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(6 Luglio 2010)
Per la prima volta il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha detto pubblicamente le cose come stanno: l’assedio imposto da Israele a Gaza è illegale in quanto viola il diritto umanitario internazionale.
Ai sensi dell'articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra infatti "nessuna persona protetta può essere punita per un'infrazione che non ha commesso personalmente. Le pene collettive, come pure qualsiasi misura d'intimidazione o di terrorismo, sono vietate … Sono proibite le misure di rappresaglia nei confronti delle persone protette e dei loro beni".
L’assedio israeliano a Gaza iniziato all’indomani della vittoria elettorale di Hamas in elezioni libere e democratiche, e ferocemente inasprito subito dopo la cattura del soldato Shalit, è chiaramente una punizione collettiva ai danni di un milione e mezzo di persone, quindi in fragranze violazione di queste Convenzioni.
Oltre a denunciare il crimine israeliano elencando le sofferenze della popolazione causate dall’assedio, dall’economia collassata sino all’assistenza sanitaria precaria per la carenza di medicinali, il recente comunicato della Croce Rossa Internazionale è interessante perché tratta anche della cosiddetta “buffer zone”, quella porzione di terra nei pressi del confine che Israele ha di fatto sequestrato sparando a chiunque osi avvicinarsi.
Secondo i dati in possesso della Croce Rossa, la “buffer zone” che riguarda terreni fertili dal confine fino a un chilometro nell’entroterra palestinese, ricopre circa 50 chilometri quadrati, cioè circa un terzo del totale dei terreni coltivabili a Gaza e che ora sono lasciati incolti.
Solo pochi coraggiosi contadini si avventurano ad andare a lavorare nei campi “proibiti”, li conosciamo bene perché spesso come attivisti dell’ISM li accompagniamo, da Beit Hanoun a Khan Younis.
L’ultima volta sabato scorso a Khoza, sud est della Striscia. Nonostante avessimo con noi tre troupe televisive, i cecchini israeliani ci hanno osservato per una mezz’ora raccogliere a mani nude coi contadini palestinesi il mais, poi hanno aperto il fuoco. Abbiamo dovuto ritirarci, noi internazionali a mani alzate, i contadini indigeni muovendosi a terra terrorizzati mentre i proiettili ci passavano a centimetri dai corpi.
I pochi giornalisti che vengono con noi al confine rimangono sempre colpiti, più che dalle pallottole dall’incredibile coraggio di questi temerari coltivatori nella loro sfida quotidiana contro la morte nel cercare di procurasi il necessario con cui sfamare le famiglie.
Con noi, sabato, c’era oltre ad Al Jazeera English, una televisione cinese e una brasiliana. Le telecamere della RAI con noi ci sono venute solo una volta, e ce le hanno condotte Manolo Luppichini.
Mi riferiscono che i telegiornali nazionali in questi giorni intasano l’etere illuminando i riflettori sulla vicenda del soldato Gilad Shalit, unico prigioniero israeliano nelle mani dei palestinesi, prigioniero di guerra. Ben inteso, illuminare Shalit oscurando le migliaia di prigionieri politici sepolti vivi nelle prigioni sparse in Israele, le quali sorti pare proprio non interessi a nessuno. 7.500 prigionieri (politici, non di guerra), soggetti ai più atroci supplizi in una pseudo-democrazia dove la tortura è una prassi consolidata.
Milano, Torino e Roma hanno spento i loro caratteristici monumenti per accendere l’ipocrisia di un messaggio secondo il quale la libertà di un soldato vale più di quella di centinaia di minori palestinesi reclusi senza regolare processo e abitualmente abusati sessualmente nelle 25 prigioni e centri di detenzione israeliani.
Mentre il Colosseo si spegnava per un soldato sulla scalinata del Campidoglio gli attivisti della Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese accendevano dei lumi per ricordare proprio questi migliaia di prigionieri innocenti e dimenticati. Almeno sino a quando non stati aggrediti “da parte di un gruppo di squadristi riconducibili come appartenenti alla Comunità Ebraica Romana”, secondo quanto dichiarato dagli stessi attivisti.
6 ragazzi della Rete hanno dovuto ricorrere alle cure mediche dopo il vile assalto da parte di chi sotto la bandiera israeliana ritiene di godere di quell’impunità che quel vessillo rappresenta all’interno della comunità internazionale.
Evidentemente la solidarietà alla causa palestinese si paga col sangue, da Gaza a Roma fin sopra la nave turca Mavi Marmara.
Ma come quei temerari contadini continuano a sfidare i proiettili rivendicando il diritto alla loro terra, la solidarietà per i diritti umani conquistano e consenso maggior terreno ingiustizia dopo ingiustizia, affronto dopo affronto squadrista.
Nel frattempo anche Israele ha spento le luci per Shalit: qui a Gaza abbiamo a malapena 6 ore di elettricità al giorno.
Restiamo Umani.
01/07/2010
Ps. Come attivisti dell'ISM Gaza ci autofinanziamo con il sostegno di chi ritiene utile la nostra presenza in queste lande oppresse, se potete, sostenete. Via Paypal o scrivendo a guerrillaingaza@gmail.com
Vittorio Arrigoni
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