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Caporalato?

Caporalato?

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    (Capitale e lavoro)

    E’ il mercato, bellezza !

    (24 Luglio 2010)

    anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

    C'è una sottile ironia nelle lezioni che la storia somministra, a dosi sempre più indigeste, a chi cerca di spacciare le proprie illusioni (e le “giustificazioni” teoriche del proprio asservimento agli interessi dei padroni) per moneta sonante.

    Chi ricorda oggi l’amore a prima vista fra il “subcomandante” Fausto e il “borghese buono” Marchionne che “non ha accettato l' equazione buona-impresa - licenziamenti” (!), o le dichiarazioni – di qualche settimana fa - di Chiamparino sui lavoratori di Pomigliano, invitati ad accettare “assolutamente” “la sfida della Fiat” e la sua “nuova” organizzazione del lavoro che li renderà sempre più simili alle macchine a cui sono legati.
    Non più esseri umani con bisogni e diritti, ma “vili” strumenti che producono profitti e che hanno ragione di esistere solo in quanto riescono a farlo in quantità tale da sconsigliare il trasferimento dell’azienda in luoghi dove è più accentuata la concorrenza di altri operai più affamati.

    E che dire del “sindacalista” (che Tremonti vorrebbe ministro allo Sviluppo economico) Raffaele Bonanni, “deluso” una prima volta dai tanti no di quegli ingrati di Pomigliano che hanno scelto la dignità di uomini liberi (qualcosa di cui non ha memoria nemmeno la mattina mentre si fa la barba e si guarda allo specchio) e “deluso” una seconda volta da un padrone che “non mantiene gli impegni”, nonostante la solerzia del suo sindacato nello svolgere il ruolo di poliziotto verso chi rema contro il sacrosanto (e costituzionale!) diritto dei padroni di sfruttare a loro piacimento ciò che a loro appartiene: le macchine e i lavoratori.

    La storia si permette perfino il lusso di bacchettare i boriosi rappresentanti del “nord operoso”, quei leghisti che fino a ieri tifavano, nelle loro osterie, per l’uso della frusta contro quei “fannulloni” di meridionali che, a Termini e a Pomigliano, producevano poco e scioperavano molto e che ora i disoccupati c’è li avranno a casa, incazzati e poco propensi a bersi la favoletta che, se finiscono per strada, la colpa anche questa volta è del “solito” marocchino che ruba il lavoro all’operaio padano.

    L’unico che – diamogliene atto – riesce a cogliere esattamente i termini della faccenda, nella babele di pianti, lamenti, recriminazioni (sui tanti soldi che la Fiat ha estorto alla collettività nel corso dei decenni passati), è stato il nano di Arcore.
    “In una libera economia ed in un libero Stato un gruppo industriale è libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione”. E’ il giudizio lapidario di Berlusconi, padrone fra i padroni, cresciuto alla scuola del capitalismo senza gli orpelli ideologici di chi il capitalismo lo serve pretendendo pure di tenere pulita la propria coscienza e che ora si affanna nella richiesta piagnucolosa di “tavoli” a cui accomodarsi per “trattare”.

    Cosa si deve trattare ? La Fiat va in Serbia perché lì gli operai li paga 400 euro al mese, in una situazione in cui il conflitto sociale sarà tenuto lontano dalle catene di montaggio grazie all'impegno di un governo che muore dalla voglia di dimostrare la sua capacità di integrarsi nell'economia europea.

    Il padrone, in un regime di libero mercato, ha tutto il diritto di farlo, ne è legittimato dalle leggi vigenti ed è “moralmente” giustificato dal fatto che, se non lo fa lui, altri sfrutteranno questa succosa occasione e lui rischierà di essere macellato dalla concorrenza dei suoi pari.
    Nel caso in particolare, poi, quel mercato di forza lavoro così appetibile lo abbiamo aperto noi (l'imperialismo italiano) a suon di bombe, quella fabbrica (la Zastava), ora di proprietà Fiat, l’abbiamo conquistata sul campo, comandante in capo baffetto D’Alema, quello dei capitani coraggiosi alla Colaninno altro “borghese buono” saccheggiatore di Telecom e Alitalia.
    Cosa c’è di strano se un capitalista cerca di investire i “suoi” capitali (frutto di decenni di estorsione legalizzata del lavoro vivo di generazioni di operai) dove può guadagnare di più.
    Cosa c’è di strano se la merce-lavoro subisce la stessa sorte di tutte le altre merci deprezzandosi con l’aumentare dell’offerta.

    I fatti si fanno beffe delle illusioni riformiste di chi cerca la soluzione nella conciliazione di interessi inconciliabili, supplicando i padroni ad essere meno esosi e invitando gli operai a moderare le loro “pretese”, sognando un capitalismo senza i suoi aspetti più barbari e deteriori, senza la disoccupazione e la miseria che disturbano il sonno dei borghesi illuminati alla Bertinotti e rovinano, con lo spettro della lotta fra le classi, le deliziose cene a casa Vespa.
    I fatti, e le azioni concrete dei capitalisti reali, rendono sempre più difficile l’opera di abbrutimento delle coscienze che legioni di estimatori della libertà d’impresa conducono quotidianamente a difesa degli interessi dei propri padroni e della propria miserabile (ma certo non misera!) vita di parassiti sociali.

    Oggi anche lavorare per 1.000 euro al mese, in condizioni di totale e disumano asservimento fisico e psichico, è una “pretesa” troppo onerosa per i padroni della Fiat.
    Oggi perfino essere disponibili a farsi sfruttare ai limiti delle proprie capacità e possibilità non garantisce più nemmeno un posto da schiavo nell’organizzazione del lavoro capitalistico.

    I padroni, come bande di predoni accampati ai margini della società, dopo aver rapinato tutto quanto era possibile rapinare, si spostano verso lidi (per loro) più appetibili. E coloro che orgogliosamente si definivano “datori di lavoro” (promettendo benessere e progresso) si svelano per quello che effettivamente sono: generatori e diffusori di miseria.

    E’ il mercato, bellezza! Funziona così.

    Mario Gangarossa

    24 luglio 2010

    www.webalice.it/mario.gangarossa

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