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(31 Luglio 2011) Enzo Apicella

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La crisi nei tempi medi. Quali sbocchi possibili?

Documento per la discussione nel convegno nazionale del 19 giugno a Bologna

(8 Giugno 2010)

Una ripresa della analisi della crisi se va fatta su basi solide e dunque, vanno affrontati i nodi della crisi che oggi non riguarda più solo una corretta lettura teorica marxista ma anche la vita sociale e politica del nostro paese.

Non possiamo che riprendere il lavoro relativo ai dati strutturali che abbiamo lasciato in “stand by”, e non limitarci ad approfondire quegli elementi già individuati in passato e che sono stati in qualche modo verificati negli sviluppi successivi.

Riprendere l’indagine sulla crisi significa metterci nelle condizioni di capire come rapportarci ed organizzarci sia rispetto al piano direttamente politico che quello progettuale di tipo sindacale e sociale in funzione degli sviluppi possibili della condizione generale.

Per cominciare a ragionare dobbiamo fare riferimento a due questioni che abbiamo affrontato in modo approfondito negli anni passati; quello delle mutazioni dell’imperialismo e quello della composizione di classe nazionale ed internazionale.

Le fasi dell’imperialismo - Cercando di riassumere le nostre analisi, pubblicate su diversi quaderni e libri che abbiamo dedicato all’imperialismo, è utile ricordare le sue evoluzioni. Se periodizziamo la nostra analisi possiamo dire che ci sono state tre fasi ben caratterizzate da alcuni elementi di fondo. La prima è quella degli imperi coloniali, quello britannico ad esempio, cioè la fase del controllo militare dei territori che rapinava ed in cui indirizzava le risorse dei paesi periferici verso il centro e verso gli apparati produttivi nazionali caratterizzati dalla manifattura e dalle prime grandi fabbriche. Questa fase si è protratta fino all’inizio del primo decennio del ‘900, periodo in cui con la concentrazione e l’affermazione dei monopoli, si comincia ad intravvedere il passaggio successivo.

Il secondo è quello legato all’analisi di Lenin dove il cambiamento delle forme imperialiste comincia ad essere più evidente. Rimane prevalente la dimensione nazionale della produzione e si apre il conflitto per il controllo delle esportazioni e per la conquista dei mercati di sbocco per le merci prodotte in patria e per la libera circolazione dei propri capitali. Questo passaggio matura su ampia scala nel periodo storico segnato dalle due guerre mondiali e dalla rivoluzione Bolscevica.

Lo sviluppo di questa nuova modalità imperialista si manifesta in modo forte ed allargato dopo la fine della seconda guerra mondiale; infatti si offre la possibilità di ricostruire i paesi devastati rilanciando il ciclo economico, soprattutto in Europa, e riconosce agli USA il ruolo di incontrastato paese guida in occidente e nelle economie capitaliste.

Questo permette agli Stati Uniti di utilizzare il proprio patrimonio industriale rimasto intatto durante il periodo bellico divenendo così in quel periodo la “fabbrica” che esporta merci e capitale (ed ideologia) in tutto il mondo. Anche sul piano più strettamente industriale c’è un salto di paradigma, dalla manifattura alla fabbrica fordista con un aumento della produttività e della produzione, che permette agli USA di tenere testa alle sue nuove responsabilità internazionali.

Questa ulteriore modalità comincia ad entrare in una fase di sovrapproduzione alla fine degli anni ’60 e poi, in modo evidente, per tutti gli anni ’70. Il fortissimo conflitto di classe dentro i paesi capitalistici e la presenza limitante, per gli spazi che richiedeva a quel punto lo sviluppo imperialista, dell’URSS e dei movimenti di liberazione innestano un nuovo salto nel sistema produttivo che, utilizzando la rivoluzione scientifica e tecnologica, comincia a disgregare l’unità di classe formatasi dentro le enormi fabbriche fordiste create nei decenni precedenti e che erano il centro della produzione mondiale.

