni del premier, ribadisce come il governo “segue propri valori” che imporranno forse disinvestimenti per il disappunto delle aziende impegnate nel mercato mediorientale e per le casse patrie.

5 febbraio 2010

Enrico Campofreda

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