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Oscar Romero

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    Assemblea dell'8 marzo con le Madres de Plaza de Mayo

    Intervento di una compagna del Laboratorio Marxista

    (10 Marzo 2003)

    Intendo cogliere questa importante occasione che ci è data dalla presenza, qui, stasera, delle madri di Plaza de Mayo, per fare una piccola riflessione sul senso di questa giornata.

    Consideriamo importante che queste compagne siano state invitate l’8 marzo - giornata internazionale della donna - perché la lotta delle madres è una delle espressioni più belle di lotta di donne, donne che hanno saputo trasformare nel tempo la loro battaglia per la giustizia e la verità sui propri figli “scomparsi” in una battaglia contro tutte le ingiustizie, contro la povertà, contro lo sfruttamento e per il socialismo.

    Noi ripetiamo spesso che per le donne l’8 marzo non dovrebbe essere solo una giornata di festa, ma anche e soprattutto una giornata di memoria e di lotta. Pensiamo che sia negativo che questa giornata si risolva in un qualcosa di puramente celebrativo e riteniamo che non dovrebbe neppure esistere un giorno dedicato alle donne, così come un giorno dedicato ai lavoratori o un giorno dedicato alla Resistenza.

    Ma se così è è anche perché viviamo in una società che “non ricorda” ogni giorno i diritti delle donne e dei lavoratori o l’insegnamento della Resistenza antifascista, viviamo in una società che ogni giorno impedisce l’affermazione di quei diritti e di quei valori.

    Malgrado questo riteniamo importante valorizzare questa giornata per trasformare la memoria in lotta e partecipazione politica attiva.

    Cogliamo dunque l’occasione per riflettere sul ruolo della donna nella società in cui viviamo.

    Noi pensiamo che, in generale, la posizione sociale della donna - così come quella dell’uomo - sia, in definitiva, il prodotto delle relazioni sociali che si sono sviluppate storicamente e che si modificano con il modificarsi delle diverse forme economiche e politiche della società.

    Conseguentemente anche il ruolo della donna è un prodotto sociale e la trasformazione di questo ruolo può prodursi solo con la trasformazione della società nel suo complesso.

    Per conseguenza, quando si tenta di analizzare la posizione e il ruolo della donna nella società non si può fare a meno di partire dall’analisi del tipo di società in cui viviamo, dunque una società capitalista, che si fonda essenzialmente su una divisione di classe e sullo sfruttamento di una classe su un’altra classe.

    Dobbiamo dunque capire, anzitutto, che esiste una classe sfruttata, fatta di uomini e di donne, e una classe dominante che sfrutta, domina e accumula profitto, anch’essa composta da uomini e donne.

    Questo è per noi un elemento centrale da cui partire, perché siamo convinti che la contraddizione tra i sessi si collochi all’interno di un’altra contraddizione fondamentale che è quella tra borghesi e proletari, tra lavoratori e capitalisti.

    Pensiamo che la liberazione della donna deve essere opera della donna stessa la quale deve arricchire la propria lotta per l’emancipazione sociale con, appunto, la propria specificità di donna.

    Ma siamo altrettanto convinti che in questa lotta le donne hanno bisogno dell’unità con le donne (e gli uomini) della propria classe per lottare contro una società in cui esse sono vittime dello sfruttamento di uomini, ma anche di donne.

    Le donne delle classi al potere, se e quando lottano, lo fanno - al limite - per chiedere riforme interne al sistema di gerarchie caratteristiche della democrazia borghese, non ponendosi mai nell’ottica della liberazione della donna in quanto donna e tendendo a emulare i normali comportamenti di potere.

    Per le donne delle masse popolari l’obbiettivo deve essere quello dell’abbattimento di una società in cui esse vivono una duplice oppressione.

    Riflettiamo per un attimo sulla situazione della donna rispetto al mondo del lavoro.

    Non c’è dubbio che le donne subiscono per prime e in misura maggiore gli effetti della attuale fase di crisi economica del sistema capitalista.

    Infatti, gli attacchi durissimi portati allo stato sociale e alle condizioni di lavoro hanno avuto conseguenze pesantissime su tutti i lavoratori, ma in particolar modo sulle donne.

