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USA & getta

USA & getta

(23 Marzo 2010)
Approvata la riforma della sanità negli Usa, ma la spesa per l'aborto sarà a carico delle donne che lo richiedono

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(29 Marzo 2010)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.cattolicesimo-reale.it

(segue)

18. Una morale sessuofobica La Chiesa cattolica se odia, come abbiamo visto attraverso la sua storia, gli esseri umani vivi e ragionanti, ha invece uno sviscerato amore per spermatozoi, zigoti e non-nati. Vieta infatti: a) che anche un solo spermatozoo venga sprecato versandolo fuori del “debito vaso”, cioè eludendo lo scopo riproduttivo; b) che, raggiunto tale fine, il concepito non sia fatto uscire a tutti i costi dal grembo della madre, anche se il “costo” è la morte della donna o di entrambi.
Questi principi, disgiunti o combinati insieme, sono all’origine di una catena di stragi e di violenze. Per questo ci permettiamo una breve, illuminante digressione sulla morale sessuale cattolica.

La crociata contro il piacere
Già Agostino considerava “vergognosa” la contraccezione, ossia l'avere rapporti sessuali anche “normali” e fra persone sposate ma cercando di evitare la procreazione. Egli scrive nel 420 che “questo rapporto, in cui si evita il concepimento della prole, è illecito e vergognoso anche con la consorte legittima. Così faceva Onan, figlio di Giuda, e per questo il Signore lo fece morire” (139).
E il vescovo Cesario di Arles (prima metà VI secolo) definiva omicidio qualsiasi cautela mirante a prevenire il concepimento, come prendere una bevanda “che pregiudichi la forza della natura” (140), mentre Martino, vescovo di Braga, equiparava la contraccezione all'infanticidio (141).
Ma un documento soprattutto ufficializza la condanna della contraccezione come omicidio: il Si aliquis (così detto dalle parole iniziali) del 906 circa, contenuto nel Libro penitenziale del monaco Reginone di Prum e recepito nel Codice di Diritto Canonico dal XIII secolo al 1917: “Se qualcuno (si aliquis) per soddisfare il proprio piacere o per un odio di cui è consapevole, procura una lesione a un uomo o a una donna, così che da lui o da lei non possano essere generati figli, o se uno dà loro da bere una pozione per cui l'uomo non possa generare o la donna concepire, costui deve essere considerato un assassino” (142). Lo stesso concetto si trova nel testo Aliquando del Decretum Gratiani, una raccolta di leggi compilata nel 1140 e poi confluita nel Diritto canonico.
L'idea – priva di ogni fondamento logico – che prevenire un concepimento sia un assassinio discende dalla convinzione tomistica esposta nel Contra gentiles secondo cui ogni “emissione di sperma” deve essere tassativamente finalizzata alla procreazione (143).
Proprio la difesa ad oltranza della vita “in potenza” confrontata alla disinvoltura con cui la Chiesa, come si è visto nelle pagine precedenti, elimina le vite “in atto”, fa dire sarcasticamente a Uta Ranke-Heinemann: “i figli immaginari vengono protetti dalla contraccezione con molto più vigore di quanto i figli reali, quasi adulti, vengano difesi dall’inferno della guerra e dalla morte sui campi di battaglia, secondo l’intollerabile errata credenza cattolica che i veri crimini dell’umanità si compiono nella camera da letto matrimoniale e non sui teatri di guerra” (144).
Con il ricorso voyeristico a “una polizia ecclesiastica del letto matrimoniale” (145), la Chiesa mira in conclusione a impedire quello che ritiene il massimo crimine e cioè rapporti sessuali che soddisfino i coniugi e conseguano l'odiato piacere senza portare alla procreazione. Infatti, benché Benedetto XVI abbia cercato di far credere ai giovani nel 2006 che “la fede e l'etica cristiana non vogliono soffocare ma rendere sano, forte e libero l'amore” (146), per la Chiesa, come spiegava Innocenzo III, “il rapporto coniugale non avviene senza l’ardore della lussuria, senza il sudiciume del piacere, per cui il seme concepito viene insudiciato e rovinato” (147). Che sia pagato con il fastidio di un figlio è quindi il minimo (148)…

Contraccettivo=aborto=assassinio
L’equazione “contraccezione-aborto-omicidio”, stabilita dal Si aliquis e da Aliquando, fu ribadita cinquecento anni dopo dal Catechismo romano del 1566, approvato dal Concilio di Trento: “Il desiderio della procreazione… fu l'unico motivo per cui Dio istituì agli inizi il Matrimonio. S'intende perciò quanto mostruoso sia il delitto di quei coniugi che, mediante ritrovati medici, impediscono il concepimento o procurano l'aborto; questo equivale all'azione infame degli omicidi” (149).
Solo in tempi molto recenti, Giovanni Paolo II ha detto che contraccezione e aborto sono due tipi “diversi” di peccato, pur conservando anche verso la contraccezione il divieto assoluto ribadito da Paolo VI nel 1968 con la Humanae vitae (l’enciclica della pillola): “è assolutamente da escludere, come via lecita per la regolazione delle nascite…ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione…” (150). Nella sua polemica contro la contraccezione, Giovanni Paolo II stabiliva inoltre questa stravagante equivalenza: “La contraccezione è da giudicare, oggettivamente, così profondamente illecita da non potere mai, per nessuna ragione, essere giustificata. Pensare o dire il contrario, equivale a ritenere che nella vita umana si possano dare situazioni nelle quali sia lecito non riconoscere Dio come Dio” (151).

19. I papi assassini delle donne Fine della digressione. Qui, infatti, ci interessa soprattutto sottolineare gli effetti omicidi, di strage continuata strisciante, che ha la morale sessuale cattolica.

O castità o morte
Le ripercussioni pratiche le mostra un episodio raccontato dalla già citata Heinemann e che avvenne nel XII secolo: “una donna durante un parto aveva avuto una ernia ombelicale, e i medici fecero rilevare che non sarebbe sopravissuta a un'altra gravidanza. Alcune persone pensarono ‘che dovesse procurarsi delle pozioni sterilizzanti, in modo da poter compiere ancora il suo dovere matrimoniale, sicura di non restare incinta’. A questa opinione si oppose il teologo Pietro Cantore (morto nel 1197): seguendo il testo Aliquando e la sua severa condanna degli anticoncezionali, decise che in nessun caso la donna sarebbe stata autorizzata a procurarsi pozioni sterilizzanti” (152).
E, nei secoli successivi, il divieto - con i conseguenti pericoli per la moglie - si estese anche a nuovi e più moderni sistemi contraccettivi come il “cappuccio inglese”, ossia il preservativo cui, diceva il Santo uffizio in un decreto nel 1916, “la donna deve opporre resistenza come a un violentatore” (153).
La donna poteva evitare così i rischi mortali della gravidanza, solo nel modo spiegato dal teologo Guy nel 1850: “se sussiste un pericolo reale si deve raccomandare un’eroica astinenza” (154).
Ma in altri casi, tenuto anche conto del dovere della moglie di soddisfare il debito coniugale per non indurre il marito all'adulterio, neppure la castità era una via di scampo e allora, spiega il Vicariato del vescovo Keller di Monaco, “La moglie non deve usare mezzi contraccettivi neppure come ‘legittima difesa’, ad esempio per proteggersi da un marito affetto da malattie sessuali… che porterebbero la donna a correre un evidente rischio di vita in caso di gravidanza” (155). Questo testo è degli anni Cinquanta del Novecento (!).
Poco prima del resto Pio XI, nell'enciclica Casti connubi del 1930, dopo aver insultato come persone che “bramano soltanto soddisfare le loro voglie” quanti “viziano l'atto naturale”, aggiungeva che “non vi può essere ragione alcuna, sia pur gravissima, che valga a rendere conforme a natura ed onesto ciò che è intrinsecamente contro natura” e che la moglie può salvarsi solo “con l'onesta continenza” (156). Pio XII a sua volta, in una dichiarazione del 1958, rinnovò il divieto anche se vi fosse pericolo di vita per la donna: “Si causa una diretta e illecita sterilizzazione, quando si impedisce l’ovulazione per proteggere l’organismo dalle conseguenze di una gravidanza che esso non può sopportare” (157).
Quante donne, nel corso di quasi un millennio, costrette a scegliere fra la castità, sconsigliabile anche per la stessa armonia coniugale, il peccato mortale e il rischio di una gravidanza pericolosa, hanno optato per quest'ultima? Quante donne sono state uccise dai papi? E' impossibile dirlo ma è certo che questo omicidio strisciante ha fatto, nel corso dei secoli, un numero assai rilevante di vittime.

