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(16 Giugno 2010)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.culturainlotta.altervista.org

IL FASCISMO E LA SUA DIVISA ISTITUZIONALE

Quando mesi fa l’appalto per il servizio di portierato in outsourcing di Ca’ Foscari è entrato nella sua fase più buia il Coordinamento dei Lavoratori della Cultura in Lotta denunciava non soltanto la situazione inaccettabile di quegli operatori che, dopo un decennio di “servitù a basso costo” sono stati volutamente lasciati a casa, ma anche la qualità e la tipologia del servizio che l’ente committente con l’ausilio ora dell’ATI Prodest + Guerriero, ma già in passato in modo forse meno marcato con l’aiuto di altre realtà appaltatrici, si prodigava di mettere in atto in netto contrasto con chi di giorno in giorno vive quella specifica realtà lavorativa.

Gli ex lavoratori delle portinerie di Ca’ Foscari segnalavano già durante gli appalti precedenti le intromissioni di manodopera dell’ente committente e un crescente modo dittatoriale delle assegnatarie di gara sui dipendenti.

Ricordiamo quando circa due anni or sono una dipendente incalzata da tutta una serie di domande da parte del responsabile della Cooperativa universitaria Biblos finì in ospedale, ma anche il continuo pattugliamento ai danni delle lavoratrici della sede di S. Basilio, fatte oggetto di un controllo troppo stretto e tale da compromettere la qualità del servizio stesso. Una lavoratrice in modo particolare si è vista improvvisamente spostata di sede senza le fosse stato mai fornito un motivo preciso a parte le solite “esigenze aziendali”, ebbene, quella lavoratrice ha resistito alla mobilità (sostenuta in maniera alterna dal sindacato) e a dispetto di tutte le pressioni subite ha rischiato il posto e alla fine ci ha rimesso un mese di stipendio.

Ma le furberie delle ditte non finiscono qua, pensiamo alla questione della divisa di lavoro (che il sindacato fa notare essere prescritta dal CCNL). Secondo il parere di qualche responsabile della Cooperativa la divisa avrebbe evitato quella noiosa operazione di vestizione mattutina con la quale si trova a dover fare i conti la stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta. A detta del gestore il lavoratore avrebbe dovuto partire da casa addobbato secondo la volontà del padrone, espletare il servizio e forse, alla sera, prima di coricarsi smettere l’uniforme e magari, perché no, fare pure il bucato in modo da presentarsi il giorno dopo con il capo griffato “Precariato SPA” perfettamente pulito per essere sfoggiato nuovamente sul posto di somministrazione di lavoro. Tutto questo perché in Ateneo non esistono gli appositi spogliatoi come altresì vorrebbe la legge, ma cosa ancor più grave l’abbandono del buon senso. A cosa serve un’uniforme dentro una università dove il cartellino identificativo è più che sufficiente?

La questione che a molti è parsa una sciocchezzuola, un capriccio o un atto di puro ribellismo (come ci ha fatto notare qualche sindacalista) è in realtà indicativa di un modo di trattare con i dipendenti completamente sbilanciato a favore dell’Ente committente e della ditta.

Mentre i “lavoratori di serie B”, i precari, devono rispetto e deferenza all’istituzione universitaria, questa ultima, mantenuta in attività da soldi pubblici può benissimo comportarsi tramite i suoi operatori di fronte a regole che prevedano il riconoscimento del dipendente a contatto con il pubblico come più le aggrada. Nessuno, o molto pochi, dei dipendenti interni all’università, infatti, anche ricoprenti ruoli di relazione con l’esterno porta il cartellino identificativo.

Allora non è inutile chiedersi perché chi subisce già la mannaia della flessibilizzazione, con un salario al di sotto della soglia di sussistenza, costretto ad una condizione lavorativa dove l’interposizione di manodopera è sotto gli occhi di tutti, debba anche portare una divisa mentre altri con maggiori sicurezze lavorative ed economiche possono bellamente infischiarsene dei regolamenti?

La risposta c’è! Si tratta della volontà di far sentire i lavoratori esternalizzati pura merce, oggetti!

E così erodendo diritti e recidendo le condizioni di miglior favore tra cui la questione della non obbligatorietà dell’uniforme perché mai indossata in precedenza (condizioni mal difese dai sindacati) siamo giunti al preoccupante caso di ieri. Una dipendente dell’ATI Prodest + Guerriero che chiedeva di essere sostituita, perché non in uno stato di salute ottimale, si è sentita rispondere dai padroni, che tengono all’immagine tanto da obbligarla ad indossare il loro completino per l’estate 2010, un sonoro NO! La lavoratrice è così svenuta e si è reso necessario l’arrivo dell’idroambulanza e il subitaneo ricovero presso l’ospedale. D’altronde si sa che abbandonare la garitta è considerata diserzione da questi imprenditori del lavoro creativo.

Di chi la colpa? Vogliamo imputare soltanto alla ditta questa conduzione schiavile dell’appalto o non sarà forse il caso di ritornare con la memoria a ben sette mesi fa quando si è consumata, con la connivenza dell’Ateneo, la mancata assunzione di quei 43 dipendenti, gli unici a detta del Tribunale del Lavoro di Venezia legittimati a occupare quelle postazioni di servizio in rispetto delle norme in materia di cambio d’appalto che prevedono l’assunzione senza periodo di prova e alle medesime condizioni contrattuali precedenti?

L’ente pubblico già colpevole per aver condotto una gara d’appalto al massimo ribasso al fine di assicurarsi un servizio fondamentale al suo corretto funzionamento preferisce vi siano situazioni di lavoro appaltate con buste paga da fame, orari oltre la sopportazione fisica e/o psichica e dove la tutela del lavoratore resta solo inchiostro su carta.

In tali casi amara è la constatazione che a pagare sono solamente i più deboli, messi anche l’uno contro l’altro da una politica sulle esternalizzazioni che va respinta in toto.

La classe dirigente cittadina di fronte a questo abominio non può continuare con vuoti proclami solidaristici, i lavoratori sono arrabbiati per quanto sta loro capitando e sentono distanti le istituzioni che preferiscono rimpallarsi le responsabilità o dichiarare la propria estraneità sullo specifico dei fatti.

Una gigantesca rete di interessi gravità dietro il settore culturale (e non solo) a Venezia e per questo si verificano situazioni di immobilità istituzionale.

I lavoratori sappiano che per cambiare la loro condizione non possono più nascondersi dietro a divisioni di campanile volute da altri ne tantomeno a corporazioni istituzionalizzate architettate per tenerli a bada così come si fa con il cane alla catena. L’unica risposta è la Lotta per l’affermazione della dignità della classe operaia.

Coordinamento dei Lavoratori della Cultura in Lotta
http://www.culturainlotta.altervista.org

www.culturainlotta.altervista.org

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