2 Si apre, perciò, un nuovo periodo di profonda trasformazione che porterà alla produzione flessibile, alla delocalizzazione, all’aumento enorme dello sfruttamento a livello mondiale ed a molte altre conseguenze già da noi più volte descritte. Oggi possiamo dire che quelle tendenze della fine degli anni ’70 sono ora manifeste nei loro sviluppi e negli effetti a tutti i livelli.

Le stesse modalità della produzione sono state ribaltate con le multinazionali che “emigrano” con nuovi impianti industriali nei paesi “periferici” incrementando gli investimenti diretti esteri, aumentando i profitti, sfruttando in modo selvaggio la forza lavoro e lasciando ai popoli dei paesi imperialisti la funzione di “consumatori” riesportando in patria le merci prodotte per allargare il mercato; in tal modo riescono anche a modificare profondamente la stessa percezione politica e sociale delle classi subalterne nei propri paesi.

Le mutazioni di/della composizione di classe - Seguendo gli sviluppo del sistema produttivo la composizione di classe e della società in generale si evolve a sua volta. Con la prima fase dell’imperialismo si ha una trasformazione profonda dei settori sociali. Si incrementa nel tempo il proletariato industriale e, schematizzando, abbiamo una società “piramidale” dove ad uno stretto vertice formato dalla borghesia corrisponde una base sociale proletaria ampia, sfruttata, con bassi salari e dunque non ancora individuata come condizione per il consumo di massa.

Qui il mercato ha una dimensione strettamente nazionale dove le classi subalterne vengono sfruttate ed il salario serve quasi esclusivamente alla loro riproduzione. Questo assetto sociale si protrae fino alla fine della crisi degli anni ‘20 e ’30 e caratterizza tutto il mondo capitalista, anche dopo la rivoluzione Bolscevica.

Con la ripresa del secondo dopoguerra la situazione comincia a mutare radicalmente. Negli USA prende quota il boom economico e si sviluppano i cosiddetti “ceti medi” che mantengono la condizione di subordinazione nel processo produttivo ma cominciano ad avere maggiore reddito funzionale alla crescita dei consumi e dunque del mercato interno. Questa dinamica parte dagli Stati Uniti ma poi si irraggia all’Europa ed al Giappone dove la crescita dell’occupazione e dei redditi danno vita ai diversi miracoli economici e comincia a manifestarsi la cosiddetta società dei 2/3 dove i ceti sociali medio bassi accedono a livelli di consumismo storicamente mai visti prima.

Anche qui prevale la dimensione nazionale della produzione con un forte ruolo dello Stato Keynesiano e prende corpo nei confronti degli USA una competizione internazionale, limitata al solo piano economico, con paesi come Germania e Giappone sconfitti nella seconda guerra mondiale ma che avevano recuperato il terreno perso nei decenni precedenti.

Questa situazione si protrae fino ai primi anni ’70 quando comincia a riemergere la crisi da sovrapproduzione di merci. Quegli anni aprono, infatti, una fase di crisi dove le contraddizioni economiche dell’economia capitalista fanno da volano ad un forte scontro di classe internazionale che coinvolge direttamente anche i paesi capitalisti, naturalmente in modo diversificato, con la crescita del conflitto di classe interno.

A quel punto viene avviato un forte processo di riorganizzazione produttiva, finanziaria e sociale che prepara la fase presente con l’internazionalizzazione dei processi produttivi, processi che fino a quel momento erano stati in prevalenza interni agli Stati capitalisti sviluppati ed al controllo diretto delle borghesie nazionali e dei suoi apparati politici. Come sappiamo, ed abbiamo già più volte analizzato, la composizione di classe e sociale si modifica e si “spalma” sulla dimensione internazionale.

Cambiano di nuovo le “figure“ della composizione di classe e quel processo che aveva fatto crescere i redditi nei paesi sviluppati modifica nuovamente direzione e comincia a riprendere la divaricazione tra diversi settori sociali. Quelli con caratteristiche proletarie e subordinate vedono erodere con gradualità ma sistematicamente le proprie condizioni salariali e di vita, grazie anche alla polverizzazione produttiva in cui sono stati condotti che ha generato una diffusa impotenza politica.

