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Detroit bankrupt city

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(19 Luglio 2013) Enzo Apicella
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Un nuovo attacco all’articolo 18

(7 Marzo 2010)

A distanza di circa dieci anni e nel momento in cui si fanno più dolorosamente sentire gli effetti della crisi economica riparte l’attacco ai diritti dei lavoratori e all’art. 18 in materia di licenziamenti individuali con l’intento di rendere ancora più precario il lavoro e di colpire nel suo valore fondativo la Carta costituzionale. E’ stato infatti definitivamente approvato dal Senato il Disegno di Legge n. 1167-B il quale prevede una vera e propria controriforma del diritto del lavoro, non meno grave ed incisiva di quella realizzata con la legge n. 30/2003 e col successivo Decreto legislativo n. 276/2003. La nuova Legge prevede invero che in caso di licenziamento le controversie possono essere devolute alla decisione di un collegio arbitrale il quale potrebbe decidere anche secondo “equità” e quindi a prescindere dalle disposizioni di legge. Viene così tendenzialmente sottratta la tutela dei diritti dei lavoratori alla giurisdizione ordinaria nel cui ambito la specializzazione del Giudice del lavoro è sempre stata ritenuta un irrinunciabile valore. Ma c’è di più perché la clausola compromissoria (quella che affida all’arbitro eventuali controversie in materia di licenziamento) potrebbe essere inserita nel contratto di assunzione del lavoratore e cioè nel momento in cui questi è particolarmente debole anche per la mancanza delle tutele previste in favore dei lavoratori già occupati. Vi sono poi altre norme peggiorative rispetto all’attuale disciplina tra le quali quella intesa a limitare, in caso di conversione giudiziaria del rapporto di lavoro determinato in rapporto indeterminato, il risarcimento del danno in un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (prima commisurata a tutte le retribuzioni perdute), oltre ovviamente alla riammissione del dipendente nel posto di lavoro.

Siamo di fronte ad un’operazione rivolta ad aggirare l’art. 18 con buona pace del relatore del Disegno di legge alla Camera il quale ha detto che occorre smetterla di considerare i lavoratori come dei “minus habeans” facendo finta di ignorare la situazione di inferiorità nella quale essi si trovano in termini di potere e non certo di dignità, proprio quella dignità a tutela della quale si erge l’art. 18 che si vuole in ogni modo bypassare. Il citato Disegno di legge è invero espressione di un progetto rivolto a colpire ulteriormente lo stato sociale disegnato dalla Costituzione come propulsore di giustizia e di equità in attuazione di principi e di idee-forza che costituiscono le direttrici fondamentali per l’esercizio delle funzioni pubbliche, prima fra tutte quella della produzione legislativa. Ora, tra questi principi-cardine spicca proprio quello proclamato dall’art. 1 e ripreso dal successivo art. 4 dello Statuto che fonda la Repubblica sul lavoro come valore assoluto, come diritto-dovere dei cittadini e come fonte del progresso spirituale e materiale della società. La scelta di indicare nel lavoro la pietra angolare della costruzione democratica dello Stato sarebbe poi vana se non fosse stata dalla Costituzione saldata al principio di uguaglianza formulato dall’art. 3 dello stesso Statuto che sancisce la pari dignità sociale di tutti i cittadini facendo carico alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che possano impedire la partecipazione di tutti i lavoratori alla vita economica, politica e sociale del Paese.

Dall’entrata in vigore della Costituzione passarono più di vent’anni prima che l’Ordinamento, con la Legge 20 maggio 1970 n. 300 (Statuto dei lavoratori), venisse dotato di una norma, quella appunto dell’art. 18, che introduceva la possibilità per il lavoratore di ottenere la rimozione del licenziamento illegittimo (quello senza giusta causa o giustificato motivo) con la sua reintegrazione nel posto di lavoro e col risarcimento dell’intero danno subito. A ben guardare, dietro la disciplina introdotta dall’art. 18 dallo Statuto dei Lavoratori c’è il nucleo essenziale di quella “filosofia” costituzionale che considera il lavoro come l’attività umana nella quale deve realizzarsi, in armonica sintesi, la personalità del prestatore d’opera e la crescita civile della comunità. Una “logica” che impone di non trattare la prestazione lavorativa come una qualsiasi merce di scambio.

L’auspicio è che i sindacati insorgano contro questo malinconico tentativo di vanificare il presidio democratico costituito in favore dei lavoratori dal citato articolo 18. Un’operazione sulla quale sono stati invero accesi solo all’ultimo momento i riflettori della protesta da parte dei sindacati e delle forze politiche di opposizione. C’è comunque da sperare che per contenere i danni di un provvedimento ormai varato si faccia strada nell’ambito sindacale e negli ambienti politici più avveduti la consapevolezza di quanto sia ingiusto, e come appaia in questa congiuntura economica addirittura provocatorio, il tentativo di spostare indietro l’orologio della storia sul delicato versante dell’ordinamento in materia di lavoro.

Brindisi, 4 marzo 2010

Michele Di Schiena

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