Una testimonianza di Simenon
Un'altra causa di morte per centinaia di migliaia di donne è la “scelta” fra la madre e il feto, imposta sempre dalla “morale” cattolica. “E' una capitolo macabro”, scrive Uta Heinemann, “quello che riguarda il pericolo di morte per parto, a causa - a volte - dell'omissione di soccorso. Negli ospedali cattolici, fino a tempi recenti [il libro è del 1990], le donne hanno corso questo pericolo e, se venisse osservato l'insegnamento ufficiale della chiesa, lo correrebbero ancora oggi” (158).
Prosegue la Heinemann raccontando che il celebre giallista George Simenon, il “padre” dell'ispettore Maigret, era andato con la moglie Denise, in avanzato stato di gravidanza, in una clinica ginecologica statunitense dell'Arizona, loro segnalata come la migliore. Ma ne era venuto via subito perché all'entrata vi era un avviso che diceva: “In caso di grave incidente il destino del bambino prevale su quello della madre in base alla decisione del primario e della superiore delle suore” (159). Simenon scrive: “Un brivido di raccapriccio ci corse lungo la schiena e ci allontanammo in punta di piedi” (160). Loro figlio, conclude la Heinemann, nacque in un ospedale meno cattolico.

Uccidere la madre per battezzare il feto…
Agli inizi del XVII secolo, un’istruzione per levatrici dei cattolici tedeschi recita: “Qualora si debba provvedere alla madre o al bambino, essa [la levatrice] deve far si che il bambino venga battezzato, in quanto è meglio che la madre muoia santamente, che non il figlio muoia senza battesimo” (161).
Tale restò nella sostanza la posizione cattolica in materia, come la espose anche il più importante teologo del Settecento, Alfonso Maria de’ Liguori nel 1748: “Nel caso che il feto sia già pervaso dall’anima e si giudichi che la madre morirebbe con la prole, se non assumesse la medicina, è lecito che la prenda… Se invece con la morte della madre la speranza di vita e di battesimo della prole si prospetti evidente; la madre è tenuta, secondo i più, sotto pena di peccato mortale, ad astenersi da ogni rimedio distruttivo per la prole, perché ella ha il dovere di esporre la sua vita fisica per l’estrema necessità spirituale del bambino” (162).
Ed ecco come rispose il Santo uffizio, con l’approvazione del “progressista” Leone XIII, al vescovo di Cambrai il 27 luglio 1895: “Esposizione: Il medico Tizio, essendo stato chiamato presso una donna incinta… constatava in tutti i sensi, che la causa della malattia mortale altra non era che la gravidanza stessa…Una sola via, dunque, egli aveva a disposizione, per salvare la madre da una morte certa e imminente: procurare cioè l’aborto, o espulsione del feto. Questa via egli intraprendeva, usando tuttavia i mezzi e le operazioni che di per sé e direttamente non miravano propriamente a uccidere il feto…, ma soltanto a far sì che il feto, se fosse possibile, venisse dato alla luce vivo, anche se destinato a morire subito, dal momento che era ancora del tutto immaturo…Domanda: Tizio chiede se può compiere con sicurezza le operazioni descritte, nelle suddette circostanze, una volta che si ripetano.
“Risposta: No, secondo gli altri decreti, quelli cioè del 28 maggio 1884 e del 19 agosto 1889” (163).
Che sia preferibile salvare la vita (eterna…) del bambino, piuttosto che quella terrena della madre lo pensa anche il teologo Gopfert che nel 1906 scrive: “la speranza…di poter sicuramente battezzare… il bambino giustifica il pericolo che l’operazione comporta sempre per la madre… in considerazione della salvezza eterna del bambino, la si potrebbe considerare un dovere per la madre” (164).

Non è mai lecito uccidere l’innocente
Tanto più la scelta è obbligata se si tratta di salvare uno dei due. Pio XI, nell'enciclica Casti connubii già citata dichiara: “già abbiamo detto…quanta compassione noi sentiamo per la madre, la quale, per ufficio di natura, si trovi esposta a gravi pericoli, sia della salute, sia della stessa vita: ma quale ragione potrà mai avere la forza di rendere scusabile, in qualsiasi modo, la diretta uccisione dell'innocente?….A coloro, infine, che tengono il supremo governo delle nazioni, e ne sono legislatori, non è lecito dimenticare che è dovere dell'autorità pubblica di difendere con opportune leggi e con la sanzione di pene, la vita degli innocenti” (165).
Basandosi sulla gesuitica distinzione fra “lasciar morire” e “uccidere”, Pio XI non ha dubbi che in caso di scelta sia da sacrificare, pur con “compassione”, la madre, ossia una vita autonoma “in atto”, piuttosto che “l'innocente”, ossia un non-nato, una vita “in potenza” il cui aborto gli ebrei, ad esempio, sensatamente non giudicano omicidio, poiché il feto è considerato una parte della madre, sacrificabile per salvare la vita di lei (166).
Per l'omicida Pio XI, invece, le madri, di cui pure ha “compassione”, devono essere punite per legge dagli stati se sacrificano “la vita degli innocenti” anziché la propria.