In sintesi quelli che vengono definiti “ceti medi” in realtà subiscono in larga parte riduzioni di reddito, mentre parti minoritarie possono avere aspettative di una ulteriore crescita economica.

Questo processo in realtà si manifesta oggi in modo chiaro grazie alla crisi finanziaria che non 3 permette più il livello di consumi che il processo di finanziarizzazione aveva sostenuto negli ultimi due decenni.

I CARATTERI DELLE TRANSIZIONI

Il primo passaggio che dobbiamo evidenziare, dalla produzione manifatturiera a quella fordista, matura nel conflitto che caratterizza il periodo che va dalla prima alla seconda guerra mondiale, periodo in cui nasce e si consolida anche l’URSS. La fine dei fascismi ed il mantenimento dell’apparto produttivo USA consentono l’affermazione del nuovo ruolo imperialista di questo paese che, a differenza delle fasi precedenti, diviene unico ed egemone nella sfera capitalistica.

Questa condizione eccezionale permette un rilancio del ciclo produttivo che si basa sulla maggiore produttività delle moderne fabbriche e sulla ricostruzione dell’Europa e del Giappone fatta con capitali statunitensi. Questo forte sviluppo dato dal ruolo egemone degli USA non trova un ostacolo nemmeno nel contemporaneo rafforzamento dell’URSS avuto nei due decenni che seguono la fine della guerra.

Dunque la ripresa economica del dopoguerra era basata sulla ricostruzione e su un apparato produttivo situato negli Stati Uniti che aveva un potenziale di crescita industriale coerente con le condizioni generali che si manifestavano in quel periodo.
In altre parole la crescita quantitativa ad egemonia americana era divenuta realtà ed aveva sostituito l’Inghilterra nel suo ruolo internazionale ed in un contesto di superamento dei conflitti interimperialistici.

Il secondo passaggio si rende necessario rispetto all’accumulo di contraddizioni che si era determinato negli anni ’70 sia rispetto alla condizione interna agli Stati Uniti che sul piano internazionale. Gli strumenti messi in campo per superare quella strettoia sono stati molteplici a partire dall’uso della rivoluzione scientifica e tecnologica che ha permesso l’aumento della produttività, la scomposizione della classe operaia e la ripresa dei profitti. Si è dato vita contemporaneamente ai processi di finanziarizzazione che hanno dato corso alle privatizzazioni ed alla speculazione; ma con la politica del credito sono stati sostenuti anche i redditi dei ceti medi mantenendo cosi alto il livello dei consumi. La leva finanziaria è stata utilizzata anche per avviare una politica di rapina nei confronti dei paesi periferici tramite il FMI e la Banca Mondiale, soprattutto nei confronti dei paesi dell’America Latina; questo tipo di politica economica ha permesso una tenuta dell’economia capitalistica negli anni ’80.

Poi nei confronti dell’URSS è stato aperto un duro confronto che ha portato all’affermazione del keynesismo di guerra preparando le famose quanto improbabili “guerre stellari”, in realtà funzionali a rilanciare il ciclo economico della propria industria bellica ed a mettere - con l’istallazione degli euromissili - sotto ricatto i paesi europei che intendevano aprirsi al dialogo con l’Unione Sovietica. Ma queste misure varate con la presidenza di Reagan dal 1980 avrebbero avuto effetti limitati, come dimostrò poi la crisi di Wall Street nel 1987, se non ci fosse stato il crollo dell’URSS e, conseguentemente, dei movimenti di liberazione e degli Stati dell’allora terzo mondo a questa legati.

La fine dell’antagonismo con l’URSS ha, negli anni ’90, allargato di nuovo gli spazi di mercato rendendoli funzionali al potenziale di sviluppo raggiunto dagli apparati produttivi delle potenze imperialiste, in questo modo si è riaperto un ciclo di crescita del quale oggi noi cominciamo a vederne i limiti e la crisi. Dimensione ulteriormente accresciuta anche dalla politica di apertura e di riforme economiche della Cina e India che hanno offerto a partire dagli anni ‘90 spazi ben più consistenti di quelli forniti negli anni ’80 dalle allora “famose”, ma ormai dimenticate, cinque tigri dell’Asia Orientale.

