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(18 Maggio 2010)
Li chiameranno eroi, di fatto sono vittime di quello che il governo Berlusconi continua a definire intervento di “pace”. Massimiliano Ramadù e Luigi Pascazio sono gli ultimi due militari italiani a perdere la vita nella missione internazionale, prima Enduring Freedom ora Isaf, cui l’Italia partecipa dal 2004 in Afghanistan. Finora sono ventiquattro i nostri soldati deceduti in agguati e attentati, più due morti per malore. Millecento gli americani, trecentottantatre di altre nazioni. Imprecise le vittime afgane, la cifra oscilla attorno ai cinquantamila, per due terzi vittime civili decimate dai bombardamenti compiuti dall’aviazione e via terra nel corso di azioni cicliche della multiforza occidentale. Il rapporto assolutamente squilibrato fra l’ingente impegno della missione e i risultati ottenuti è sotto gli occhi degli analisti di tutte le tendenze politiche, tant’è che anche i più vicini ai neocon repubblicani, da sempre intransigenti sostenitori del militarismo del loro Paese, palesano difficoltà nell’illustrare dopo otto anni e mezzo i risultati dell’intervento. Esso appare tutt’altro che redditizio sotto il profilo geopolitico, tanto che taluni hanno profilato per gli States che ne sono i maggiori sostenitori lo spettro d’un nuovo Viet-nam, e terribilmente dispendioso in una fase di recessione economica che piega il tenore di vita del ceto medio statunitense. La Casa Bianca ha finora speso cifre esorbitanti per la missione, da alcuni quantizzate in oltre 900 miliardi di dollari che sono, come per tutte le componenti militari che vi partecipano, utilizzati per l’80-90% per armamenti, fattori logistici e mantenimento delle truppe negli scenari di guerra. I costi delle missioni rappresentano macigni per l’economia d’ogni nazione. L’Italia attualmente conta 3.227 militari nell’area di Kabul con l’Italfor XX e in quella di Herat fino alla provincia di Farah, nella cui zona (Bala Morghab) si è verificato l’agguato mortale di ieri. In quel territorio erano da circa due mesi sopraggiunti 1.800 alpini della Brigata Taurinense che si alternano alla brigata meccanizzata Sassari, ai parà del 186° Folgore, più reparti di Carabinieri, Aeronautica, Marina e Finanza. Rientrano nei 40.000 nostri militari che con turni di circa 8.000 unità sono impegnati nelle 31 missioni internazionali. Ai primi di marzo dopo il Senato anche la Camera aveva votato con amplissima maggioranza (astensione della sola Idv) il rifinanziamento di questi interventi. Per l’Afghanistan sino al 30 giugno sono stati stanziati 309 milioni di euro, cui seguirà probabilmente una seconda tranche. Nel 2009 gli euro erano stati 500 milioni, nel 2008 335. Poiché la Finanziaria 2010 ammontava a 9,2 miliardi di euro questa spese hanno tolto necessariamente risorse a servizi vitali per la collettività, pensiamo che l’istruzione pubblica s’è trovata senza fondi, con 300 milioni di euro rivolti alla messa in sicurezza degli edifici e quella privata ha avuto la promessa di 130 milioni di euro finora non ricevuti. Le polemiche su costi e benefici di queste missioni continua a crescere man mano che esse appaiono per quelle che sono: operazioni di guerra, visto che gli sbandierati interventi per la popolazione sono minimi, spesso si ricostruisce ciò che i bombardamenti distruggono oppure le opere civili risultano estremamente insufficienti rispetto alla profusione di denaro proiettato autoreferenzialmente. Un esempio. Il centro sanitario italiano (Role 1, infermeria e pronto soccorso) può essere usato anche dalla popolazione locale ma è una goccia nel mare rispetto a iniziative tipicamente umanitarie come gli osteggiati ospedali di Emergency o quello che le vere organizzazioni umanitarie riescono a creare. I nostri tiggì potrebbero riferire che a una Ong tre ospedali, un centro maternità, un pronto soccorso e 27 cliniche costano sei milioni di euro. Cifre che rapportate a quelle militari sono probabilmente contenute perché il personale impiegato è prevalentemente volontario e i militari non lo sono. Sono invece attirati, come il povero caporal-maggiore Pascazio dai guadagni della carriera che di fronte a eventi tragici come quello che l’ha colpito non sono correlati ai rischi. Anello ancora più debole della contorta favola della missione di pace è la popolazione afgana che vive con 10 dollari al mese e che per bocca di alcuni esponenti democratici ribadisce come l’Isaf sia visto come esercito d’occupazione. Solo il governo Karzai, che le elezioni farsa dei mesi scorsi ha messo a nudo ancor più di quelle del 2005, trae vantaggio dalla presenza della multiforza perché nel patteggiare coi signori della guerra (il tagico Rabbani, l’uzbeco Dostum, l’ex suo ministro Adbullah, il filo saudita Sayyaf) il controllo delle varie zone prosegue a svolgere i suoi affari privati. Affari curati dal fratello Walid e incentrati su produzione e commercio del papavero da oppio, oggi presente in tutte le 32 province con 165.000 ettari coltivati che erano 91.000 per 18 province prima che i talebani venissero espulsi da Kabul. Verso quei talebani che dice di combattere Obama ha abbassato la guardia cercando, come ha fatto nel vertice di Londra, di trattare coi più “morbidi”. Il presidente democratico che tante speranze offriva a un cambiamento di rotta sembra tentato dalla medesima roulette che portò i predecessori a finanziare e addestrare i fondamentalismi del deobandismo e di Al Qaeda.
Enrico Campofreda
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