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Taranto

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(29 Luglio 2012) Enzo Apicella

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(Il saccheggio del territorio)

Liscia, gassata o Di Pietro?

Due referendum che fanno acqua da tutte le parti!

(24 Aprile 2010)

Una opinione molto caratterizzata sul possibile uso dei referendum nelle lotte contro la privatizzazione dei beni collettivi.

La sanzione giuridica, legale, referendaria, se non e’ frutto, espressione, prodotto, se non e’ costruita e determinata da lotte e favorevoli rapporti di forza tra le classi, e’ pura pantomima.

LISCIA, GASSATA O DI PIETRO?
Due referendum che fanno acqua da tutte le parti!

Il localismo interclassista dei movimenti territoriali contro le nocivita’ e le devastazioni territoriali tipiche dello sviluppo capitalistico sta lasciando il passo a diatribe e strumentalizzazioni partitico-elettoralistiche.
La composizione sociale interclassista, la scarsa entita’ numerica, il costante inquinamento istituzionale e religioso, lo scarso radicamento di forze anticapitalistiche, stanno trasformando genuini ed autoctoni movimenti sociali in forme di “partecipazione democratica” dei cittadini, dove scompare l’azione diretta ed appaiono schede, urne, preti, politici e sindacalisti.
Cosi’ e’ successo con i No-Tav, grandi elettori di Grillo, cosi’ sta succedendo al forum per l’acqua pubblica, ormai preda delle fibrillazioni di sindaci ed enti locali, accomunati alla pletora di politici trombati della sinistra di stato in cerca di una qualche rivincita elettorale.
Le sincere aspirazioni delle popolazioni locali e le spinte anticapitaliste dei
( pochi! ) militanti presenti faticano ad orientarsi in questo ginepraio piu’ pieno di sigle che di autentici progetti di mobilitazione, blocco e lotta.
Tra sindaci, amministratori, preti e politicanti, anche solo un generico movimento ambientalista rischia di disperdersi, e di non vincere nemmeno alle urne elettorali o referendarie che siano.
Il coacervo di politici alla ricerca della poltrona perduta, di movimentisti senza movimento, di enti locali affamati di finanziamenti statali, di preti da “battaglia”, affossa l’azione diretta e svende le spinte di classe sul tavolo referendario.

Cosi’ e’ sempre successo in mancanza di una strategia anticapitalista interna ai movimenti, cosi’ succede oggi con i 2 referendum “per l’acqua pubblica”.
2 referendum in concorrenza tra loro, ma ambedue con il medesimo scopo: :scippare dalle mani dei legittimi proprietari motivazioni, scopi ed obiettivi delle lotte.
Se da una parte il rischio e’ di perdere anche il referendum (o di non raggiungere nemmeno il quorum come succede dal 1990!) sull’altare di quello che diventerebbe un “vero” referendum pro o contro Berlusconi, dall’altra c’e’ la certezza di attacchinare i manifesti di Di Pietro che, con i suoi referendum “contro la privatizzazione dell’acqua, contro il nucleare, contro il legittimo impedimento”, raschia il barile dell’opposizione sparita in diretta competizione con il P.D..
Una doppa negativita’ del terreno referendario che oltre a produrre probabili sconfitte, scoramenti e riflussi, inquina i movimenti con la malsana ideologia della “democrazia partecipativa delle urne”.


La constatazione che una risposta forte a queste manovre non venga ne’ dalle popolazioni ne’ dalle forze antagoniste pur presenti denota la loro demotivazione e la loro debolezza organizzativa.
Ed il punto e’ proprio questo!
Finche’ non si riesce ad innervare ogni movimento civile della pulsione anticapitalista per spiegare le reali motivazioni di ogni devastazione della natura, ci sara’ sempre qualcuno, interessato, ad utilizzarlo per scopi ed interessi non propri.

Si vorrebe, oggi, qui ed ora, l’acqua bene comune.
O e’ un utopia, o e’ un imbroglio.
E comunque non potra’ essere certo sancita senza mobilitazione diretta, da un improbabile risultato referendario.
Questa non e’ una societa’ comunista, appunto del bene comune, dove la proprieta’ privata non esiste piu’.
Questa e’ una societa’ capitalista, in cui l’acqua, come tutto il resto, ha i suoi padroni, i suoi distributori interessati, legati spesso al profitto ed alle cosche.
E non parliamo solo della sete dell’Africa o dell’India, ma anche di quella della “civile” Europa, se non addirittura della patria dell’acqua santa: l’Italia.
Quanti sono i paesi ed i quartieri metropolitani senza acqua o con l’acqua a singhiozzo, in quante zone le fonti e la distribuzione sono in mano ai mafiosi od ai camorristi, quante sono le acque “minerali” che producono profitto, e chi sono i loro padroni?
Anche oggi, decreto Ronchi o no, l’acqua non e’ una risorsa immune da speculazioni, non fosse altro che e’ inserita da decenni sul mercato.
Le piu’ grandi aziende municipalizzate che ne hanno la gestione sono quotate in borsa, dove diventa sottilissima la distinzione tra societa’ controllate dall’azionista pubblico o privato.
Tutti e due si muovono per il profitto, e si muovono su un mercato mondiale difficilmente controllabile.
Le stesse societa’ non quotate, con partecipazione di minoranza dei privati, hanno amministratori delegati con precisi obblighi di bilancio.
Vogliamo dire che per rendere sul serio l’acqua pubblica, “bene comune”, dovrebbe essere privata di ogni valore economico, cioe’ dovrebbe essere tolta dal mercato.
E questo, permettetecelo, e’ materia di una rivoluzione sociale, piu’ che di una campagna referendaria.
Ma anche lasciando stare i massimi sistemi, ci sembra evidente che la gestione degli enti locali sull’acqua produce il 30% di perdite medie della rete idrica, mentre la sua qualita’ e’ scadente, soprattutto al meridione, e le bollette sono fuori controllo.
Le tariffe applicate non possono essere eque perche’ servono a scaricare le inefficienze politiche dei gestori locali sulle bollette.
Contro la privatizzazione certo, ma anche contro il mercato capitalista.
Tanto per non prendersi in giro.

COMBAT

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