Meglio due morti che salvare la madre
Il divieto di “uccidere l'innocente” vale anche nel caso più contestato e cioè se la morte della madre non salva il feto. Perché sia giusto così ce lo spiegarono nel 1938 Joseph Mausbach e Peter Tischleder: “La motivazione secondo cui risparmiando il bambino per lo più ne vanno di mezzo due vite, mentre con il sacrificio del bambino solo una fa una grande impressione…[ma] L’uccisione violenta di una vita senza colpa non è mai lecita; non può esserlo, senza indurre gli uomini a ulteriori passi funesti ed esiziali… E’ invece permesso…il ricorso a farmaci e operazioni indirizzati non contro la gravidanza, ma contro una contemporanea malattia mortale della madre, e che per accidens possono causare l’aborto, a condizione che non venga pregiudicata la possibilità del battesimo del bambino” (167).
Anche i due teologi insistono sulla vita “senza colpa”. Che sia “senza colpa” la madre essi come i papi lo escludono, come trascurano il fatto che la madre sia una persona vivente e l'altro ancora no. Gesuiticamente accettano tuttavia di eliminarlo “per accidens” nel caso fortunato (per la madre) che essa abbia un'altra malattia mortale (oltre alla gravidanza…) e fermo restando che il feto, prima di essere soppresso, possa essere battezzato. Contorsionismi inutili oggi, dopo che si è scoperta l’insperata possibilità di salvarsi senza battesimo grazie all'apposita commissione teologica nominata da Benedetto XVI e che ha provveduto a togliere di mezzo il Limbo (168).
La dottrina secondo cui bisogna sacrificare la madre vivente e autonoma piuttosto che il figlio non-nato, fu ribadita da Pio XII in più occasioni, fra cui citiamo questo discorso del 1948: “Se è riprovevole…uccidere un innocente per salvarne un altro, non è meno illecito, sia pure per salvare la madre, di cagionare direttamente la morte di un piccolo essere chiamato, se non per la vita di quaggiù, almeno per la futura, a un alto e sublime destino, ovvero inaridire e sterilizzare, mediante una operazione che nessun altro motivo giustifica, le sorgenti della vita” (169). E nel 1951, Pio XII affermava: “salvare la vita della madre è un nobilissimo fine; ma l’uccisione diretta del bambino come mezzo a tal fine, non è lecita….Se… le condizioni richiedono…l’esclusione della maternità…anche in questi casi estremi ogni manovra preventiva e ogni diretto attentato alla vita e allo sviluppo del germe è in coscienza proibito ed escluso, e…una sola via rimane aperta…quella dell’astinenza da ogni attuazione completa della facoltà naturale” (170).
A diffondere questa posizione, ribadendo che è meglio far morire madre e figlio piuttosto che salvare solo la madre, hanno concorso autorevoli manuali di teologia come quello di Herbert Jone del 1953 o di Bernard Haring del 1957: “Nemmeno per salvare la vita della madre è consentito spezzare la vita del nascituro vivo”, scrive Jone, “ad esempio mediante la craniotomia, l’embriotologia ecc.” (171). La diretta uccisione del feto è proibita anche quando il medico la ritenga necessaria… per la salvezza della madre… quando senza questo intervento potrebbero morire sia la madre che il bambino, incalza Haring, poiché “qualunque possa essere il giudizio della scienza medica, la tesi invariabile della Chiesa è che non sarà mai e in nessun caso lecito di attentare direttamente nel seno materno alla vita del bambino” (172). L'Haring ha anzi la sfrontatezza di affermare, nell'edizione di dieci anni dopo del trattato sopra citato: “Vi furono medici che rimproverarono alla Chiesa il fatto che essa condanna anche la motivazione vitale [ossia l’aborto se la vita della madre è in grave e immediato pericolo]. In realtà la medicina fu stimolata salutarmente da tale proibizione a sviluppare meglio la prassi medica, così che oggi può provvedere quasi sempre alla vita della madre e del figlio” (173).
“Certo molte madri devono la loro morte alle salutari indicazioni dei papi”, commenta la Heinemann, “ma in compenso i medici sono loro debitori del progresso della loro scienza, al quale, senza l'esortazione papale che passa sui cadaveri, non avrebbero certo aspirato” (174). Resta naturalmente inteso che le donne, dopo aver accettato la condanna a morte pronunciata dalla Chiesa, che in tal modo ha stimolato “la prassi medica”, dovranno continuare a sacrificarsi, come spiega sempre Haring ed. 1967, se fosse indispensabile per assicurare la vita ma, soprattutto, il battesimo del feto: “[Ancora oggi] Se non c’è nessun altro modo di salvare la vita del bambino e specialmente di assicurargli il battesimo, la madre è obbligata a sottoporsi a… operazioni che mirano principalmente alla salvezza del bambino, mentre espongono la madre a certi pericoli” (175). In conclusione, osserva sempre la Heinemann, se le donne muoiono oggi meno di quanto accadeva un tempo è grazie al progresso della medicina, non certamente a quello della teologia…

Un po’ meglio in Germania…
Solo il 7 maggio 1976 e solo in Germania, e solo se non salvando la madre muoiono tanto la madre che il feto, una Dichiarazione dei vescovi riconosceva ai medici - non alla paziente, dato che “Si decide sempre sulle donne, ma non con loro, né tanto meno sono loro a decidere” (176) - il diritto non già di salvare senz'altro la madre ma di valutare il da farsi: “[i vescovi tedeschi] rispettano la decisione di coscienza dei medici…in situazioni di conflitto… in cui si deve decidere tra la perdita sia della vita della madre sia di quella del bambino non ancora nato, e la perdita di una vita soltanto” (177). Si veda con quante riserve, quasi a malincuore, la Chiesa prende in esame l’idea di poter salvare la madre...

20. Come i papi uccidono anche con l’Aids Sotto il pontificato di Wojtyla, al capitolo Il rispetto della vita umana del Catechismo della Chiesa cattolica del 1992, nel riaffermare la condanna della contraccezione e dell’aborto, si diffida lo Stato dall'intervenire in materia “con mezzi contrari alla legge morale”, fra i quali rientrano sia le campagne di pianificazione delle nascite sia più in generale quelle sull’uso del preservativo, con cui si cerca, in alcuni paesi del Terzo mondo soprattutto, di prevenire l’Aids e salvare vite umane.

O castità o contagio
In conclusione, l’unico antidoto contro l’Aids, ritenuto quasi un castigo divino e certo un effetto di “comportamenti sessuali irresponsabili”, è lo stesso che si proponeva alle donne contro le gravidanze pericolose: la castità. Ma il Vaticano non si limita a proporre misure certo poco efficaci. Specie in Africa, si attiva presso governi “cattolici” o “amici” per scoraggiare e impedire il ricorso a “mezzi contrari alla legge morale”, come i preservativi, e quindi cerca di impedire campagne che incentivino l’uso dei profilattici, in modo da limitare l’epidemia e ridurre i pericoli di morte. Il che dimostra chi davvero operi contro la legge morale e contro la vita.
Per questo lo studioso e giornalista inglese T. Eagleton scrisse, alla morte di Wojtyla, che il papa, da tanti invocato “santo subito”, si presentava al giudizio divino “con le mani sporche di sangue” (178).
Naturalmente, mentre si mostrava assai poco interessato a salvare le vite delle persone reali, il papa approvava il 21 novembre 2002 una Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica emanata dalla Congregazione per la dottrina della fede presieduta da Ratzinger, nella quale si ordinava ai politici cattolici di “rispettare e proteggere i diritti dell'embrione umano” (179).
Per cercare di occultare le proprie responsabilità la Chiesa enfatizza l'impegno dei cattolici nel curare i malati di Aids e insiste poi sul fatto che il preservativo non sarebbe…sicuro per cui l'unico modo certo per evitare il contagio è la castità. Ma di fronte alle dimensioni del problema anche riviste cattoliche come “Testimoni”, quindicinale di informazione, spiritualità e vita consacrata, hanno richiesto alla Chiesa un atteggiamento diverso.

La critica dei cattolici
“La prevenzione primaria per le persone non ancora infette è urgente e deve iniziare molto presto”, scrive “Nigrizia” citando Padre Joinet che afferma: ‘Per noi la prevenzione primaria è complicata dal conflitto sull'uso del preservativo. Alcuni vescovi proibiscono l'uso anche alle persone sieropositive sposate. Altri insistono sul ‘non uccidere’ e ne consigliano l'uso in alcuni casi particolari. Le conseguenze di tale conflitto sono drammatiche. Conosco infermiere di dispensari cattolici che non informano i malati della loro sieropositività perché, non potendo consigliare l'uso del preservativo, non credono nella possibilità dell'astinenza quotidiana per sempre. In alcuni paesi le Chiese non hanno un programma di prevenzione capace di proposte fattibili per tutti, soprattutto per i giovani. I gruppi di Jeunesse vivante, in Tanzania propongono l'astinenza prima, durante e dopo il matrimonio e raggiungono migliaia di giovani offrendo una formazione globale per la vita. É esemplare. Ma centinaia di migliaia, milioni di altri giovani non vogliono fare parte di questi gruppi e non ricevono alcuna formazione al controllo di sé. Perché - si chiede P. Joinet - tanta opposizione, in questo campo, da parte della Chiesa e di molti missionari?”.
“Alcuni vescovi”, conclude, “si basano sull'insegnamento dell'Humanae vitae (1968) che proibisce l'impiego di metodi artificiali per la contraccezione. Paolo VI ha insistito sul valore della vita e della sua trasmissione. Ma ha scritto nel 1968.
Un fatto nuovo, l'Aids, è sorto dal 1981 e dal 1983 si conosce l'esistenza del virus dell'Hiv. Noi sappiamo che un incontro sessuale in questa situazione può trasmettere la morte come la vita. L'uso del preservativo può impedire, nello stesso tempo, la vita e la morte.... Anche uno studente agli inizi della teologia sa bene che, in caso di doppio effetto, noi dobbiamo cercare il male minore. Trasmettere un virus mortale sembra infinitamente più grave dell'impedire l'incontro tra uno spermatozoo ed un ovulo, anche se protetto da un'enciclica. Il ‘non uccidere’ è incontrovertibile” (180).
Ma l'atteggiamento della Chiesa non è cambiato

