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5 Maggio

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(5 Maggio 2010) Enzo Apicella
Si dimette il ministro dello Sviluppo economico, Scajola, coinvolto nell'inchiesta sugli appalti del G8. Avrebbe avuto in cambio una casa con vista sul Colosseo.

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Il tramonto della repubblica parlamentare

(30 Agosto 2010)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa


Al ministero della Pubblica Istruzione, che fu di Benedetto Croce, ora c’è la Gelmini. Non ci sono più uomini politici del calibro di Einaudi, Vanoni, Calamandrei, Riccardo Lombardi, Terracini, Lelio Basso. Troviamo, invece, la Santanché, Gasparri e Ignazio Benito Maria La Russa. Imperversa la batracomiomachia tra finiani e berlusconiani. Se, come diceva Hegel, la lettura delle gazzette era la preghiera mattutina dell’uomo moderno, oggi leggere i giornali killer della famiglia Berlusconi è la bestemmia quotidiana dell’opinionista. Non più scontri tra riformisti e conservatori sulla politica estera, sulla rinascita del mezzogiorno, sulla politica industriale, sulla situazione dell’agricoltura o della disoccupazione; si parla dei mobili della casa di Montecarlo del cognato di Fini. Giornalisti stercorari vanno alla ricerca di particolari infamanti sull’avversario, perché questa è diventata l’unica forma di lotta “politica” che paga. La borghesia può offrire solo più reazione, il movimento operaio, stremato dall’opportunismo, dovrà ricominciare da zero. Una situazione da infimo impero, al cui confronto il tramonto bizantino, con le discussioni sul sesso degli angeli di fronte all’avanzata minacciosa dei turchi, sembra una serena attesa della fine imminente.

Secondo il semplicismo imperante nelle cosiddette opposizioni, il problema fondamentale è Berlusconi, come se avesse creato lui le condizioni storiche ed economiche che hanno portato a questa situazione. Non si rendono neppure conto che così gli assegnano capacità che neppure lui, nella sua assoluta immodestia, si sogna di attribuirsi. Una volta mandato a casa o alle isole Cayman il cavaliere, si tratterebbe di restaurare la prassi costituzionale, da lui più volte violata, e si tornerebbe alla normalità. In realtà, neanche la migliore delle Carte può risolvere la situazione, perché qui si tratta della costituzione materiale, della struttura dello stato. Come tutti gli stati, quello della borghesia italiana non è un insieme di leggi o un meccanismo, è un organismo che si evolve seguendo, sia pure in ritardo, i cambiamenti, le crisi e le degenerazioni della società, e in particolare quelli della classe dominante.

Un paese, che sta costruendo la propria industria e ha un grande sviluppo di fronte a sé, può avere una borghesia piratesca, ma anche dinamica, coraggiosa, in costante espansione. Al contrario, un paese con una borghesia ormai parassitaria, che trasforma gli ex monopoli statali in cartelli privati, non perde occasione per chiedere contributi allo stato e li utilizza per trasferire industrie all’estero, non può non avere al vertice un Berlusconi o un suo pari.

Le distruzioni della guerra mondiale avevano cancellato le velleità imperialistiche dell’Italia. Si ripeté un fenomeno che Lenin aveva studiato, dopo la prima guerra mondiale: “In nessun luogo del mondo il capitalismo monopolistico è esistito né esisterà mai senza che, in parecchi settori, sussista la concorrenza... L’imperialismo e il capitalismo finanziario sono una sovrastruttura del vecchio capitalismo. Se se ne demolisce la cima, apparirà il vecchio capitalismo”. (1) La guerra distrusse l’apparato dell’imperialismo italiano, le colonie furono perdute. Ricomparvero fenomeni di accumulazione primitiva, come il mercato nero, e persino il baratto, perché i contadini non volevano lire svalutate in cambio dei prodotti agricoli, chiedevano scarpe, abiti, ecc. Col tempo, il capitalismo, ringiovanito dalle distruzioni, si riorganizzò, facendo leva su salari da fame. Persi i territori oltremare, tutti gli sforzi si concentrarono sul territorio nazionale. Non c’erano più le enormi spese militari totalmente improduttive, e gli imponenti sacrifici imposti alla classe operaia portarono a una rapidissima ascesa dell’industria.

