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Cile: 33 minatori sepolti vivi

(2 Settembre 2010)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.operaicontro.it

REPUBBLICA MINIERA DI SAN JOSE' - Una antica superstizione dei minatori cileni impedisce alle donne di avvicinarsi alla miniera. Il mito sostiene che se una donna si avvicina, o peggio ancora scende nella miniera, questa si secca. Le vene del rame e dell'oro scompaiono e, d'un lampo, i minatori perdono la fonte del loro lavoro e della sopravvivenza delle loro famiglie.

Le donne sorridono di questa superstizione anche se, ancora oggi, sono pochissime quelle che vengono assunte dalle grandi compagnie di estrazione che operano nei ricchi giacimenti del nord del Cile. Ne sorridono un po' timide anche quelle che, ormai da settimane, ogni mattina aspettano l'autobus dell'esercito che da Copiapò le porta per cinquanta chilometri di deserto fino alla cima della miniera di San José.
Sono quasi tutte donne, mogli o figlie, quelle che salgono e, come superstizione, preferiscono quella del "33", il numero dei minatori sepolti ma anche - racconta una ragazza che ha un fratello nel fondo della miniera - "gli anni di Cristo" e, dunque, "una speranza di resurrezione", quella dei loro cari intrappolati nelle gallerie sotto terra.

Da quando è iniziato questo via vai quotidiano con la montagna, il giorno successivo al 5 agosto, i taxi possono chiedere fino a cento dollari per l'andata e il ritorno, così i familiari s'organizzano. Il Comune ha messo in campo questo pullman militare, sempre pieno, per i familiari più stretti, solo mogli e figli dei minatori sepolti, gli altri fanno l'autostop o salgono con le proprie auto. Una lunga processione che, ogni giorno, va e torna. Jorge Galleguillos ha il babbo sottoterra. Lui ha vent'anni, il padre cinquantasei. Studia ingegneria all'Università di Copiapò e il suo destino, come quello di moltissimi qui, è la miniera. Magari non come operaio ad ottocento dollari al mese come il padre.

Nella regione mineraria dell'Acatama si estrae il 40 per cento di tutto il rame che esporta il Cile: 40 miliardi di dollari all'anno. E c'è anche, ancora, un po' d'oro.
Jorge è quello che ha la faccia più scura di tutto l'autobus. "Glielo avevo detto, papà non ci andare. Lo sapevamo tutti a Copiapò che quella di San Josè era la miniera più pericolosa di tutta la zona. Scherzando - aggiunge - la chiamavamo "Groviera" pensando a tutte le gallerie scavate nella montagna in cent'anni". Ma gli altri minatori - racconta ancora Jorge - la chiamavano "il Matadero" (il Macello) e quelli che ci andavano a lavorare erano soprannominati "Kamikaze"". Insomma per lui quel crollo che ha incastrato 33 uomini a settecento metri non ha avuto nulla di casuale, non è stato un incidente, era nell'ordine delle cose, prevedibilissimo. Primo o poi "Groviera" si sarebbe accasciata su se stessa come un formaggio sciolto.

Ora però a tutti piace il numero 33. "Porterà fortuna", dicono. A consolidare la superstizione, due storie. La prima è quella del minatore numero 34, Alejandro Valeria, il ragazzo di 24 anni che si è licenziato proprio la mattina del 5 agosto altrimenti sarebbe sceso insieme a tutti gli altri che sono rimasti intrappolati. E quella dell'autista dell'ultimo camion che è uscito dalla miniera mentre crollava.
Questione di secondi. Ha visto la polvere nel retrovisore e ha pigiato l'acceleratore.

L'autobus corre veloce sullo sterrato lungo il deserto. Ieri la brina ha innaffiato un po' i costoni delle colline e dal terreno sono usciti dei fiorellini viola, macchie irregolari sul giallo scuro della sabbia. Sul pullman qualcuna delle donne si comincia a lamentare delle televisioni locali. "Da oggi basta - dice una -, interviste solo se ce le pagano cash", e ride. L'autobus è un microcosmo di avventure personali. Ci sono i parenti di Raul Bustos, uno dei sepolti vivi che è diventato il più famoso da queste parti per la sua doppia tragedia: sei mesi fa, alla fine di febbraio, quando ci fu il terremoto, perse ogni cosa a Talcahuano, nel sud del paese, dove viveva e lavorava in una acciaieria; tecnico specializzato in idraulica, dal sud si è trasferito quassù per lavorare nella miniera di San José. Ci sono anche il padre e la madre di Ariel, il giovane minatore mai apparso fino ad ora nei video girati sottoterra. Si scrivono, ci dice, ma non l'hanno mai visto. Nell'ora scarsa che dura il viaggio, i familiari si scambiano notizie, impressioni. Parlano delle informazioni sulle fasi del recupero e di quello che sono riusciti a sapere dei loro cari.
Nonostante il reality tv sembrano conservare un filo di solidarietà comune.

Non lontano dall'ingresso della miniera, su uno spiazzo rialzato, e ora anche circoscritto da un drappo di stoffa e chiuso, sono state piantate 33 tende gialle col tetto rosso: una per ogni famiglia. È li che passano la giornata prima di riprendere il pullman che li riporterà a casa dopo il tramonto. Adesso i responsabili governativi dell'accampamento "Esperanza" stanno cercando di isolare i familiari dai giornalisti. Di proteggerli almeno un po'. Stampa e tv, nel frattempo, ingoiano di tutto: anche familiari falsi o lontanissimi parenti dei sepolti vivi, che approfittano della bulimia generale per partecipare allo show.

www.operaicontro.it

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