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(20 Febbraio 2010) Enzo Apicella
Continua la guerra mediatica (e non solo mediatica) all'Iran

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Il nucleare iraniano. Una minaccia o un fattore di riequilibrio in Medio Oriente?

(20 Febbraio 2010)

Perché l’Iran dovrebbe bloccare il suo programma nucleare? Se è per le motivazioni antinucleari poste dai movimenti ambientalisti anche in tutti i paesi a capitalismo avanzato non possiamo che condividerle. Ma se le motivazioni sono politiche, anzi geopolitiche, allora non possiamo essere d’accordo. Come è noto, i programmi nucleari sono stati sviluppati in moltissimi paesi nel corso degli anni Novanta. Se vogliamo parlare di paradossi, il paese che negli anni Novanta ha fatto più incetta di plutonio e uranio… è stato il Giappone. Pochi ricordano quante navi abbiano preso la strada del Sol Levante provenienti dalla Francia o dagli Stati Uniti con carichi nucleari. Il riarmo e l’ondata militarista che hanno percorso il Giappone negli ultimi anni (alimentato dalla sindrome anti-coreana), confermano che la corsa nucleare del Sol Levante non aveva solo scopi industriali.

Nel XXI Secolo, molti paesi in via di sviluppo si stanno apprestando a varare programmi nucleari, inclusi molti paesi arabi (dall’Egitto alla Libia agli Emirati del Golfo). Diversamente che in Europa o nei paesi capitalisti, il ricorso al nucleare in molti paesi emergenti corrisponde più al raggiungimento di standard di sviluppo tecnologico (anche militare) che ad esigenze energetiche.

I tentativi di dotarsi dell’arma nucleare in Medio Oriente

Va ricordato in tal senso il tentativo iracheno di costruire un impianto nucleare a Osirak che fu stroncato unilateralmente nel 1981 dagli israeliani con un bombardamento proprio mentre era in corso la guerra dell’Iraq contro l’Iran. Fu un intervento militare che confermò come Israele – allora – alimentasse ancora il progetto di sostegno ad una potenza regionale “non araba” (l’Iran) contro una potenza regionale “araba” (L’Iraq). Era la stessa motivazione con cui Israele ha avuto per decenni solidi rapporti militari,politici, economici con l’altra potenza regionale “non araba” (la Turchia) e abbia coltivato alleanze con le forse non arabe del Medio Oriente (i curdi in Iraq e Iran, i maroniti in Libano etc.)
La “bomba islamica” infine l’ha costruita il Pakistan con i finanziamenti ricevuti da tutti i paesi arabi ed islamici. Il Pakistan non lo ha fatto per assicurarsi una fonte di approvvigionamento energetico alternativo al petrolio ma per acquisire uno status di potenza regionale nei confronti di India e Cina (dotate dei armi nucleari) e per dare “un punto di forza” alla nazione islamica nei confronti dell’arsenale nucleare israeliano. L'India proprio in questi giorni di aumento delle polemiche contro l'Iran, ha sperimentato il missile Agni III per il lancio di testate nucleari.

La stessa Israele, ha creato l’impianto nucleare di Dimona non certo per produrre l’energia di cui non dispone e aggirare così l’embargo petrolifero arabo, ma per produrre decine di testate nucleari operative con cui minacciare e ricattare tutti paesi del Medio Oriente (e non solo). Il povero Vanunu sta ancora passando i suoi guai per averlo rivelato al Sunday Times.

Cosa hanno in comune la bomba islamica pakistana, quella indiana e quelle israeliana? Che tutte e tre sono nate di nascosto e in paesi che hanno finora rifiutato di firmare il Trattato di Non Proliferazione Nucleare per evitare le ispezioni dell’AIEA nei loro impianti.

Al contrario, la Repubblica Islamica Iraniana, ha firmato il Trattato, ha ospitato sistematicamente le ispezioni dell’AIEA ed ha dato vita pubblicamente e legalmente al suo programma nucleare. Ma perché un importante paese produttore di petrolio ha dato vita ad un programma nucleare?