    Il generale processo di ristrutturazione e pracarizzazione del mercato del lavoro, portato avanti anche dai governi di centro-“sinistra” attraverso la concertazione e che oggi viene continuato e rafforzato dal governo Berlusconi che con l’approvazione delle misure contenute nel cosiddetto “libro bianco” ha prodotto l’istituzionalizzazione della massima flessibilità e della massima precarietà del lavoro, portando con sé lo smantellamento di una serie di diritti che i lavoratori e le lavoratrici hanno conquistato nelle lotte dei decenni precedenti.

    Le donne sono diventate i soggetti preferiti del supersfruttamento attraverso contratti di lavoro atipici come il lavoro interinale o il part-time che molte sono portate a richiedere non allo scopo di liberare tempo per sé stesse, ma solo per poter sopportare la gestione del doppio carico di lavoro, al di fuori e all’interno della famiglia.

    Quindi: doppio sfruttamento per le donne salariate e lavoro gratuito per le donne che lavorano in casa.

    Senza parlare poi del fatto che l’aumento della pressione economica porta con sé l’aumento della violenza sulle donne. Pensiamo alle molestie sessuali sui posti di lavoro (contro le quali, fra l’altro, non esiste in Italia una legge specifica, dato che il nostro codice penale punisce soltanto le violenze sessuali o i comportamenti ad esse riconducibili): quanto più il mercato del lavoro è chiuso alle donne, tanto più drammatica diventa la “scelta” di lasciare il posto di lavoro o di denunciare i datori di lavoro o i superiori violenti o molesti.

    In tanti settori hanno preso sempre più piede i ricatti sessuali per l’assegnazione dei posti di lavoro: più la venditrice è carina e meglio la merce si vende. E i mass media, attraverso i film e le riviste, hanno un ruolo determinante nella cultura dell’accettazione della violenza e degli abusi sessuali contro le donne.

    Il capitalismo cerca di suggerire una “naturalità” del ruolo sociale della donna.

    Certo, solo le donne possono essere madri ma non è affatto “naturale” che la donna debba occuparsi spesso da sola del lavoro domestico, dell’educazione dei figli o dell’assistenza agli anziani.

    Questa idea è profondamente radicata nella società patriarcale e porta a non considerare tutto questo lavoro, svolto gratuitamente dalla donna, come un vero e proprio lavoro.

    In realtà va detto che questo tipo di ideologia tende a rafforzarsi in fasi storiche, come questa, caratterizzate da una profonda crisi economica, in cui migliaia di lavoratori vengono espulsi dal ciclo produttivo, in conseguenza di licenziamenti e chiusure di fabbriche.

    E le donne i primi soggetti che vengono espulsi dalla produzione, dopo essere stati impiegati principalmente in lavori precari e con salari inferiori che alimentano la dipendenza dall’uomo e dallo Stato.

    Ecco che allora l’ideologia dominante tenta di giustificare questo processo, in atto ormai da diversi anni, ponendo di nuovo al centro della società la famiglia e questo “meraviglioso” ruolo che in essa ha la donna, “padrona della casa”, e risuonano allora i moniti della Chiesa contro ogni elemento che possa metterla in discussione come il divorzio.

    E così si insinua progressivamente l’idea di rivedere la legge sul divorzio…

    Da qui si passa a rivalorizzare quel “fondamentale” compito della donna che è quello di creare la vita, nel quale dovrebbe incarnarsi la “missione” e l’essenza stessa della donna. E così tornano al centro dell’opinione pubblica gli attacchi alla legge sull’aborto, costata alle donne anni e anni di lotte e di repressione.

    In questo clima si torna a legiferare sui corpi, sulle scelte e sui comportamenti delle donne.

    Si riconosce una tutela giuridica all’embrione per attaccare il diritto di autodeterminazione sulla maternità o si giunge ad una legge sulla procreazione assistita che concede l’accesso alle tecniche di fecondazione solo alle coppie sposate o conviventi, ristabilendo la priorità della famiglia patriarcale e dei legami di sangue.

    Oppure si arriva ad avallare, come ha fatto una recente sentenza della Corte di Cassazione, il licenziamento da parte delle autorità ecclesiastiche di una insegnante di religione laica in una scuola pubblica perché “ragazza madre”.