Una ipotesi sulla composizione sociale - Questa nuova condizione generale prodotta dalla fine dell’URSS, dalla internazionalizzazione della produzione flessibile, dalla ritrovata competizione globale, etc. ripropongono una nuova dinamica della società a partire dai paesi 4 imperialisti fino a quelli della periferia. La società cosiddetta dei 2/3 ormai non tiene più con l’evidente crisi dei “ceti medi” in atto nei centri imperialisti. Si ripropone dunque una divaricazione sociale crescente che riguarda da noi anche le figure professionalizzate e qualificate che fino a poco tempo fa erano considerate privilegiate e garantite.

C’è inoltre una differenza sostanziale dai periodi precedenti, infatti se ci limitiamo a guardare i paesi sviluppati vediamo una società dove aumenta la divaricazione sociale, in cui i ceti medi perdono terreno ma non ci sono precipitazioni brutali per ampi strati della popolazione. L’ultimo gradino di questa scala sociale sono, infatti, gli immigrati.

Ma poiché la dimensione della classe lungo le filiere produttive è di tipo internazionale la figura che descrive meglio l’attuale composizione sociale mondiale, cioè oltre quella dei centri sviluppati, è tornata ad essere quella capitalistica originaria della “piramide”, dove ad un vertice sempre più ristretto corrisponde una base, che riguarda gran parte dell’umanità, le cui condizioni sono quelle classicamente proletarie.

In sintesi potremmo dire che il superamento dei vari momenti di crisi è stato possibile da parte del capitale con uno sviluppo delle forze produttive in generale ma anche con salti quantitativi del mercato, per estensione geografica e per “intensità” tramite i processi generalizzati di privatizzazione, che oggi ormai copre tutto il mondo confermandosi come modo di produzione egemone.

QUALE USCITA DALLA CRISI?

Se facciamo una panoramica delle analisi che vengono fatte oggi, sia nel nostro paese che internazionale, si può dire che l’analisi dei marxisti è abbastanza omogenea sulla interpretazione delle dinamiche mondiali che hanno portato alla crisi attuale. Sul piano della prospettiva emergono invece delle divaricazioni teoriche e politiche che vanno analizzate più a fondo perché sono per noi una indicazione di lavoro politico e sociale.

I punti che vedono una omogeneità di lettura nell’ambito marxista e che possono rappresentare una base comune da cui partire per gli approfondimenti sono elencati schematicamente qui di seguito ma non in ordine di importanza: - I tempi della risoluzione della crisi non sono brevi, non è possibile prevedere in modo certo una precipitazione verticale o meno, ma è convinzione diffusa che ci troveremo a convivere con questa crisi, con alti e bassi, per tempi non brevi. Questa valutazione non è fatta solo dai marxisti ma è anche da economisti borghesi e dal mondo dell’industria.

- Siamo di fronte ad una crisi di sovrapproduzione di capitali intesa non come crisi solo finanziaria ma come crisi di sistema che nasce a cavalo degli anni 70/80 e che dovrà cambiare molte cose per essere superata , in un verso o in un altro. Quale ancora non lo sanno nemmeno chi “dirige” l’economia mondiale.

- La situazione attuale porta verso un incrudimento della lotta di classedall’alto verso e contro il “basso”. Questo “effetto collaterale” si irradia dai centri finanziari mondiali, produce conseguenze pesanti rispetto alla periferia produttiva nei paesi subordinati ma non risparmia neanche i centri imperialisti sebbene debba tenere presente il sostegno alla domanda che nel centro, almeno fino ad oggi, contiene maggior valore.

- E’ evidente a tutti la fase distruttiva del ciclo economico che va dalla distruzione dei mezzi di produzione ampiamente intesi, a partire dalla forza lavoro, fino all’uso endemico della guerra che agisce a livello mondiale in modo “erratico” fin dagli anni ’90.