In questo periodo, il dominio di classe era indiretto: gli industriali, i banchieri, i capitalisti in generale, lasciavano il palcoscenico a politici di professione, anche perché un loro intervento diretto era sentito dall’opinione pubblica come un’intollerabile ingerenza. Gli Agnelli e i Pirelli, non si presentavano certo alle elezioni, ma il loro potere era incalcolabile. I profitti, la “libera impresa”, la difesa della proprietà, erano osannati, ma l’attività economica pubblica e privata – si sosteneva – doveva essere indirizzati a fini sociali. Ovviamente non era così, ma nessun borghese trovava opportuno sostenerlo apertamente.

La repubblica parlamentare, che anche negli anni ’50 e ’60 fu accusata di debolezza, in realtà era fortissima. Il consenso popolare era assicurato dai partiti, soprattutto dai principali, DC, PCI e PSI.

La DC era un vero partito stato, con una rete di collegamento assicurata da varie associazioni cattoliche e dalla chiesa stessa. Il PCI era un partito gigante, che raggiunse nel 1948 circa 2 milioni e quattrocentomila iscritti, e soprattutto aveva 200.000 quadri. La scelta riformista, nonostante le ambiguità della propaganda, era nei fatti. Prova ne sia l’apprezzamento, sia pur tardivo, di Togliatti per il riformistico “Programma di Azione socialista” presentato da Filippo Turati, più noto col nome “Rifare l’Italia” e pubblicato da “Critica sociale” nel luglio 1920. Luigi Cortesi scrive: “Ancora nel 1945, al quinto congresso del Partito comunista italiano, Palmiro Togliatti lo citò come esempio valido nel quadro dei problemi della ricostruzione e riorganizzazione economica del secondo dopoguerra nel superiore interesse nazionale”. (2)

Nel giugno del 1976 il PCI ottenne il 34,4% dei voti, ma a ciò non corrispose un rafforzamento organizzativo, perché gli iscritti erano scesi a 1.700.000 e i quadri a 80.000. (Giorgio Galli, Storia del PCI).

Il PSI, pur non potendo competere quanto ad apparato col PCI, agli inizi degli anni ’60 aveva circa 700.000 iscritti.

Si pensava che il rapido succedersi dei governi fosse un segno di debolezza della repubblica parlamentare. In realtà, come un fusibile saltando impedisce un corto circuito, così la caduta dei governi permetteva alla DC di cambiare alleanze, scegliendo centrodestra o centrosinistra secondo le convenienze. I presidenti del consiglio rimossi sapevano che presto sarebbero tornati alla ribalta, con qualche incarico importante. Uno dei riti più tipici della DC era la condanna del protagonismo. Un capo “carismatico” sarebbe stato un pericolo per il partito.

Quando la repubblica cominciò ad entrare in crisi – il rapimento Moro fu la cartina di tornasole - si giocò la carta di riserva. “Quando lo stato e la dinastia sprofondano nel disordine, ci sono ministri fedeli” scriveva Lao-tzu, sulla base della grande esperienza politica della vecchia Cina. Si cercò dunque un uomo, estraneo alla bassa cucina politica, che aveva portato in salvo in Francia Filippo Turati, aveva conosciuto le galere fasciste, ed era stato partigiano. Un uomo senza ingombranti scheletri nell’armadio. Colse bene il carattere dell’operazione “Il programma comunista” che titolò “Che più bianco non si può.” Pertini condannò la repressione in Argentina, su cui i media tacevano, i fatti di Sabra e Chatila, combatté la P2, rompendo anche con alcuni politici del suo partito. Ottenne la fiducia di gran parte degli italiani, ma il potere reale rimase agli Andreotti, ai Forlani, ai Craxi, e tutto continuò come prima.

Dopo il boom industriale, dopo lo sviluppo della finanza, dissoltosi il quadro internazionale fissato a Yalta, rinacquero le spinte imperialistiche, con l’esportazione di capitali, soprattutto verso l’Europa orientale, e la partecipazione alle guerre americane. Già in crisi per motivi interni, la repubblica parlamentare non fu più in grado di corrispondere alle esigenze della borghesia.

I capitalisti cominciarono a presentarsi in prima persona, sommando potere economico e potere politico. Chi dovrebbe sostituire Berlusconi? Si fanno i nomi del banchiere Draghi, di Montezemolo.