Irremovibili
L’8 settembre 2004, Giovanni Paolo II affermava: “Quanto al dramma dell’Aids, ho già avuto modo di sottolineare in altre circostanze che esso si presenta anche come una ‘patologia dello spirito’. Per combatterla in modo responsabile, occorre accrescerne la prevenzione mediante l’educazione al rispetto del valore sacro della vita e la formazione alla pratica corretta della sessualità. In effetti, se molte sono le infezioni da contagio attraverso il sangue specialmente nel corso della gestazione – infezioni che vanno combattute con ogni impegno – ben più numerose sono quelle che avvengono per via sessuale, e che possono essere evitate soprattutto mediante una condotta responsabile e l’osservanza della virtù della castità. I Vescovi partecipanti al menzionato Sinodo per l’Africa del 1994, riferendosi all’incidenza che nella diffusione della malattia hanno comportamenti sessuali irresponsabili, formularono una raccomandazione che qui vorrei riproporre: ‘L’affetto, la gioia, la felicità e la pace procurati dal matrimonio cristiano e dalla fedeltà, così come la sicurezza data dalla castità, devono essere continuamente presentati ai fedeli, soprattutto ai giovani’” (181). Castità è la prima e l'ultima parola della Chiesa, oggi di fronte all'Aids come ieri di fronte alle gravidanze che mettevano a rischio le vite delle donne.
E Benedetto XVI, dopo aver commissionato una ricerca sul preservativo che aveva aperto qualche speranza, ha ribadito di voler condividere le linee e le responsabilità del suo predecessore. E nel corso di un suo recente viaggio in Africa ha rinnovato la campagna contro il preservativo.

21. La copertura della pedofilia Anche gli abusi sessuali, cioè le violenze del clero sui minori, esplose oggi, sono da ricondurre alla concezione distorta della sessualità di cui si è detto prima. Da una parte, infatti, la condanna maniacale del piacere sessuale, visto come il peggiore dei peccati, se non sia giustificato dal fine riproduttivo, porta a trattare come “omicidio” la contraccezione (e così a commettere veri omicidi di donne costrette all’astinenza o a restare in cinta a rischio della vita). D’altra parte porta a ritenere eguali fra loro in quanto espressione di “lussuria” azioni in realtà ben diverse.
Ciò si capisce bene leggendo quanto dice il Catechismo della Chiesa cattolica. Compendio del 205: “492. Sono peccati gravemente contrari alla castità, ognuno secondo la natura del proprio oggetto: l'adulterio, la masturbazione, la fornicazione, la pornografia, la prostituzione, lo stupro, gli atti omosessuali. Questi peccati sono espressione del vizio della lussuria. Commessi su minori, tali atti sono un attentato ancora più grave contro la loro integrità fisica e morale”.
Ma condannare allo stesso modo come “lussuria” sia il libero uso del proprio corpo da soli o con altri (masturbazione, fornicazione, atti omosessuali), sia la brutale violenza su persone non consenzienti (lo stupro e gli atti su minori) porta di fatto a derubricare a una forma di lussuria, equiparandole a una masturbazione o a una libera scopata da trattare in confessionale, delle “violenze”, cioè dei peccati contro il quinto comandamento e con rilevanza anche penale.
Tale distorsione, propria non dei singoli preti ma della dottrina e dell’insegnamento della Chiesa, si è tradotta per un verso nello spingere i singoli (già indotti a cercare degli “sfoghi” alle imposizioni di una morale celibataria) a non comprendere appieno la gravità e la fattispecie specifica della pedofilia e per altro verso nella scelta, fatta e ribadita per decenni dai massimi vertici ecclesiastici, di occultare questo “peccato” per evitare scandali e di trattarlo sotto il segreto pontificio” anziché considerarlo un “reato” da denunciare alle autorità civili.

22. Omicidio di stato e “pratiche crudeli” Gli omicidi commessi dalla Chiesa, come si è visto, sono stati in gran parte frutto dell'affidamento al braccio secolare o extragiudiziali, derivanti da guerre, conquiste, lotte fra le varie fazioni curiali e vendette private, se non addirittura indiretti, come risultato delle campagne anticontraccettive e antiabortiste. Ma vi furono, come pure abbiamo visto parlando dei singoli papi, anche omicidi “di stato”, ossia l'uso della pena di morte nello stato della Chiesa per punire reati politici o comuni (anche se a volte sotto questa dizione rientrarono peccati-reati di tipo politico-religioso, dalla bestemmia alle offese contro la religione o contro il papa all'omosessualità, che in altri casi o epoche furono di competenza dei tribunali dell'inquisizione).
Qui ci occupiamo solo della giustificazione dottrinale che la Chiesa ha dato all’omicidio di stato e alle “pratiche crudeli” (mutilazioni o torture), e di come e fino a quando tali pene rimasero in vigore nello stato pontificio.

Agostino e le uccisioni consentite
I primi padri della Chiesa erano in genere fortemente contrari alla violenza omicida. Si veda, per tutti, Lattanzio, che scrive: “Dio nel proibire l'assassinio, biasima non solo il brigantaggio, che è contrario alle leggi umane, ma anche ciò che gli uomini considerano legale. La partecipazione alla guerra, quindi, non deve sembrare legittima a un uomo giusto” (182).
Ma nel IV-V secolo, iniziata l'età costantiniana, Agostino, teorizzò insieme alla “guerra giusta”, come voluti da Dio, e citando l’Antico Testamento, anche i sacrifici umani (!) e l’omicidio di stato.
Nel 413 ca Agostino scrive nella Città di Dio: “Lo stesso magistero divino ha fatto delle eccezioni alla legge di non uccidere. Si eccettuano appunto casi d'individui che Dio ordina di uccidere sia per legge costituita o per espresso comando rivolto temporaneamente a una persona. Non uccide dunque chi deve la prestazione al magistrato… Quindi non trasgrediscono affatto il comandamento con cui è stato ingiunto di non uccidere coloro che han fatto la guerra per comando di Dio ovvero, rappresentando la forza del pubblico potere, secondo le sue leggi, cioè a norma di un ordinamento della giusta ragione, han punito i delinquenti con la morte” (183).