- Torna ufficialmente centrale il ruolo dello Stato che interviene direttamente nell’economia a sostegno del solo versante del Capitale con l’intento dichiarato di superare la crisi ma con il probabile effetto reale di dilazionarne solo i tempi della sua manifestazione. Questo è un elemento da tener ben presente nel processo di politicizzazione in corso nell’economia e che ci riguarda direttamente.

5 - I costi socialidella crisi cominciano a manifestarsi in vario modo seppure ancora in ordine sparso e con una capacità limitata - in Italia sicuramente - di sostegno da parte dello Stato orientato a salvaguardare soprattutto le banche ed le imprese. Questa condizione genera inoltre una riduzione dei consumi che non possono essere più sostenuti dal credito che fino a ieri fornivano le banche.

Fin qui abbiamo una fotografia della situazione che si è determinata e che comunque va analizzata a fondo per capire gli spazi che apre o chiude sia a livello politico che sociale, questioni queste che riguardano la nostra azione quotidiana e che non può partire dallo specifico operativo in cui siamo collocati.

La domanda da farci, sulla quale bisogna anche lavorare “alacremente”, è se il capitale può uscire dalla crisi rilanciando lo sviluppo generale ed in quale misura, oppure se è condannato a rimanere in una fase di stagnazione i cui sbocchi non sono prevedibili nemmeno per chi gestisce il potere finanziario, economico e politico del pianeta. Il tipo di lavoro da fare è simile a quello da noi sviluppato sulla questione dell’imperialismo fino al 2003 in quanto gli sviluppi di questa situazione segneranno in modo consistente le prospettive e potrebbero rimettere in discussione anche le analisi che abbiamo fatto in passato.

In sostanza la domanda “giusta” che ci dobbiamo fare è: se le dinamiche avute nei decenni passati fin qui sinteticamente esposte sono corrette, è realistico ipotizzare che la via di uscita per il capitale non può che essere la riproposizione della società dei 2/3 -come è avvenuto nel secondo dopoguerra - a livello internazionale puntando ad una ulteriore crescita del mercato (tramite i nuovi ceti medi? Una sua intensificazione con le privatizzazioni? Altro ancora?) che fornisca uno sbocco sufficientemente ampio alle contraddizioni interne che hanno portato la situazione attuale?

Certamente per avere una risposta non possono bastare solo l’analisi delle dinamiche nè i dati relativi e parziali che abbiamo a disposizione. Quello che conta per il Modo di Produzione Capitalista è il dato quantitativo relativo alle sue necessità di valorizzazione ed è su questo che va avviata da parte nostra una seria fase di ricerca per capire concretamente in quale condizione ci troveremo ad operare.

Gli elementi che ci sono di riferimento per una ripresa o per la stagnazione possono essere: Lo sviluppo tecnologico. Questo è stato uno degli elementi che negli ultimi decenni ha permesso al capitale il recupero delle posizioni perse ed ha dato la possibilità di una integrazione mondiale dell’economia occupando spazi di dimensione continentale per rilanciare la crescita.

Questo aumento della composizione organica del capitale è ancora un terreno praticabile per fuoriuscire dalla crisi oppure il declino del tasso di profitto impedirà il rilancio visto l’inevitabile peggioramento delle condizioni della forza lavoro? Cioè il contenimento del salario globale prodotto dallo sviluppo delle forze produttive sta diventando un limite assoluto per la ripresa dei profitti?

Allargamento dei mercati. L’importanza di questo nello sviluppo del capitalismo è evidente analizzando le possibilità che hanno dato sia la ricostruzione dell’Europa e del Giappone per gli USA nell’ultimo dopoguerra, sia l’apertura dei mercati a livello mondiale dopo la fine dell’URSS. Esistono spazi tali oggi da dare adeguate e proporzionate possibilità di crescita ad una economia capitalista che storicamente non ha mai avuto la dimensione attuale? Il coinvolgimento della Cina, dell’India e del Brasile, la “riscoperta” dell’Africa possono garantire una ripresa di lungo periodo oppure gli spazi praticabili cominciano ad essere di fatto marginali di fronte alla dimensione raggiunta dall’economia capitalista? Sono concepibili processi di privatizzazione estesi che diano anche “profondità” alla crescita del mercato?

