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Dove volano i salami

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    Processo Papini: il naufragio di un teorema?

    (23 Marzo 2010)

    Alla terza udienza del processo a Massimo Papini (svoltasi alla prima Corte d'Assise del Tribunale di Roma) sono emerse clamorosamente le incongruenze dell'impianto accusatorio.

    Processo Papini: il naufragio di un teorema?

    “Non so di preciso”, “non ricordo, sono passati troppi anni”…no, non sono le frasi di un imputato che si sente con le spalle al muro, inchiodato da un Pubblico Ministero implacabile. Sono state, invece, nella terza udienza del processo a Massimo Papini, le espressioni ricorrenti dei diversi teste chiamati dall’accusa, visibilmente in difficoltà non solo nel rispondere alle domande incalzanti della difesa, ma anche a quelle più asettiche della Corte.
    D’altro canto, le falle dell’accusa sono emerse subito, in modo vistoso, non appena ci si è confrontati con il nodo del traffico telefonico tra Massimo e Diana Blefari, considerato addirittura il “punto forte” dell’inchiesta contro il primo. Un documento interno delle nuove Brigate Rosse, analizzato e citato dalla Digos, definisce in modo chiaro le regole di condotta dei militanti di ogni livello dell’organizzazione, a partire dalle modalità di comunicazione tra i suoi membri. Le comunicazioni telefoniche vanno fatte con schede prepagate, dedicate (che possono essere addirittura buttate dopo una telefonata). Inoltre, non vanno mai eseguite in luoghi facilmente riconducibili alla residenza o alle attività lavorative di chi chiama. Nel caso di Massimo Papini, come è emerso dal dibattimento, le telefonate sono state eseguite quasi esclusivamente da luoghi vicini alla casa o al lavoro e sempre con schede definite “promiscue “ (ossia, ad esempio, usate anche per chiamare colleghi di lavoro). Addirittura, la stessa accusa è arrivata a supporre che Massimo abbia utilizzato una scheda telefonica già cominciata, trovata in una cabina. Non rendendosi conto di cadere nel ridicolo involontario, l’accusa – nello spiegare una condotta così “fuori linea” rispetto a precetti tanto rigidi – formulava la “ipotesi” investigativa dell’imprecisione permanente o della natura pasticciona del “militante di terzo livello” Papini.
    La verifica della verosimiglianza del proprio impianto non sembra aver tolto sonno all’accusa, nella preparazione dell’udienza. Si pensi solo al fatto che Massimo è dato come forza in “rapporto dialettico” con le nuove Brigate Rosse dal 1996. In tale rapporto egli avrebbe avuto come referente esclusivo l’amica Diana Blefari. Ma, alla domanda della difesa circa la datazione dell’entrata di quest’ultima nella organizzazione, da un lato il teste ha detto di non potersi esprimere con precisione, dall’altro ha comunque asserito che tale accadimento non può essersi verificato che in un periodo successivo all’omicidio D’Antona (1999) e precedente a quello Biagi (2002).
    Per suffragare in qualche modo le proprie ipotesi, il dirigente della Digos Giannini (più a suo agio con le grandi narrazioni storiche che con la restituzione dei particolari di una inchiesta), ha citato come “evidenza investigativa” accomunante Papini e Blefari l’esser stati fermati e identificati, con altri, dopo un presidio in zona Valle Aurelia nel 1996. Ciò, anche se l’episodio non ha avuto conseguenze di carattere giudiziario. La manifestazione in questione viene segnalata per la presenza di uno striscione con un tipico emblema del movimento operaio, una stella rossa, peraltro non cerchiata eppure forzatamente trasformata, in sede processuale, nel simbolo dei brigatisti. Alcuni presenti ricordavano bene l’episodio in questione: un momento di mobilitazione contro lo sgombero di una occupazione giovanile, una di quelle espressioni di attivismo un po’ “naif” che mai si sarebbe pensato di veder citata in un processo per associazione sovversiva e partecipazione a banda armata.
    Ma forse il colmo, in un dibattimento tanto lungo (quasi 9 ore!), è stato raggiunto dalla vicequestore Tintisona che è caduta su quello che non è proprio un dettaglio trascurabile. Citando la giornata del 20 marzo del 2002, successiva all’omicidio Biagi, ha forzatamente cercato di ricondurre il transito del cellulare di Massimo nell’area di Termini, avvenuto poco dopo le 20, alla rivendicazione dell’azione da parte delle nuove Brigate Rosse che è stata lanciata da quella zona verso le 22. L’aspetto clamoroso della vicenda è che la dirigente sembrava ignara di quanto risulta dai tabulati: ossia che Massimo a quell’ora era già nella sua casa impegnato in una conversazione telefonica di carattere personale. Proprio sulla base di questo dato tecnico inoppugnabile, il Gip di Bologna, nel 2009, aveva deciso di negare l’ordinanza di custodia cautelare nei suoi confronti.
    Inoltre, uno dei teste, l’”esperto” informatico della Digos, ha incentrato la sua testimonianza sulle prove associate a supporti informatici, distinguendosi per una notevole confusione nell’esposizione. Colpisce, ad esempio, che il teste sia caduto dalle nuvole quando la difesa ha chiesto se durante l’arresto di Massimo fosse stato sequestrato ed analizzato il pc portatile che egli aveva con sé.
    In sostanza, quella che doveva essere la giornata dell’accusa, si è risolta nella sfilata di tutte le sue contraddizioni. Il paradosso è che questo risultato è stato favorito dall’atteggiamento del PM Tescaroli: rispetto al collega Amelio, dominatore della udienza precedente, egli è apparso più legato alla necessità di dare una parvenza fattuale alle accuse. Un simile proposito, però, non ha fatto che mettere in luce le straordinarie incongruenze dell’impianto probatorio, nonché i modi spicci che hanno distinto la conduzione delle indagini contro Massimo Papini. La stessa Corte, nel sottoporre domande di diverso genere ai teste, esprimeva la necessità che le accuse venissero in qualche modo circostanziate, ottenendo, però, il “panico” e l’imbarazzo dei testimoni.
    Verso la fine, il Pm ha cercato di rinviare l’ascolto dell’ultimo dei teste, che si era occupato in particolare del traffico telefonico di Diana Blefari. “Vuole che si prepari meglio?” ha detto sorridendo la Giudice, esprimendo un sentimento molto diffuso nell’aula, ben al di là degli amici, dei colleghi e dei parenti di Massimo presenti come al solito al processo.
    A fronte dell’esito della estenuante giornata di dibattimento, un certo ottimismo si è diffuso tra chi in queste settimane sta conducendo la campagna per la liberazione di Massimo. Ma il fatto che quest’ultimo stia scontando il carcere dall’ottobre del 2009 non solo senza uno straccio di prova o un indizio serio contro di lui, ma addirittura sulla base di un teorema che presenta incongruenze logiche (e cronologiche) senza pari, è semplicemente raggelante.

    Roma, 22 marzo 2010

    Comitato "Massimo libero!"

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