A proposito del cavaliere, si parla di “cesarismo”. Siamo di fronte a qualcosa di simile al passaggio di Roma dalla repubblica all’impero, o di Firenze alla signoria dei Medici? No, siamo di fronte a una caricatura. Non abbiamo un Cesare o un Augusto, ma un Trimalcione, non un Cosimo il Vecchio, ma il suo giullare. Non c’è un Mecenate, ma Bondi, e la cultura non viene curata, sia pure per dar lustro al regime, ma teatro, lirica, scuola pubblica devono lottare per la sopravvivenza. Se si giungerà davvero a una repubblica oligarchica, non gestirà lo sviluppo, ma la decadenza.

Augusto seppe dare una svolta che lasciava la forma esteriore della repubblica. Berlusconi non ci riesce, fa capire che la costituzione gli dà fastidio, rivela troppo presto le sue intenzioni. Inoltre, invece di circondarsi di uomini validi, si porta dietro un’autentica corte dei miracoli, scelta tra i suoi avvocati, fiscalisti, finanzieri, speculatori, faccendieri, attorucoli e veline. Non è in grado di portare a termine la svolta oligarchica. Chi la completerà? Forse suoi oppositori, presunti restauratori della legalità costituzionale, in grado di sostenere a parole lo stato di diritto e affossarlo nei fatti. Non a caso, anche i più chiassosi oppositori hanno violato persino la lettera dell’art. 11, che vieta l’uso della guerra per la risoluzione delle questioni internazionali. E chi lo infranse nel modo più clamoroso, se non D’Alema, che bombardò la Jugoslavia? Se poi pensiamo agli applausi ottenuti da Marchionne, nel momento in cui violava i più elementari diritti dei lavoratori, ci rendiamo conto che tutti i partiti in parlamento stanno contribuendo al cambio di regime. Al posto della repubblica democratica fondata sul lavoro (nessuna idealizzazione, era sempre lavoro salariato, sfruttamento), andiamo verso la repubblica oligarchica fondata sul precariato e la disoccupazione, con un aspirante “Signore”, arrogante fino al ridicolo, ma in realtà debole e ricattabile, che si regge solo per l’incapacità dell’opposizione.

L’atteggiamento dei partiti nelle questioni militari è un sintomo importantissimo del cambio di regime. Nella prima guerra del Golfo, la maggioranza della sinistra si disse contraria, con l’eccezione dei miglioristi. Col governo D’Alema anche Cossutta, Diliberto e i verdi accettarono la guerra. Dal 2006, col cedimento di Rifondazione Comunista, l’opposizione al militarismo non esiste più in parlamento. L’adattamento politico alle esigenze dell’imperialismo è totale, anche se l’omaggio formale alla costituzione consiglia ancora di parlare di spedizioni di pace. Per “riforme”, tutti i partiti in parlamento, sia pure con diverse sfumature, intendono un completo adeguamento anche istituzionale a quelle esigenze, mantenendo il simulacro di un suffragio universale sempre più svuotato. A che altro mira la “modernità” di Marchionne?

Gli elettori non hanno neppure più la possibilità di scegliere tra i candidati, che sono nominati dai dirigenti dei partiti. Se vincerà una coalizione antiberlusconiana, può darsi che la legge elettorale sia cambiata, ma sarà un contentino in cambio di altre più sostanziali limitazioni. E non è un caso che sia Ichino a chiedere ulteriori restrizioni al diritto di sciopero.

Si completerà questo processo? Se ciò avvenisse, le condizioni per le lotte dei lavoratori peggiorerebbero ulteriormente. Cosa potrebbe interromperlo? Una ribellione dei lavoratori, di cui per ora non si intravvedono le avvisaglie, oppure una sconfitta militare, possibile se il desiderio di compiacere gli USA e la Nato porterà alla crescita d’impegno in paesi a migliaia di chilometri, dove persino per una superpotenza il rischio di disfatta è grande.

Michele Basso

30 agosto 2010

Note:
1) Lenin, “Rapporto sul programma del partito”, VIII congresso del PC(b)R, 19 marzo 1919.
2) Luigi Cortesi: “Le origini del PCI, pag 218.

www.webalice.it/mario.gangarossa

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