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La morte di Kossiga ci ricorda non solo i crimini di stato impuniti ma anche la vergogna di quanti – anche a sinistra – vollero farsi stato!

(19 Agosto 2010)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

Carri armati inviati nelle strade di Bologna nel 1977 dall'allora Ministro dell'Interno Francesco Cossiga Bene stanno facendo i vari siti di compagni e riviste di movimento a pubblicare foto e testimonianze che documentano il ruolo (infame) di anticomunista dichiarato e di assassino legalizzato incarnato da Francesco Cossiga.

Specie le nuove generazioni di militanti e di attivisti devono sapere che il Presidente Emerito della Repubblica Italiana è stato un attivo uomo di parte capitalistica il quale non si è fatto scrupolo, in alcuni tornanti della storia di questo paese, ad utilizzare tutte le armi possibili contro il movimento dei lavoratori, le sue avanguardie e contro chiunque osasse mettere in discussione lo status quo uscito dalla Seconda Guerra Mondiale. Un ordine imperiale che incatenava l’Italia agli Stati Uniti, alla politica atlantica e al complesso dell’azione imperialistica a stellastrisce.

Non è un caso che, nella metà degli anni settanta, il nome di Cossiga era scritto sui muri delle città d’Italia con la K come l’Amerikano, tanto per citare un bellissimo film del regista greco Costa Gravas. E non è un caso che la denuncia contro la sua persona fu un cavallo di battaglia politico per quanti - comunisti e non solo - animarono le mobilitazioni contro le leggi liberticide di quegli anni le quali avviarono quella lunga ristrutturazione autoritaria dello stato, dei suoi apparati e dei suoi dispositivi normativi i cui ultimi esiti riverberano pesantemente ancora oggi.

Ma le nefandezze di Kossiga, dei suoi governi e dell’intero corollario repressivo scatenato in quegli anni potettero imporsi, contro i movimenti di lotta e nell’intera società, non solo sulla punta delle pistole di polizia e carabinieri scatenati nelle piazze o attraverso la dispiegata terapia del manganello ma anche grazie al ruolo di supporto e di appoggio che le direzioni dell’allora Partito Comunista garantirono ai governi democristiani e poi a quell’ibrido e nefasto esperimento che fu il “governo dell’astensione” (il PCI si astenne in Parlamento garantendo una sorta di appoggio per avviare concretamente la teoria berlingueriana del compromesso storico con la DC…).

A cavallo della metà degli anni ’70 l’Italia era attraversata da un lungo ciclo di lotte operaie e popolari le quali ponevano apertamente non solo un avanzato piano di rivendicazioni economiche ma esprimevano, soprattutto, una spinta ideale e materiale verso l’istaurazione di nuovi rapporti sociali.

Nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri si stava realizzando una saldatura tra l’intera gamma delle conquiste sociali e il tema del potere politico inteso come nuova e possibile soglia avanzata di governo della società.

Di fronte a questo vasto e articolato sommovimento sociale il PCI scelse consapevolmente di non alienarsi i rapporti con i poteri forti del capitale (nazionale ed internazionale) e si schierò apertamente contro ogni episodio di sovversione sociale. Attraverso uomini come Pecchioli (il cosiddetto Ministro degli Interni del PCI non a caso anche lui trasformato in Pekkioli) il partito di Berlinguer scelse di unirsi alla Union Sacré contro la violenza. Di fatto la lotta di classe e il conflitto sociale furono interpretati in chiave criminale e il PCI diventò – oggettivamente e spesso anche soggettivamente – il cane di guardia della borghesia e del nascente capitalismo tricolore.

Su questo tema esiste un ampia letteratura che dimostra palesemente come il PCI determinò con propri contributi ad hoc (dall’uso delle Procure della Repubblica, alla rete sindacale sui posti di lavoro fino all’ideazione in alcune città dei famigerati questionari antiterrorismo compilati da un giovane Piero Faasino in sodalizio con un giovane Giuliano Ferrara…) quel clima di generale repressione che spianò la strada e facilitò la successiva ondata di riconversione capitalistica, lungo tutti gli anni ottanta, che travolse, a vario titolo, gli stessi apprendisti stregoni di Botteghe Oscure.

La morte di Francesco Cossiga – quindi – ci riporta alla mente non solo il ruolo e la funzione di un personaggio la cui collocazione futura è, certamente, nella pattumiera della storia ma deve rammentarci anche come l’azione collaborazionista del riformismo, alla bisogna. non si farà scrupoli di usare le maniere forti quando anche solo l’allusione di un altro mondo possibile potrebbe farsi azione e movimento sociale agente.

Questa dinamica, non nuova nella storia del movimento comunista, (basti pensare al nefasto comportamento della socialdemocrazia in Germania negli anni ’30 o la ruolo degli interventisti alla vigilia del primo conflitto imperialista) è suscettibile di repliche, certo non automatiche o lineari, e potrà essere scansata solo con l’enuclearsi di una moderna soggettività comunista libera da ogni feticizzazione statalista, da ogni pruriginosa pulsione istituzionalista ed attenta alle nuove e complesse forme con cui si configura l’antagonismo sociale.

Michele Franco

17 agosto 2010

www.webalice.it/mario.gangarossa

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