Mutilazioni e tortura
Questa resterà, fino ai giorni nostri, la posizione della Chiesa per quanto riguarda l'omicidio di stato e la sua pratica nello stato pontificio. Fino al 1000, però, pareva tassativamente esclusa la tortura anche per estorcere la confessione. Nicolò I (papa e santo), rispondendo ai Bulgari nell'866, riteneva che torturare non fosse “permesso in nessun modo né dalla legge divina nè della legge umana” (184).
Ma nel 1270 ca Tommaso d’Aquino spiega che “come lecitamente uno può essere, dalla pubblica autorità, privato totalmente della vita, per colpe gravissime, così uno può essere mutilato di qualche membro per alcune colpe minori” (185). Ciò apre la strada alla tortura anche se Tommaso parla delle mutilazioni come pena e non come mezzo per estorcere la confessione.
A questo fine, tuttavia, la tortura già esisteva nell’ordinamento statuale e fu adottata nel 1254, come abbiamo visto più sopra, da Innocenzo IV contro gli eretici, entrando nell’uso ecclesiastico. Dal XIV secolo l'uso dei “tormenti” detti anche, con linguaggio ipocrita, “rigoroso esame”, fu codificato in modo quasi pignolo dai più noti manuali inquisitoriali ,dal celebre Manuale dell'Inquisitore di Nicolau Eymerich del 1376 al meno conosciuto Tractatus de officio sanctissimae Inquisitionis di Cesare Carena del 1669, che disquisisce su quando “il solo possesso di un libro proibito sia motivo sufficiente per torturare il possessore” (186). Nel frattempo, come pure si è già visto più sopra, un decreto del Santo Ufficio del 1557 contemplava la possibilità che il torturato morisse e si premurava di assolvere preventivamente i torturatori.
La tortura, come attesta nel XVI secolo la relazione di un funzionario di Filippo II, era praticata anche nel Nuovo Mondo dai religiosi nel quadro dell'evangelizzazione: i frati raparono e vestirono coi sanbeniti i trenta esponenti maya arrestati, si legge, “collocandoli in alto alla maniera del tormento della carrucola con pietre di due e tre arrobas [50 e 75 libbre] e così appesi dandogli molte frustate fino a che non scorreva a molti di loro sangue per la schiena e per le gambe fino al suolo; e su queste [ferite] le tormentavano con olio bollente come si usava fare con i negri schiavi, e con candele di cera incendiate e fondendo sulle loro carni la cera” (187).

Le “giustizie” a Roma dal XIV secolo
“Giustizie” erano dette le esecuzioni capitali che avevano luogo nello Stato pontificio e Le giustizie a Roma è il titolo di un libro che ad esse dedicò nel 1882 il liberale A. Ademollo (188). L’autore vi pubblica un diario dell'abate Placido Eustachio Ghezzi su tutte le Giustizie eseguite in Roma dal 1674 al 1739. Ghezzi ricorda che Clemente X aveva autorizzato l'Arciconfraternita della SS. Natività di N. S. Gesù Cristo degli Agonizzanti a esporre il SS.mo, con indulgenza, ogni volta che si eseguiva una condanna a morte. Il Ghezzi dà una nuda cronologia delle esecuzioni fino al 1697, poi via via le arricchisce di dettagli (nomi e poi anche colpe dei giustiziati e tipo di supplizio). Ademollo pubblicò poi nel 1886 un altro volume, Le annotazioni di Mastro Titta, carnefice romano (189), in cui pubblica le annotazioni tenute dal Bugatti, il più celebre boia pontificio, sulle esecuzioni da lui eseguite in tutto lo Stato, non nella sola capitale, per tutto il periodo nel quale fu in carica (1796-1864) e anche quelle del suo successore Vincenzo Balducci, che operò solo sei anni (1864-1870), ossia fino alla caduta del potere temporale.
Oltre a fornire dati puntuali sulle esecuzioni capitali relative ai periodi citati, Ademollo ci dà, nelle introduzioni ai due volumetti, utili informazioni sulle epoche precedenti, a partire dal XIV secolo, per quanto riguarda sia la pena di morte sia le “pratiche crudeli”.
Per tutto il Medioevo, informa Ademollo, “campo di giustizia era sempre la Rupe Tarpea” dove “Presso un leone di basalto i delinquenti udivano la lettura della sentenza che li condannava, e quanto ai malfattori di bassa condizione solevasi porli a cavalcione di quel leone con una mitra in testa e con la faccia impiastricciata di miele” (Gregorovius, Storia di Roma, vol. VII, p. 853). Dal 1488, continua Ademollo, “venne designato per luogo di giustizia un recinto davanti al Ponte S. Angelo, nelle cui adiacenze era il vicolo denominato del Boja” e “Nel 27 maggio 1500, in pieno Anno Santo, i pellegrinanti a S. Pietro ebbero la dolce sorpresa di passare il Ponte fra due file d’impiccati”, nove per parte. Ma anche Campo di Fiore e altri luoghi cominciarono a venire usati per le esecuzioni (190).
Il supplizio solitamente usato fino al Cinquecento per nobili ed ecclesiastici (quando non venivano strangolati direttamente in cella, come avvenne nel 1561 al cardinal Carafa) era la decapitazione (in luoghi chiusi o con poco pubblico) mediante uno spadone. I non nobili invece (compresi fra questi i “foglianti”, ossia i giornalisti del tempo) venivano impiccati sulla forca.

Mazzolatura semplice e con squarto
I non nobili colpevoli di reati ritenuti particolarmente gravi subivano un tormento fra i più barbari: la mazzolatura semplice (cioè l’uccisione mediante bastonatura al capo con una sorta di mazza) o la mazzolatura con squarto (il condannato era colpito con una violenta bastonata al capo e, mentre ancora era tramortito, veniva squartato). E ai supplizi si affiancavano pene corporali e mutilazioni.
Nel Cinquecento, nel clima della lotta dell’inquisizione romana contro il protestantesimo, crebbe la durezza del papato come abbiamo visto più sopra, specie con Giulio III, Paolo IV, Pio V (santo) e Sisto V. Ciò si tradusse anche nell’estensione della pena di morte ad alcuni reati che non la prevedevano (ad esempio per l'aborto, di cui si è già detto parlando di Sisto V, e che fu di nuovo tolta dal suo successore) o di aggravamenti delle pene corporali.
Delle severe punizioni contro chi “biastemma”, disposte dal governatore di Roma ma su “espresso ordine… di Sua Santità”, vi è traccia anche nell'Archivio segreto pontificio: “Il signor governatore di Roma…di espresso ordine et special commissione di Sua Santità, ordina et comanda che nessuna persona…ardisca in alcun modo biastemmare o disonestamente nominare il santissimo nome dell'onnipotente Iddio o del suo unigenito figliol Jesu Christo e della gloriosa sempre vergine sua madre…o di qual si voglia santo o santa, sotto pena per la prima volta… di star con le mani ligate dietro tutto un giorno alla berlina,… et per la seconda volta, oltra la sopradicta pena, di esserli forata la lingua, et per la terza volta sotto pena della galera per cinque anni…et si darà fede ad un solo testimonio” (191).

Enunciata la legge, trovata l’eccezione
Circa vent'anni prima, nel 1566, il Catechismo romano, promulgato da Pio V in base alle decisioni del Concilio di Trento, ribadiva che le esecuzioni capitali rientravano fra le “uccisioni che non sono proibite”: “Enunciata la Legge che vieta di uccidere”, si legge, “il parroco dovrà subito indicare le uccisioni che non sono proibite. Non è infatti vietato uccidere gli animali…Altra categoria di uccisioni permessa è quella che rientra nei poteri di quei magistrati che hanno facoltà di condannare a morte. Tale facoltà, esercitata secondo le norme legali, serve a reprimere i facinorosi e a difendere gli innocenti …Per le stesse ragioni non peccano neppure coloro che, durante una guerra giusta, non mossi né da cupidigia né da crudeltà, ma solamente da amore del pubblico bene, tolgono la vita ai nemici. Vi sono anzi delle uccisioni compiute per espresso comando di Dio. I figli di Levi non peccarono quando in un solo giorno uccisero migliaia di uomini; dopo di ciò Mosè rivolse loro le parole: ‘Oggi avete consacrato le mani vostre a Dio’” (192).
Si noti come continui ad essere influente l’Antico Testamento nel giustificare l'omicidio compiuto “per espresso comando di Dio”. La Chiesa ancora oggi condivide queste divine mattanze? La Chiesa tridentina, comunque, si.

