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(La tolleranza zero)

Torino. Antirazzisti in strada. Solidali con chi lotta contro i CIE e le deportazioni

(20 Marzo 2010)

Sabato 20 marzo passeggiata antirazzista con gli Ubac - musiche popolari delle Alpi libere da piazza Vittorio alle 15 Un punto info itinerante per il centro in solidarietà con gli antirazzisti sotto accusa e con i ribelli dei CIE.

Sotto il testo che distribuiremo domani in piazza sulla vicenda di Joy, la ragazza nigeriana che sta per essere deportata per far cadere il silenzio sul tentativo di stupro da parte di un poliziotto nel CIE di Milano lo scorso agosto.

Joy: un poliziotto la stupra, lo Stato la deporta

Nelle prigioni per migranti, i CIE, soprusi, pestaggi, umiliazioni, cure negate, sedativi nel cibo sono pane quotidiano. Lì chiudono i “senza carte”, uomini e donne colpevoli di cercare un’opportunità di vita nel nostro paese. Vengono dai tanti Sud del mondo: sono fuggiti dalla miseria, dalla guerra, dall’oppressione e qui hanno trovato sfruttamento bestiale, razzismo, leggi speciali.

Lo scorso agosto, quando il pacchetto “sicurezza” è diventato legge e la reclusione nei CIE è passata da due a sei mesi, nelle gabbie degli immigrati è divampata la protesta, con scioperi della fame, episodi di autolesionismo, materassi bruciati, tentativi di fuga.
Per lunghe notti, dalle prigioni dei senza carte si sono levate grida.
Grida nel silenzio.

Nel CIE di Milano la protesta è diventata rivolta. 18 uomini e 5 donne sono stati arrestati.

Le ragazze si chiamano Joy, Hellen, Priscilla, Debby, Florence: alla prima udienza del loro processo – all’apparire in aula dell’ispettore capo di polizia Vittorio Addesso – hanno gridato forte. La loro rabbia andava oltre la paura. Addesso aveva fatto violenza a Joy, convinto che una ragazza in prigione, africana e prostituta non si sarebbe ribellata.

Invece la dignità è più forte della violenza dello Stato, più forte del giogo patriarcale.

Il racconto della ragazza la dice lunga su chi, vestendo la divisa, pensa di poter disporre liberamente dei corpi rinchiusi dentro al CIE. Gente senza carte, senza diritti, senza futuro. Durante la rivolta la violenza dei poliziotti non certo per caso si è concentrata su di lei e sulle ragazze che avevano assistito ai violenti palpeggiamenti di Addesso. A terra, ammanettata, è stata più volte manganellata come anche le sue compagne. Il suo rifiuto le è costato anche un pugno in faccia dall’ispettore-capo in persona.

In settembre le ribelli e i ribelli del CIE sono stati condannati a sei mesi. Uno di loro a dicembre l’ha fatta finita uccidendosi. Sapeva che, per gente come lui, le gabbie non finiscono mai. E la forza che l’aveva sorretto nel deserto, nel mare, nel CIE per migranti, l’ha infine abbandonato.

Le cinque ragazze, finiti i sei mesi, sono state (ri)portate nei CIE.

Joy da qualche giorno è in quello di Ponte Galeria, a Roma. Qui da due settimane gli immigrati scioperano e protestano contro le restrizioni imposte dalla cooperativa Auxilium, subentrata alla Croce Rossa nella gestione di un centro tra i peggiori d’Italia. Auxilium ha deciso di tenere chiusi in cella i reclusi, permettendo l’uscita solo per l’ora d’aria. C’é qualcuno che ancora dubita che i CIE siano galere?

Per Joy e due sue compagne, Hellen e Florence, il CIE di Ponte Galeria è l’anticamera della deportazione in Nigeria. Nonostante la ragazza abbia intrapreso il percorso per ottenere il permesso in base alla legge che “dovrebbe” tutelare le vittime di tratta, la vogliono buttare fuori. Le sue accuse all’ispettore capo del CIE Addesso la condannano alla deportazione. Un poliziotto prova ripetutamente a stuprarla, lo Stato la butta fuori per tapparle la bocca.

In Nigeria la aspettano gli stessi papponi che l’hanno portata in Italia con il miraggio di un lavoro da parrucchiera, che già hanno minacciato la sua famiglia perché lei non ha ancora saldato il “debito” con i suoi sfruttatori.

Agli angoli delle nostre strade sono tante quelle come Joy, nate senza futuro, con in corpo la violenza dei papponi e quella dello Stato.

Se un giorno qualcuno ci chiederà dov’eravamo quando deportavano la gente, quando davano la caccia agli schiavi nelle campagne, quando uomini e donne morivano in mare e nei cantieri, quando i caporali stringevano le catene al collo di qualcuno, quando un uomo in divisa stuprava una ragazza nel CIE, vorremmo poter rispondere che eravamo lì, con gli altri, a resistere alla barbarie. Anche se un giudice ci chiamerà delinquenti, perché sappiamo bene che i delinquenti, quelli veri, siedono sui banchi del governo e nei consigli di amministrazione delle aziende.

Se non ora quando? Se non io, chi per me?

Federazione Anarchica Torinese - FAI

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