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(22 Febbraio 2010)
Nel corso del 2009 la popolazione carceraria francese contava mediamente 63.000 detenuti per circa 50.000 « posti » disponibili in prigioni dove negli ultimi 20 anni il numero dei suicidi é aumentato del 200% ( ogni giorno si verificano tre tentativi di suicidio e ogni tre giorni un detenuto si toglie la vita). Vivere, anzi sopravvivere – non solo psichicamente – in carcere costa caro e ne sanno qualcosa i 16.146 detenuti francesi che nel corso del 2008 – ultimo anno per il quale sono disponibili i dati – hanno lavorato per conto di imprese esterne (8.596), per i servizi generali di manutenzione e funzionamento delle prigioni (6.550) e per imprese degli stessi stabilimenti carcerari che fabbricano oggetti destinati all’amministrazione (1.000). Anche « dentro » é difficile fare a meno del denaro, dato che l’insufficienza del vitto costringe i detenuti a far la spesa allo spaccio della prigione, unico luogo di approvvigionamento anche per quanto riguarda gli articoli di prima necessità (francobolli, penne, prodotti per la pulizia) : il tutto a prezzi molto alti.
L’articolo 717-3 del Codice penale francese esclude la possibilità per i detenuti di « godere » di un contratto di lavoro e di conseguenza non esiste per loro, come per i lavoratori in libertà, il salario minimo, le ferie pagate, i diritti sindacali, l’assenza retribuita per malattia. I detenuti lavorano in pessime condizioni igieniche e di sicurezza, l’aereazione nei laboratori é insufficiente e i macchinari sono vecchi di alcuni decenni e tuttavia per l’amministrazione non é un problema, dato che gli ispettori del lavoro non hanno il diritto di accedere alle prigioni senza essere invitati. La paga é molto inferiore a quella degli altri lavoratori dipendenti, dato che i detenuti sono pagati a cottimo secondo ritmi di produzione fissati dalle imprese per le quali lavorano : in pratica, considerando una paga oraria minima ufficiale di 3,90 euro, lavorando 6 ore il giorno al ritmo richiesto, un detenuto arriva a guadagnare, nel migliore dei casi, 300 euro al mese. Se poi lavora per l’amministrazione, il guadagno é ancora più magro – in media 220 euro al mese – in base ad una sorta di « delocalizzazione in loco » che consente economie notevoli rispetto a quanto sarebbe dovuto al personale esterno di imprese addette alle pulizie o alla preparazione dei pasti.
L’elenco delle imprese che impiegano lavoratori detenuti riserva delle sorprese, dato che vi fanno ricorso aziende diversissime come European Aeronautic Defence and Space company (EADS), gruppo industriale aeronautico e spaziale civile e militare (secondo nel mondo per la difesa), BIC, impresa presente in 5 continenti con un giro ,d’affari di 1 420 milioni di euro nel 2008 presieduta dal Sig. Bruno Bich (la famiglia Bich ne possiede il 40%), l’Oréal (68.000 dipendenti, 17,5 miliardi di giro d’affari nel 2008) di cui la famiglia Bettencourt possiede il 30% e le cui simpatie per l’estrema destra sono note, Yves Rocher, altro colosso dei cosmetici fondato da un signore dello stesso nome, che impiega 15.000 dipendenti e che, fra l’altro, fa confezionare dai detenuti dei leggiadri panierini « speciale festa della mamma ». Naturalmente la legge del massimo profitto terrebbe lontane le imprese se i detenuti potessero disporre di un contratto di lavoro, il lavoro protetto costerebbe troppo ad un contribuente poco disposto a pagare per dei « criminali » ed i corsi di formazione professionale in carcere sarebbero troppo onerosi per uno Stato le cui leggi producono un aumento costante del numero dei detenuti e della spesa per la costruzione di nuove carceri. E dunque la prigione finisce per tradursi non solo nella privazione della libertà ma anche nella necessità di farsi sfruttare per una paga di fame e di lavorare senza usufruire delle condizioni minime di igiene e di sicurezza senza sapere neppure per chi si lavora.
Il trattamento della popolazione carceraria diventa inumano e degradante, simile alle condizioni della schiavitù abolita nel 1848 e, oltre che di propria iniziativa, i detenuti continuano a morire in prigione di AIDS e di altre malattie, dato che lo Stato giustifica la reclusione fino alla morte con la costruzione di ospedali-prigione, le Unità Ospedaliere Sorvegliate Interregionali, come se la pena capitale non fosse stata abolita nel 1981.
Giustiniano Rossi
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