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Gutta cavat lapidem?

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(19 Dicembre 2011) Enzo Apicella

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Fronte del precariato - Ipotesi per una realtà non ipotetica

(3 Giugno 2010)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.culturainlotta.altervista.org

FRONTE DEL PRECARIATO - IPOTESI PER UNA REALTA' NON IPOTETICA

Attualmente in Italia le forme contrattuali atipiche sono in aumento, tra queste esistono sottostrutture di somministrazione di forza lavoro che non è scorretto definire di puro caporalato. La proposta legislativa atta al contenimento della disoccupazione è servita solamente a tradurre l’esclusione dalla produzione / consumo di beni da parte del lavoratore in spazi occupazionali a basso impatto salariale governati da imprese di piccoli e medi imprenditori. Si è innescata così una trama per cui una parte del potere gestionale dei servizi ausiliari, un tempo rientranti nell’organigramma degli enti pubblici o nelle grandi strutture private è stato declassato a semplice mercanzia da assegnare al miglior offerente. Da una parte assistiamo tutti i giorni al transito di migliaia di esuberi umani da posti di lavoro a tempo indeterminato verso forme di ingaggio malcerte mentre, dall’altra, i giovani, individuati come risorsa al pari della zolla di terra, vengono incanalati da apparati appositamente dedicati (ad esempio le agenzie interinali) alla instabilità lavorativa perpetua. Due filoni fondamentali concorrono al riciclo dell’eccedenza lavorativa: Lega delle Cooperative e Compagnia delle Opere. A ridosso di queste una miriade di aziende e consortili trovano terreno fertile per guadagnare denaro e favori dalla classe politica.

Avanza anche la risemantizzazione nociva della terminologia relativa al mondo del lavoro. La “disoccupazione” non fa più breccia negli animi, per questo oggi esiste l’”esubero”. In base all’esubero il dipendente è giustificatamente smaltibile senza che egli abbia nemmeno la coscienza di essere in quella frazione della sua vita (si spera momentanea) un non-occupato. Non vi è bisogno nemmeno di sbraitare tanto sull’articolo 18 a sentenziare sulla giusta causa del licenziamento perché l’eccedenza si giustifica da sé, sa tanto di assenza per motivi familiari o personali di fronte ai quali il detestato docente della nostra adolescenza (tutti ne abbiamo avuto almeno uno) non può eccepire.

Rivendicare il salario ai disoccupati diventa in tal modo impossibile dialetticamente, semplicemente perché con il cambio di situazione esistenziale che sempre più si sta imponendo, la classe politica li sta facendo sparire o meglio, li tratta peggio di prima, ma tenta di persuaderli ad essere altro: serbatoio di transito o auto rottamazione. Il metodo è ormai noto, lo si chiama flessibilità, tuttavia questa definizione è mal impostata soprattutto quando le si affianca il termine precariato. Parole usate come sinonimi laddove ad accomunarle forzatamente è solo la disperazione del lavoratore e di chi si erge a sua tutela. Il lavoro flessibile è la prestazione d’opera per periodi determinati, ma di bassa durata, la precarietà, invece, la somma di queste periodicità elevata a sistema, si può infatti essere assunti a tempo indeterminato, ma per via dell’esternalizzazione del servizio rientrare nella precarietà. Il percorso verticale di un tempo, la cosiddetta “carriera”, termine che deriva da “carro” e che ben evidenziava lo spostamento dal punto A = apprendistato, al punto B = promozioni o semplice avanzamento per anzianità, è ruotato di 90 gradi. Su tale nuova direttrice il movimento del nostro carro è nullo, si rimane ciò che si era anche se ci si affatica a farne girare le ruote.

Due filoni, si diceva, ascrivibili a due correnti politiche che hanno capito quale strada intraprendere per mantenere il controllo sulla forza lavoro deviando dall’intento primario, ossia il “co-operare”. Quanti lavoratori sono ammessi alle discussioni aziendali di rilevanza patrimoniale o gestionale? Su temi così delicati la parola è sempre padronale anche se mascherata da sigle e acronimi vari. Urge allora il bisogno di forme di correzione dei comportamenti volti all’abbattimento del veto direzionale. L’istituzione se ne occupa attraverso un potere anch’esso istituzionalizzato, mette in campo la mediazione. Seguiamo più da vicino il caso della esternalizzazione dei servizi.

Da una parte sta l’ente committente governato dallo spauracchio del taglio dei fondi se pubblico, ma anche dalla necessità di alleggerirsi dal continuo brontolio dei lavoratori inquadrati ai livelli più bassi, dall’altra la ditta incaricata della fornitura dei servizi con il suo pacchetto di lavoratori sottopagati, in mezzo: i sindacati. Si sceglie così un sistema di subordinazione del lavoro che fa capo al puro interesse momentaneo, dopo di che viene l’esubero e la licenziabilità come rimedio naturale del sistema stesso. La lotta sindacale a questo punto si scaglia contro la ditta di turno, spesso responsabile di una cattiva applicazione del CCNL di settore e lo fa con tanto più accanimento quanto maggiore è la necessità politica del mantenimento delle regole del gioco fissate dalla legge a garantire la precarietà, non a combatterla. Ma nel configgere a questo modo, il sindacato, fa qualcosa di più: inocula il “vaccino della verità” nei lavoratori per dirla alla Barthes. Sposta verso un male localizzato il disagio patito da questi ultimi distogliendone l’attenzione dalla funzione di sfruttamento del grande padronato incarnato di volta in volta dall’ente committente e dai suoi sostenitori / sovvenzionatori politici. Come nella comune profilassi medica l’inoculamento del vaccino produce gli anticorpi per prevenire la malattia, nel nostro discorso, si inietta una piccola dose di malvessazione aziendale per prevenire la verità: il precariato per legge e così il gioco è fatto. Si ottengono lavoratori aperti al falso dialogo con la stazione appaltante che per di più, nominando il male minore (l’appalto), esorcizzano la paura del male diffuso: la precarietà per l’appunto. È questo il modo per battersi non per la dignità dei lavoratori, bensì dell’occupazione anche se somministrata con fraudolente forme di associazionismo cooperativista che hanno lo scopo di far passare il rapporto diretto ente committente – lavoratore a forme di trattamento subordinato. Chi si batte con questa meccanica pertanto è per la tutela del lavoro (così come ci viene presentato o imposto oggi) non del lavoratore, egli tutela, in quanto rappresentante di un organismo di controllo sociale, l’istituzione delle entità che governano l’esternalizzazione e lo fa tramite una politica di gestione della pax sociale alla quale i lavoratori sono invitati ad aderire attraverso il meccanismo della delega.

La lotta non può dirsi tale se non si prefigge cambiamenti della situazione che il mondo / mercato del lavoro sta attraversando. Contrastare il datore di lavoro subordinato, creare i presupposti per la sua estromissione dall’appalto e magari riuscirci non è la vittoria dei lavoratori, ma del lavoro in quanto tale. Cambiare dirigente è solo una corsa al rientro nell’ordine e per giunta è anche riconoscimento passivo del sistema delle esternalizzazioni. A tutto questo si deve porre almeno un argine. L’unione dei lavoratori su queste tematiche è presupposto indispensabile per la lotta effettiva contro un sistema che li stritola inesorabilmente.

Coordinamento dei Lavoratori della Cultura in Lotta

www.culturainlotta.altervista.org

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