La finanziarizzazione. Fino ad oggi questo è stato uno strumento che ha garantito la crescita, la circolazione ed anche le possibilità di consumo delle popolazione dei centri imperialisti. Il credito alle famiglie, alle imprese e la speculazione ha sostenuto una crescita drogata. Abbiamo visto la dimensione degli aiuti che sono stati forniti dagli Stati ai centri finanziari, ma stiamo anche assistendo alla ripresa della speculazione proprio a partire dagli aiuti ricevuti. E’ questo ora un arnese inutilizzabile oppure può svolgere ancora un ruolo per la ripresa dei profitti magari favorendo la ripresa dei consumi dei nuovi ceti medi della periferia produttiva?

6 Gli Stati. La barzelletta sulla inutilità del ruolo dello Stato è crollata nell’arco di poche settimane. Se si è parzialmente usciti dalla fase acuta della crisi lo si è dovuto grazie all’intervento pubblico a sostegno del capitale. Ma lo Stato è anche un’arma a doppio taglio, infatti oggi si parla del default di interi Stati che sono sull’orlo della bancarotta, il che, se avvenisse, non darebbe certo possibilità di sviluppo.

Inoltre, se gli Stati non possono che partire necessariamente dai loro interessi economici e geopolitici diretti, questo non facilita certo una concertazione mondiale per superare la crisi che richiederà inevitabilmente “morti e feriti”, almeno sul campo dell’economia se non in quello direttamente di guerra. Inoltre gli Stati che oggi sono una potenzialità per la crescita, Cina, India, Brasile e forse parti dell’Africa, date le loro caratteristiche e condizioni storiche, apriranno all’occidente i propri mercati interni oppure li preserveranno per il loro sviluppo? I fallimenti ripetuti negli ultimi anni dei vari summit internazionali sono sintomatici e lo spettro del protezionismo, nonostante le dichiarazioni ufficiali, rimane ancora un convitato di pietra.

La questione ambientale. A prescindere dalle valutazioni strettamente ambientali questo è un altro nodo non facile da affrontare; infatti se la “green economy” può dare alcuni margini di crescita certamente non è affatto scontato che sia in grado di ricostruire i profitti di una economia in crisi. E sempre a prescindere dall’ambientalismo, come è possibile ipotizzare un livello di consumi più alto dell’attuale, che richiederebbe una crescita economica di ampio respiro, senza subire conseguenze quali, ad esempio, quelle dell’aumento del costo delle materie prime ed in particolare degli idrocarburi?

La lotta di classe dal basso. Gli scenari prefigurati sono portatori di grandi contraddizioni dell’attuale modo di produzione che possono essere risolti o parzialmente risolti nella “dialettica”, pacifica o bellica, tra Imperialismi e Stati. Ciò è possibile nella misura in cui le classi subalterne non acquistino soggettività politica. Questa però è una garanzia che non può essere data anche perché basterebbe non una rivoluzione socialista ma una diversa distribuzione delle ricchezze prodotte dallo stesso Modo di Produzione Capitalista a rendere tutto più complicato per una uscita “concertata” dalla crisi. Certamente le vicende dell’America Latina ed il “socialismo del XXI° secolo” alludono a questa prospettiva, anche se è presto per dare per acquisita una possibilità di offensiva politica irreversibile.

In conclusione come Rete dei Comunisti riteniamo necessario riprendere un serio ed approfondito lavoro di analisi funzionale all’azione politica. Questa però, non essendo una necessità formale, è relativa alla capacità di una corretta lettura delle dinamiche generali. Infatti i cambiamenti avuti negli equilibri economici e politici in questo inizio di secolo vanno ripercorsi attentamente per non cadere nella “coazione a ripetere” che imputiamo agli altri ma che rischiamo di avere anche noi.

La rete dei comunisti

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