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Israele: militarizzare, disumanizzare

(24 Agosto 2010)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa


Hanno fatto il giro del mondo le due disgustose foto che la ex soldatessa israeliana, Eden Abergil, ha postato lo scorso fine settimana sul suo profilo di Facebook. In una di esse, la giovane, in divisa, posa per l’obiettivo sullo sfondo umano di tre palestinesi bendati ed ammanettati con le tristemente note stringhe di plastica, uno dei marchi di fabbrica delle Forze di Forze di Difesa Israeliane (IDF); nell’altra, più difficile da reperire in Rete, Eden, seduta accanto ad un prigioniero palestinese, sembra rivolgersi con atteggiamento ironicamente seduttivo verso un poveraccio, seduto con le mani legate dietro la schiena, la vista impedita da uno straccio legato alle tempie, il capo piegato da un lato nella posizione internazionale dello sconforto e della disperazione.

Entrambe le immagini sono fastidiose, ma la seconda è un involontario capolavoro. Vi si scorgono da un lato odio, disprezzo, arroganza, sarcasmo; dall’altro dolore, miseria, rassegnazione, umiliazione. Un documento disturbante quanto utile a comprendere il livello di dis-umanizzazione cui inevitabilmente conduce la guerra. Come giustamente sottolinea il portavoce dell’Autorità Palestinese, Ghassan Khatib, “questo episodio mostra la mentalità dell’occupante, che é fiero di umiliare i Palestinesi; l’occupazione non è solo ingiusta ed immorale, ma, come dimostrano queste immagini, é moralmente corrosiva”.

Il vergognoso comportamento della soldatessa ha scatenato reazioni sdegnate in Israele, cosa che solleva e conferma la necessità morale (e giornalistica) di distinguere con nettezza il popolo israeliano dalle scelte spesso criminali ed controproducenti del suo governo. Va riconosciuto che anche l’Esercito israeliano ha stigmatizzato con ammirevole nettezza il comportamento della soldatessa: “Queste foto sono una disgrazia - ha dichiarato alla TV della Associated Press il Capitano Barak Raz, un portavoce delle forze armate - a prescindere da considerazioni relative alla sicurezza; qui si sta parlando di gravi violazioni ai principi morali e alle linee guida etiche dell’Esercito. Non v’è dubbbio che - ha proseguito il portavoce dell’esercito - se la signora Abergil fosse ancora un militare (purtroppo si è congedata nel 2008... ndr), sarebbe sottoposta al giudizio di una corte marziale.” Forse farà sorridere quel richiamo all’etica e alla morale, ma va riconosciuto che di censura inequivocabile si tratta. Piuttosto sarebbe interessante capire se la condotta della Abergil costituisca una violazione alla legge civile, visto che quella militare la lascerà impunita...

L’unica persona apparentemente inconsapevole della gravità dei fatti documentati sul social network è la diretta interessata, che, nel corso di un’intervista ad una radio israeliana, si è detta molto delusa dalla scarsa comprensione dell’esercito per quella che lei continua a considerare una leggerezza, una ragazzata: “Ho servito il mio Paese per due anni nella West Bank ed ora l’esercito mi scarica a causa di quelle stupide foto. Sono molto delusa”. Come nota sul blog del giornale Yael Lavie, capo della Redazione Medio Oriente di Sky News, “é proprio l’incapacità di Eden a comprendere il significato delle sue stesse azioni il dato con cui l’intera nazione dovrà fare i conti. Sarà pur vero che si tratta di una ragazza con poca esperienza di vita e con ancor meno sale in zucca, però bisogna anche riconoscere - sostiene la Lavie - che è in qualche modo il prodotto malato di quaranta anni di occupazione: è proprio quella sua prima reazione a caldo (“non capisco proprio cosa ci sia di male, li [i Palestinesi fermati] ho usati come sfondo per le mie foto”) ad esemplificare tragicamente come “non solo l’occupazione ci corrompa, ma finisca per erodere anche quelli che dovrebbero essere i valori fondamentali per le nuove generazioni”.

Commenta da par suo la vicenda il giornalista Max Blumenthal in un post del suo blog personale, efficacemente titolato “Eden Abergil, il risultato di una società bendata”: “Non occorre andare [come ha invece fatto lui ndr] nella West Bank o in una prigione israeliana per comprendere che comportamenti come quelli della Abergil sono il frutto di una società profondamente militarizzata”. Blumenthal invita i suoi lettori a vedere il documentario “To see when I’m smiling” (“Da guardare quando sorrido”) diretto da Tamar Yarom. Sono 60 minuti agghiaccianti nei quali alcune ex soldatesse israeliane, pescando a piene mani dal proprio vissuto, danno conto dei cambiamenti di personalità, della sovversione dei valori e della costruzione di maschere psicologiche sperimentati sulla propria pelle a causa della cultura di guerra nella quale ogni donna israeliana di 18 anni è obbligata (volente o nolente) ad immergersi.

Particolarmente sconvolgenti due episodi: quello di di una donna che a suo tempo ha posato per una “foto ricordo” in cui sorride radiosa vicino al cadavere di un palestinese cui il destino non ha voluto risparmiare nulla, essendo egli passato a miglior vita con addosso i chiari segni di un’inutile erezione. Racconta Blumenthal che, nel corso del documentario, alla donna viene proposta quella orribile immagine vecchia di due anni: “L’espressione contorta del suo volto sembra non volersi identificare con quel mostro ritratto: ero veramente io?”.

L’altro episodio vede protagonista una sergente che improvvisamente sente il bisogno irrefrenabile di sputare addosso ad un palestinese, la cui unica colpa era quella di trovarsi sulla strada percorsa dalla sua pattuglia: un adolescente che, oltre allo sputo, si è buscato pure qualche schiaffone, più il trattamento standard (benda e manette). Il fatto è, prosegue la sergente, che era innocente: altro che terrorista, era solo un ragazzo che ronzava un po’ troppo vicino alla base e ha finito per farsi acchiappare.

E’ interessante il modo in cui il senso dell’umanità abbia, sia pur tardivamente, fatto breccia in quel cuore ottenebrato: “Sì, mi è capitato di pensarci il giorno della Memoria, tipo, ci pensi e dici: ehi, ma noi ci siamo passati prima di loro, ci sono successe cose molto simili, sono esseri umani dopo tutto...”. La speranza è che la società israeliana faccia tesoro di questi documenti brutali e abbia uno scatto di orgoglio: se non ai “nemici” palestinesi, lo deve senz’altro ai suoi figli, quelli i cui corpi e la cui anima stanno sacrificando da decenni.

Mario Braconi

18 agosto 2010

www.webalice.it/mario.gangarossa

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