Le “giustizie” dal XVII al XIX secolo
Nel frattempo i papi continuavano ad eseguire sentenze capitali che dalla fine del Seicento vengono dettagliate, come si è detto, nel diario del Ghezzi. Esso ci permette di notare che pur prevalendo le condanne per reati comuni non mancano quelle per reati politici, come l'impiccagione già ricordata del giornalista Bernardino Scatolari ad opera di Innocenzo XI (1685), o per offese alla religione (come il furto di due pissidi...).
Complessivamente, nei 65 anni (1674-1739) annotati dal Ghezzi vi furono a Roma 210 “giustizie” (poco più di 3 all’anno), di cui circa il 40% per reati che non arrivavano all'omicidio (falsificazione di denaro, furti, rapine, reati politici o religiosi) e furono una trentina gli squartati. Nei 68 anni in cui fu carnefice Mastro Titta, invece, ossia fra il 1796 e il 1864, le “giustizie” furono 514, un record ineguagliato, cui vanno aggiunte le 13 del suo successore Balducci dal 1864 al 1870. Si tratta però di esecuzioni effettuate non solo a Roma ma in tutto lo stato pontificio e da cui vanno tolte quelle eseguite nei 4 anni in cui lo stato pontificio fu annesso alla Francia napoleonica (1810-1813), la quale, con 56 esecuzioni (13 l’anno!), diede una ben trista immagine di sé. Da notare che circa il 22% dei giustiziati dallo stato pontificio non erano omicidi o, in dieci casi, avevano commesso reati politici.
Quanto al tipo di supplizi sono notevoli le informazioni tratte dagli 8 volumi dei Voyages (1730) di padre Labat e riprodotte in francese dall’Ademollo (193). Labat testimonia che ancora ai primi del Settecento erano in uso nello stato pontificio soprattutto due tipi di tortura, entrambi molto dolorosi, della veglia e della corda, mentre le pene continuavano a essere quelle che si è detto sopra: decapitazione (da un certo punto in avanti con la mannaia), per nobili ed ecclesiastici; per i non nobili invece forca e mazzolatura semplice o con squarto. Quest’ultima, precisa ancora Ademollo, fu soppressa durante il pontificato di Benedetto XIII (1724-30) ma ripristinata dal suo successore Clemente XII.

Per la Chiesa la pena di morte è giusta
Invariate restavano anche le opinioni della Chiesa in materia di pena di morte, come si vede da ciò che insegnava il maggiore teologo del Settecento Alfonso Maria de’ Liguori, nel 1767: “solamente per tre cause è lecito uccidere un altro uomo: per l'autorità pubblica, per la propria difesa, e per la guerra giusta. Per l'autorità pubblica è ben lecito, anzi è obbligo de' principi e de' giudici di condannare i rei alla morte che si meritano, ed è obbligo de' carnefici di eseguire la condanna. Dio stesso vuole che siano puniti i malfattori” (194).
Merita di essere sottolineato come queste parole fossero pronunciate tre anni dopo che era uscito in Europa il celebre saggio di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene, che rifiutava la tortura e la pena di morte, e che fu messo all'indice dalla Chiesa. Così come va notato che la pena di morte e la tortura erano in vigore nello stato pontificio mentre Federico il Grande vietava la tortura in Prussia e tortura e pena di morte furono vietate, benché per poco tempo, in Toscana.
Nello stato della Chiesa si dovette anzi aspettare l'arrivo della rivoluzione francese perché fosse introdotto un unico sistema di esecuzione, la ghigliottina, per nobili e plebei. Ma col ritorno del papa tornarono la forca (usata l’ultima volta nel 1829) e la mazzolatura semplice (ultima volta nel 1816) o con squarto (ultima volta nel 1826). Poi si impose per tutti la ghigliottina, in qualche caso la fucilazione. Mastro Titta, dunque, ebbe modo di cimentarsi con “ogni genere di supplizio” e in tutti, “mazzola, squarto, forca, ghigliottina, mostrò sempre eguale abilità” (195). Merito non da poco, se si pensa che in quei secoli furono numerosi i casi in cui il giustiziato tribolava perfino a morire per l’inesperienza dei carnefici, spesso improvvisati.
L’ultima “giustizia” fu eseguita il 9 luglio 1870. Due mesi dopo il potere temporale cessava di esistere. Nel frattempo erano continuate in parallelo anche le altre morti, ancora più lente e dolorose degli eretici arsi a fuoco lento o murati vivi e uccisi a poco a poco - come due donne di cui racconta Rucellai nello Zibaldone quaresimale, murate in due pilastri di una chiesa, “solo con una buca dove si porge loro il mangiare” (196).
Naturalmente, come dimostra l'esempio dei quattro anni di governo napoleonico a Roma, lo stato della Chiesa non era il più feroce in Europa o quello che ricorreva di più alla pena capitale. Ma era lo stato che serviva d’esempio a tutti i paesi cattolici del continente, cui forniva la giustificazione dottrinale, proprio mentre i pensatori non cattolici più avanzati contestavano la tortura e l’omicidio di stato.

… anche nel primo Novecento…
La legittimazione della pena di morte da parte della Chiesa continuò anche dopo la fine del potere temporale. Pio X nel Catechismo del 1913 ripete: “Vi sono dei casi nei quali sia lecito uccidere il prossimo? È lecito uccidere il prossimo quando si combatte in una guerra giusta, quando si eseguisce per ordine dell'autorità suprema la condanna di morte in pena di qualche delitto; e finalmente quando trattasi di necessaria e legittima difesa della vita contro un ingiusto aggressore” (197).
Allo stesso modo la pena di morte non fu cancellata nella Città del Vaticano, pur restando di fatto inapplicata. Nella Legge fondamentale del 7 giugno 1929, all’art. 4 si legge: “La pena comminata contro chi nel territorio della Città del Vaticano commette un fatto contro la vita, la integrità o la libertà personale del Sommo Pontefice è quella indicata nell’art. 1 della legge del Regno d’Italia 25 novembre 1926 n. 2008” (198). E l’art. 1 della legge del Regno d’Italia cui ci si riferisce stabiliva che “Chiunque commette un fatto diretto contro la vita, l’integrità o la libertà personale del re o del reggente è punito con la morte. La stessa pena si applica, se il fatto sia diretto contro la vita, l’integrità o la libertà personale della regina, del principe ereditario o del capo del governo” (199).
Questa norma fu abrogata solo dall’art. 44, comma 1, della legge del giugno 1969 che modificava la legislazione penale e la legislazione processuale dello Stato del Vaticano, in armonia con la svolta avviata dal Concilio Vaticano II. Ma ben più interessante del permanere formale nella legislazione di un piccolo stato, è il fatto che la pena di morte fosse sostenuta fino al 1969 e oltre dalla dottrina cattolica, il che favorì la sua permanenza nelle legislazioni di tutto il mondo.

… e anche nel secondo
Significativo è, in particolare, quello che si legge in due fra i volumi di teologia morale più difffusi, quello di Giuseppe Mausbach del 1954, e quello di Bernard Haring del 1957, continuamente riediti con imprimatur anche dopo il Concilio Vaticano II.
Mausbach, ad esempio, scrive: “La Sacra Scrittura del Vecchio testamento contiene molte prescrizioni giudiziarie, che colpiscono con la pena di morte tutta una serie di gravi peccati (l'assassinio, la bestemmia, l'idolatria, atti gravi di immoralità sessuale ecc.)… Nella Chiesa antica…il sentimento cristiano della pace e un certo senso di ritegno di fronte al versamento del sangue produssero una forma di esitazione per quanto riguarda la pena di morte”
A sua volta l'Haring scrive: “In linea di principio lo Stato ha diritto di infliggere la pena di morte per punire gravi delitti, se ciò appare necessario nell'interesse del bene pubblico. La Sacra Scrittura ribadisce energicamente questo diritto dello stato”
Si noti che il Mausbach afferma candidamente e senza trovare da eccepire che “molte prescrizioni giudiziarie” colpiscono con la pena di morte “una serie di gravi peccati”, come se fosse accettabile l’identità peccato-reato, che i cattolici hanno fatto a lungo e tutto sommato vorrebbero fare ancora...
Da rilevare inoltre come sia presentata con imbarazzo non la pena di morte ma “l’esitazione” dei primi cristiani di fronte ad essa. Opinione condivisa del resto da Haring, secondo il quale “una prassi penale troppo mite...si risolve in crudeltà verso gli innocenti”. E' l'argomento usato oggi da fascisti e leghisti, o da chi è “aperto” alla castrazione chimica dei pedofili...

