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Ancora sangue in Medioriente

(2 Giugno 2010)

L’aggressione di reparti scelti dell’Esercito israeliano contro una flottiglia di mercantili noleggiati da pacifisti di varie nazionalità, che intendevano forzare il blocco navale della striscia di Gaza e portare beni di conforto per la popolazione sottoposta all’embargo, è un nuovo atto di guerra in una regione che da un secolo non ha pace.

Mentre il linguaggio diplomatico degli Stati affonda nella fanghiglia dei dibattiti nel sontuoso palazzo dell’ONU, dimostrando tutta la sua inconcludenza e ipocrisia, la guerra, col suo carico di sangue e di sofferenze, si impone ancora una volta, unica soluzione al precipitare della crisi economica che oggi strangola la società dei borghesi e del capitale mondiale.

Le continue provocazioni del borghese Stato d’Israele nei confronti dei vicini Stati e popolazioni non sono che uno strumento della politica imperiale del capitale mondiale e in particolare statunitense, interessato ad un focolaio di tensione sempre acceso nella cruciale regione e a mantenerla politicamente ed economicamente divisa.

Il borghese Stato d’Israele, come e forse più degli altri Stati industrializzati, sta inoltre attraversando una crisi profonda al suo interno, dal punto di vista economico ma anche politico e sociale. Già l’attacco al Libano e l’offensiva “piombo fuso” contro Gaza avevano mostrato come per allentare la sua situazione di crisi il governo israeliano non veda alternative alla guerra.

Tutte queste guerre hanno avuto come prima vittima la popolazione civile palestinese, e in particolare il proletariato. Ma vittime ne sono anche i proletari ebrei, costretti nell’esercito a comportarsi come aguzzini e, nello stesso tempo, ad accettare ogni sacrificio imposto in nome della "difesa nazionale", in realtà per difendere gli interessi strategici della propria borghesia.

Le continue guerre non hanno quindi portato né alla sicurezza e né alla pace promessi ormai a tre generazioni, al contrario rischiano di coinvolgere l’intera regione in un nuovo conflitto aperto, che avrebbe conseguenze disastrose per l’intero proletariato, senza distinzione di religione, razza, nazionalità.

Quel che si teme è che il proletariato d’Israele, come quello di tutti i paesi, traviato da decenni di propaganda guerrafondaia da parte della socialdemocrazia come dei partiti apertamente reazionari, cessi di offrire la sua solidarietà alle classi dominanti, sempre più corrotte, incapaci, interessate e ossessionate soltanto dal mantenimento del loro potere e dei loro privilegi.

C’è un’altra strada, diversa e opposta da quella percorsa sino ad ora, che la classe lavoratrice di tutti i paesi e anche di Israele può iniziare a percorrere, quella della solidarietà e della lotta di classe. In Medioriente significa l’unione e la collaborazione col proletariato israeliano con quello di Palestina e dell’intera regione, lottando contro la propria borghesia per la difesa dei suoi interessi di classe, immediati e futuri. Per questo occorre che il proletariato ritrovi la propria indipendenza politica, il proprio partito, l’indirizzo del comunismo internazionalista e rivoluzionario, e la stessa strada percorrerà l’intero proletariato della regione.

Dove hanno condotto le prospettive borghesi, quelle che si dicevano "più realiste"? È per ritrovarsi nella galera di Gaza e della Cisgiordania, con salari da fame e nessuna prospettiva di vita decente, che migliaia di giovani proletari palestinesi hanno dato la loro fiducia ai partiti nazionalisti? Cosa potrà offrire il micro-nazionalismo palestinese ai lavoratori in una situazione di crisi che sta mettendo alla fame milioni di disoccupati anche nei grandi Stati industrializzati?

Contro la guerra tra Stati guerra tra le classi per l’emancipazione proletaria, per la vera pace della società senza classi, per il Comunismo! Questa prospettiva, che appare oggi così lontana da sembrare un’inattuabile utopia, è l’unica prospettiva realistica per l’emancipazione proletaria.

Partito Comunista Internazionale

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