La questione nucleare dentro il Grande Gioco in Medio Oriente e Asia Centrale
Le ragioni dell’accelerazione del piano nucleare iraniano, vanno viste nel contesto del “Grande Gioco” apertosi pesantemente in Asia Centrale a metà degli anni Novanta. Non va infatti dimenticato che tra gli obiettivi dichiarati del “Silk Road Strategy Act” statunitense vi era quello di tagliare fuori dai corridoi energetici proprio la Russia e l’Iran. (4)
La guerra degli oleodotti che si è aperta e combattuta nei Balcani, nel Caucaso e nelle repubbliche asiatiche ex sovietiche non è ancora terminata ed è stata di una durezza che pochi hanno saputo cogliere (se non in occasione della guerra NATO nei Balcani, del sanguinoso conflitto in Cecenia e di quello più recente in Georgia). Il tentativo di tagliare fuori la Russia dai corridoi strategici è però fallito sia grazie alla sconfitta del tentativo della Georgia di occupare le repubbliche secessioniste dell’Ossezia e dell’Abkhazia (rimaste nell’orbita di Mosca), sia grazie alle spregiudicate operazioni dell’Italia di Berlusconi e della Turchia che hanno varato il progetto del corridoio South Stream, il quale consente alla Russia di commercializzare le sue risorse energetiche fin sul Mediterraneo evitando sia la strozzatura della Georgia che quella – eventuale – di una Ucraina filo NATO. Allo stesso modo nel nord Europa, il corridoio North Stream bypassa Polonia e Repubbliche Baltiche e fa arrivare le risorse energetiche russe fin nel cuore dell’Europa.

Gli Stati Uniti dagli anni Novanta in poi hanno sistematicamente puntato a isolare ed estromettere l’Iran dalle dinamiche della geografia mondiale del petrolio. Di questo erano consapevoli il ricco Rafsanjani e i cosiddetti riformisti iraniani che hanno quindi cercato di riallacciare i contatti con gli USA. Ma a complicare ed a chiarire le cose, ci si è messo però il Progetto per il Nuovo Secolo Americano, il rafforzamento dei “likudzik” a Washington ed a Tel Aviv, l’avvento dell’amministrazione Bush e lo scatenamento della guerra preventiva da parte degli Stati Uniti. La realtà infatti ha dimostrato fino ad oggi che le bombe atomiche è meglio averle che non averle e che se un paese dispone di bombe atomiche può decidere da solo se farsi “esportare o meno la democrazia dentro casa”.

Lo scenario visto prima in Afganistan e poi in Iraq è stato un serio deterrente per l’Iran. Questo paese infatti si trova preso in mezzo ai due paesi occupati militarmente dagli USA e l’amministrazione statunitense non nasconde affatto l’ambizione di chiudere anche territorialmente questa parte dell’Arco di Crisi indicato da tempo da Brzezinski e Kissinger dentro il progetto del “Grande Medio Oriente” di cui l’Iran è una spina nel fianco e una interruzione di continuità.

Le difficoltà di USA e Israele fanno aumentare i rischi dell’escalation
"Sta diventando verosimile un attacco militare contro l’Iran. Che sia Israele o l’America a lanciarlo poco importa. Potrebbe avvenire e il rischio maggiore è che inneschi una guerra regionale, con gli Hezbollah che attaccano Israele dal Libano e la Siria che entra in guerra con loro. Per scongiurarlo Netanyahu vuole accelerare l’accordo con la Siria" ad affermarlo è David Schenker, fino al 2006 titolare del dossier siriano al Pentagono e analista al centro studi Washington Institute in una intervista rilasciata pubblicata sul quotidiano italiano La Stampa del 6 febbraio. E’ noto a tutti che gli artefici principali di questa campagna aggressiva contro l’Iran siano i cosiddetti “likudzik” cioè i progetti e i soggetti convergenti della fazione filo-israeliana nell’amministrazione Obama con le autorità israeliane vere e proprie. Per i primi la liquidazione – anche manu militari – dell’Iran significa il rilancio pesante dell’egemonia globale USA oggi in declino, per i secondi rappresenta l’eliminazione di una potenza regionale rivale che sostiene apertamente organizzazioni come gli Hezbollah libanesi o i palestinesi di Hamas e rimane l’unico fattore di equilibrio nei confronti della strapotenza militare e nucleare israeliana. Israele oggi non ha più alcun alleato nell’intera regione. Le relazioni storiche con la Turchia sono fortemente compromesse, i negoziati con la Siria si sono fermati, i regimi reazionari arabi come Egitto e Giordania incontrano sempre maggiori contrasti interni nel mantenere la loro linea di subalternità ai diktat israeliani (vedi le contestazioni sia in Egitto che nel mondo arabo contro il muro egiziano contro i palestinesi di Gaza).