La “svolta”
Appaiono quindi come una “svolta” rispetto a una posizione bimillenaria, suffragata dal Vecchio Testamento, l'odierno rifiuto della pena di morte da parte del Vaticano e il suo impegno nella lotta per la sua abolizione a livello mondiale. Ma con quali argomenti?
Ecco le posizioni del Catechismo della Chiesa cattolica, promulgato nel 1992 da Giovanni Paolo II e riproposto sostanzialmente negli stessi termini anche nelle edizioni successive, fino al Compendio del 2005: "Nei tempi passati, da parte delle autorità legittime si è fatto comunemente ricorso a pratiche crudeli per salvaguardare la legge e l'ordine, spesso senza protesta dei pastori della Chiesa, i quali nei loro propri tribunali hanno essi stessi adottato le prescrizioni del diritto romano sulla tortura. Accanto a tali fatti deplorevoli, però, la Chiesa ha sempre insegnato il dovere della clemenza e della misericordia; ha vietato al clero di versare il sangue…. Nei tempi recenti è diventato evidente che tali pratiche crudeli non erano né necessarie per l'ordine pubblico, né conformi ai legittimi diritti della persona umana. Al contrario, esse portano alle peggiori degradazioni. Ci si deve adoperare per la loro abolizione. …
“L'insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell'identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l'unica via praticabile per difendere efficacemente dall'aggressore ingiusto la vita di esseri umani. Se invece i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall'aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l'autorità si limiterà a questi mezzi… Oggi… a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine… i casi di assoluta necessità di soppressione del reo 'sono ormai molto rari, se non di fatto inesistenti' (Evangelium vitae)” (202).

Una svolta piena di bugie
E’ da notare intanto l’ipocrisia dei passaggi relativi alle “pratiche crudeli” che sarebbero state guardate dalla Chiesa “senza protesta” o mutuate dal diritto romano insegnando il dovere delle misericordia e vietando al clero di versare il sangue. Si tratta di menzogne in quanto l’atteggiamento della Chiesa è stato tutt’altro che di passiva accettazione o di clemenza: il divieto al clero di “versare il sangue” scomparve almeno da quando papi e vescovi guidarono gli eserciti in battaglia; Innocenzo IV e i suoi successori, come si è visto, hanno non solo introdotto ma “preteso” l’uso della tortura da parte delle autorità civili e Paolo IV ha incitato a servirsene, assolvendo i chierici che avessero mutilato o anche ucciso il torturato... Se poi pensiamo alle mutilazioni inflitte ai bestemmiatori, alla mazzolatura con squarto in vigore nello stato della chiesa e a tutto il resto elencato qui sopra si capisce che non ci fu certo nella Chiesa né clemenza né misericordia.
Altrettanto infondato è il tentativo di occultare le responsabilità della Chiesa, affermando che soltanto “nei tempi recenti” sarebbe divenuta evidente l’inutilità delle “pratiche crudeli” e che solo “oggi” lo stato avrebbe “mezzi incruenti... sufficenti per difendere” la società senza ricorrere alla pena di morte. Si è già detto come almeno da due secoli il pensiero laico avesse contestato la pena di morte e con ben altre ragioni.
Sono altri, non certo la mancanza di carceri sicure e mezzi repressivi efficaci (!), i motivi che hanno ostacolato in passato l’abolizione della pena di morte. Fra queste proprio l’idea, proposta dalla Chiesa sulla scorta della Bibbia e difesa ancora nel 1957 dai teologi, che “Chi sparge sangue umano, dall'uomo sarà sparso il suo sangue” (Numeri, 35, 16); o l’opinione del “lumen ecclesiae” Tommaso d’Aquino secondo cui la morte “giova al peccatore per l'espiazione” e serve al bene comune.
Ma la Chiesa, non potendo/volendo ammettere di essersi sbagliata, seguita a difendere la pena di morte in via di principio (“la Chiesa non esclude...il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l'unica via”) limitandosi a ritenerla “praticamente” non necessaria “oggi” anziché autocriticarsi per gli argomenti e i comportamenti usati in passato.