Oggi l’amministrazione Obama è seriamente impantanata in Afghanistan ed è ancora lontana dal raggiungimento degli obiettivi strategici prefissati dal progetto “Grande Medio Oriente”. I negoziati tra Israele e ANP sono fermi da mesi e il tentativo dell’amministrazione Obama di pesare sulle scelte negoziali israeliane si è rivelato del tutto inefficace, al contrario ha rivelato che è maggiore l’influenza israeliana sull’amministrazione USA che viceversa. In Iraq la situazione è fondata su un equilibrio di forze fragilissimo che verrebbe scosso duramente da una eventuale attacco militare contro l’Iran. La stessa Al Qaida nostra una capacità di estensione dell’influenza del proprio network in paesi da cui prima era assente (sia in Africa che nel mondo arabo). La tabella di marcia del tentativo di ristabilire l’egemonia statunitense nell’intera area deve fare i conti con la realtà e con la resistenza di popoli e di Stati all’egemonia globale USA. Gli USA sono sottoposti a fortissime pressioni israeliane per mettere in moto le operazioni contro l’Iran. Obama non ha affatto escluso l’opzione militare ma deve però prendere tempo e incentivare la campagna perché l’Afghanistan non è solo una rogna dal punto di vista militare ma lo è ancora di più dal punto di vista politico e della credibilità. Inoltre due potenze come Russia e Cina hanno emesso un serio monito contro una eventuale aggressione verso l’Iran. La prima intende limitarsi alle sanzioni, la seconda prende tempo avendo investimenti e interessi strategici rilevanti nella repubblica iraniana.

In queste settimane stiamo assistendo ad un intenso lavorìo diplomatico dell’Italia e dell’Unione Europea per tenere aperto un negoziato con l’Iran limitandosi alle sanzioni prima ed escludendo l’intervento militare. Lo stesso intervento di Berlusconi alla Knesset israeliana ha dato corda ai bellicisti di Tel Aviv ma si è limitato a concedere la sospensione dei contratti petroliferi che l’ENI aveva già deciso e annunciato da tempo di voler fare.

Eppure è possibile, anzi probabile, che nella prossima fase assisteremo ad una escalation sempre più pericolosa contro l’Iran e sarà una escalation la cui variabile indipendente non sarà rappresentata dagli “ayatollah” ma dal governo israeliano e dall’esito delle elezioni di medio termine negli USA. Il principio di lealtà (e di realtà) vorrebbe che una conferenza o un piano che punti ad un processo di disarmo nucleare del Medio Oriente riguardi certo l’Iran ma non può che includere anche Israele. L'unico ad aver avanzato la proposta della denuclearizzazione del Medio Oriente, è stato fino ad oggi il Presidente iraniano intervendo tre anni fa alle Nazioni Unite. Le potenze che vogliono attaccare o isolare l'Iran hanno sempre detto che non era credibile. In realtà – e torniamo alla questione di partenza – se parliamo di programmi nucleari, la proposta di Amadinejhad di denuclearizzare tutta la regione, inclusa Israele, sarebbe la più ragionevole per "rimettere in equilibrio la regione mediorientale" ed evitare nuovi conflitti.

Sergio Cararo

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