Un'altra forma di tortura
Ancora più ambigua la posizione della Chiesa sulla tortura che ovviamente condanna nelle forme tradizionali, da essa praticate nei secoli scorsi, ma al tempo stesso ripropone, fedele alla concezione della vita come “valle di lacrime” e sofferenza da offrire a Dio, sotto forma dell’obbligo di restare in vita, anche quando la vita sia diventata insopportabile e indegna d’essere vissuta. E’ quanto dice Giovanni Paolo II nel 1995: “Oggi, in seguito ai progressi della medicina e in un contesto culturale spesso chiuso alla trascendenza... si fa sempre più forte la tentazione dell'eutanasia, cioè di impadronirsi della morte, procurandola in anticipo e ponendo così fine ‘dolcemente’ alla vita propria o altrui. In realtà, ciò che potrebbe sembrare logico e umano, visto in profondità si presenta assurdo e disumano. ... in conformità con il Magistero dei miei Predecessori e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana” (203).
Al fondo vi è l'idea che spetta solo a Dio decidere quando mettere fine alla vita, anche per chi non crede in lui, così come la morale cattolica è il meglio per tutti, anche per chi cattolico non è.
Le stesse posizioni ha ribadito, con la stessa arroganza, il papa in carica, il 24 ottobre 2007 (204), sempre con la solita incapacità di immaginarsi un mondo non confessionale, in cui non tutti credono (anzi pochi, ormai, per verità) quello cui crede il papa. Si aggiunga che i papi, per andare sul sicuro, e come hanno mostrato i casi Welby e Englaro, intendono con eutanasia non solo la scelta attiva di porre fine alla vita ma anche quella di interrompere le cure, secondo un diritto costituzionale. La Chiesa è d'accordo solo nel rifiutare l'accanimento terapeutico, salvo non riconoscere mai che il caso sussista e facendolo sempre passare per “eutanasia”.
In questo modo si sottopongono i malati terminali o quelli ridotti in stato vegetativo permanente alla tortura di una vita impossibile, come si è cominciato a capire in Italia nel 2006 con il drammatico caso di Piergiorgio Welby, da molti anni affetto da una malattia incurabile arrivata alla fase terminale col rischio di una lunga agonia per soffocamento. Egli chiese (e alla fine ottenne non grazie allo stato ma al coraggio di un medico) di mettere dignitosamente fine alla sua vita. La risposta fu il rifiuto del funerale religioso chiesto da lui e dalla moglie e concesso con grandi onori, quasi negli stessi giorni, al pluriomicida e torturatore Pinochet (poco dopo al famoso cantante divorziato e risposato Pavarotti).
Proprio Welby, morendo, ci ricordò come quella che la Chiesa ancora pratica non sia che una moderna forma di tortura. “Addio”, ha scritto Welby ai suoi cattolicii torturatori, “Signori che fate della tortura infinita il mezzo, lo strumento obbligato di realizzazione o di difesa dei vostri valori” (205).
E' questa in effetti, quella da cui Welby o il padre di Eluana Englaro supplicavano di essere liberati, la sola “vita” che la Chiesa tutela, anzi impone a chi la rifiuta, mentre distrugge tutte le altre nei modi più diversi, e spesso feroci, da secoli (206).
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Note
1) in I conti con la Bibbia, II. c. III www.akkuaria.org/severinoproietti/index.html
2) ibid.
3) in De errore profanorum religione, cit. in G. Barbero [a cura], Il pensiero politico cristiano, UTET, Torino 1962
4) in C. Rendina, I papi, Newton & Compton, Roma 2005, p. 94
5) Agostino, Contro Fausto Manicheo, libro XXII, in Agostino, Tutte le opere, www.augustinus.it/italiano/index.html
6) J. Flori, La guerra santa, Bologna, Il Mulino 2003, p. 43
7) in K. Dechner, Storia criminale del cristianesimo, Ariele, Milano, vol. I, p. 71
Leone I, Epistole 5, 13, 117 in Dechner, cit., III, p. 435
9) C. Rendina, op. cit., p. 128-30
10) L. Desanctis, Il papa non è successore di Pietro, Claudiana 186
11) C. Rendina, op. cit., p. 150
12) in G. Patacchiola, Le minoranze sessuali dal tardo impero romano al XVII secolo, www.oliari.com/tesi/giuseppepatacchiola.html
13) ibid.
14) ibid.
15) K. Deschner, La croce della Chiesa, Massari ed., Bolsena 2000, p. 233
16) P. Delogu, Enciclopedia dei papi, Ist. Enciclopedia It., Roma 2000, vol. I, p. 650
17) C. Rendina, op. cit., pp. 231-33
18) N. Fabretti, I vescovi di Roma, ed. Paoline, Cinisello alsamo 1986, pp. 109-110
19) A. Borrelli, S. Leone III, in www.santiebeati.it/
20) C. Rendina, op. cit., p. 258
21) A. Piazza, in Dizionario enciclopedico dei papi, Città Nuova, Roma 1995, p. 707
22) in K. Dechner, Storia criminale cit., vol.V, p. 129-30
23) A. Borrelli, S. Leone IV, in www.santiebeati.it/
24) O. Bertolini, Enciclopedia dei papi, cit., vo. II, p. 37
25) A. Borrelli, S. Leone IX, in www.santiebeati.it/
26) P. Partner, Il Dio degli eserciti. Islam e cristianesimo: le guerre sante, Einaudi, Torino 2002, p. 93
27) J. Flori, op. cit., p. 331
28) ibid., p. 332
29) P. Partner, op. cit., p. 95
30) in K. Dechner, Storia criminale cit., vol.VI, p. 370
31) in R. H. Bainton, Il cristiano, la guerra, la pace, Gribaudi, Torino 1968, pp. 139-40
32) in Vittime della fede cristiana, tr. L. Franceschetti in www.uaar.it/
33) A. Aruffo, La Chiesa e gli ebrei, Datanews, Roma 1998, p. 26
34) L. Poliakov, Storia dell'antisemitismo, La Nuova Italia, Firenze 1974-90, v. II, p. 59
35) E. Saracini, Breve storia degli ebrei e dell'antisemitismo, Mondadori Milano 1977, p. 44
36) in Vittime etc., cit.
37) P. Partner, op. cit., p. 94
38) C. Mannucci, L’odio antico. L’antisemitismo cristiano e le sue radici, Mondadori, Milano 1993, p. 235
39) G. Messadié, Storia dell'antisemitismo, Piemme, Casale monferrato 2002, p. 177
40) ibid., p. 155
41) E. Saracini, op. cit., p. 43
42) P. Partner, op. cit., p. 94
43) S. Runciman, Storia delle crociate, Einaudi, Torino 1966, p. 792
44) ibid., p. 796
45) in K. Deschner, Storia criminale etc. cit., vol. VII, p. 79
46) ibid., vol. VII, p. 101
47) in M. T. Fumagalli Beonio Brocchieri, Cristiani in armi, Laterza, Bari 2006, p. 43
48) in J. P. Migne, Patrologia latina, Garnier, Paris, vari anni, vol. CCXLVI
49) Concili ecumenici, www.totustuus.biz/users/concili/
50) in K. Deschner, Storia criminale cit., vol. VII, p. 132
51) ibid., p. 136
52) A. Landi, Fede e civiltà, d’Anna, Messina 1977, p. 15
53) P. Partner, op. cit., p. 196
54) ibid., p. 136
55) in E. Buonaiuti, Storia del cristianesimo, Dall’Oglio, Milano 1979, vol. II, p. 320-21
56) Somma teologica, IIa IIae, q. 11, art. 3, Salani, Firenze 1949-75
57) Breve all’arcivescovo di Sens, in H.-Ch. Lea, Storia dell’inquisizione: origine e organizzazione, Feltrinelli/Bocca, Milano 1974, p. 188
58) A Enrico, in K. Dechner, Storia criminale etc., cit., vo. VII, p. 135
59) H.-Ch. Lea, op. cit., p. 289
60) in D. Canfora, La libertà al tempo dell’inquisizione, Teti, Milano 1999, p. 27
61) N. Eymerich, Manuale dell’inquisitore a.d. 1376, Piemme, Casale monferrato 1998
62) J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza, omosessualità, Leonardo, Milano 1989, p. 355
63) in G. Patacchiola, op. cit.
64) in J. Boswell, op. cit., p. 352
65) K. Deschner, Storia criminale cit., vol. VII, p. 342
66) M. Baigent, R. Leigh, L’Inquisizione, Net, Milano 2004, p. 70
67) J. Kelly, Dizionario illustrato dei papi, Piemme, Casale Monferrato 2003, p. 553
68) C. Rendina, op. cit., p. 549
69) J. Fo, S. Tomat, L. Malucelli, Il libro nero del cristianesimo, Nuovi mondi 2000, pp. 143, 177
70) Concili ecumenici, cit
71) in S. Z. Ehler e J. B. Morrall, Chiesa e stato attraverso i secoli, Vita e pensiero, Milano 1958
72) C. Rendina, op. cit., p. 575
73) ibid.
74) v. A. Corvisieri, Chiesa e schiavitù, Paleario ed., Roma s.d., p. 51
75) B. Bennassar, Storia dell’Inquisizione spagnola, Rizzoli, Milano 2003, p. 35
76) A. Petta, Gli scheletri della Inquisizione,
www.stampalternativa.it/wordpress/index.php?p=34
77) M. Baigent etc., op. cit., p.11
78) G. Tourn, I valdesi, Claudiana, Torino 1999, p. 86
79) in S.Abbiati, A.Agnoletto, M. R. Lazzati, La stregoneria, Mondadori, Milano 1984, pp. 340-41
80) ibid.
81) H. Institor, J. Sprender, Il martello delle streghe (Malleus maleficarum), Spirali edizioni, Milano 2003
82) V. De Angelis, Il libro nero della caccia alle streghe, Piemme, Casale di Monferrato 2001, pp. 98-100
83) C. Mornese, La “stria” Gatina e i suoi carnefici, Alias, suppl. “il manifesto”, 11 settembre 2004
84) Il libro nero del cristianesimo, cit., pp. 195-96
85) K. Dechner Il gallo cantò ancora, Massari ed., Bolsena 1998, p. 418
86) La stregoneria, cit., pp. 342-348
87) in Magnum Bullarium Romanum, vol. V
88) G. Romeo, L’inquisizione nell’Italia moderna, Laterza, Bari 2002, p. 86
77) M. Baigent etc., op. cit., p.11
78) G. Tourn, I valdesi, Claudiana, Torino 1999, p. 86
79) in S.Abbiati, A.Agnoletto, M. R. Lazzati, La stregoneria, Mondadori, Milano 1984, pp. 340-41
80) ibid.
81) H. Institor, J. Sprender, Il martello delle streghe (Malleus maleficarum), Spirali edizioni, Milano 2003
82) V. De Angelis, Il libro nero d

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