    Si torna a parlare e a legiferare sul tema della prostituzione, presentandolo e tentando di risolverlo come una questione di ordine pubblico, quando invece si tratta di una problematica sociale che coinvolge tutti e principalmente il sistema nel suo insieme che ne è il primo responsabile.

    E’ infatti spesso nell’ambito di una situazione di sfruttamento e di esclusione che si alimenta un traffico internazionale del sesso e del lavoro nero.

    Il commercio sessuale ha assunto una dimensione planetaria e questa internazionalizzazione ha creato un’enorme mercato di schiavi, in cui donne e bambini sono trattati alla stregua di una qualsiasi merci di consumo a disposizione della clientela maschile.

    Ma prostitute o i viados, per la maggior parte immigrati, “disturbano la quiete e la morale pubblica”.

    Di fronte a questo dramma sociale, la falsa coscienza della borghesia, chiusa nel più gretto moralismo e perbenismo, preoccupata solo del proprio ordine, propone soluzioni che non risolvono il problema.

    I comunisti sanno che l’attacco alla classe passa anche attraverso leggi più o meno “dal volto umano” o repressive che comunque esprimono sempre gli interessi e le concezioni della classe dominante e nelle quali le masse popolari non possono riconoscersi e alla quali è necessario rispondere con la lotta di classe e la mobilitazione.

    Questa società non riconosce una vera libertà di scelta sul come vivere la propria sessualità (quando ciò avviene in modo non conforme alla “norma” culturale dominante, borghese e cattolica) spinge per diverse ragioni molte donne alla prostituzione come mezzo di sopravvivenza, propone di schedare le prostitute con la stessa ottica con cui prende le impronte digitali agli immigrati.

    Del resto, anche l’immigrazione - specie se clandestina - è funzionale al capitale per aumentare la competitività del mercato del lavoro in modo da creare un grande “esercito di riserva”, nazionale ed internazionale, da poter usare a proprio piacimento, incrementando il ricatto sia salariale sia rispetto alle condizioni di lavoro (sicurezza, nocività…) dei lavoratori indigeni.

    E proprio le donne immigrate costituiscono i soggetti maggiormente impiegati nei cosiddetti “servizi alla persona”, come l’assistenza agli anziani, agli ammalati e agli handicappati, in genere nel settore privato o “in nero”, coprendo così i vuoti dello stato nell’assistenza sociale e sanitaria.

    Ogni giorno uomini e donne, con i loro neonati in braccio, si imbarcano su “carrette della speranza” per raggiungere paesi che sembrano l’unica “salvezza” rispetto alle proprie terre martoriate dalla fame, dalle guerre e dalle carestie.

    Molti di questi uomini e donne muoiono durante le traversate; altri vengono rispediti indietro; altri vengono “accettati”, ma per quel tanto che serve a concorrere al “nostro" profitto e al nostro benessere.

    Tutto questo è il prodotto della crisi economica del sistema capitalista che oggi, nella sua fase più acuta, ricorre - come sempre nella storia - alla guerra, anzi alla guerra imperialista, cioè alla guerra per ragioni economiche e politiche.

    L’imminente aggressione contro il popolo iracheno costituisce un altro tassello nella strategia imperialista di rafforzamento e di egemonia militare in Medio Oriente.

    Dietro la “guerra mondiale al terrorismo” si nasconde soltanto il tentativo di giustificare la teoria degli interventi preventivi necessari ai capitalisti per conquistare mercati delle materie rime, delle merci e delle persone nell’ottica di recuperare margini il più elevati possibile di profittoa discapito della sopravvivenza stessa di interi popoli.

    E così l’imperialismo USA sta preparando l’ennesimo attacco contro il già martoriato popolo martoriato popolo iracheno, stremato da più di dieci anni da un embargo voluto dall’ONU che ha prodotto fino ad oggi più di un milione e mezzo di morti, tantissimi dei quali bambini.

    Per questo popolo la guerra non è mai finita negli ultimi 10 anni,: è la guerra “bianca” delle sanzioni economiche decise dai paesi imperialisti, compreso il nostro..

    Anche per questo crediamo che la lotta che dobbiamo condurre sia prima di tutto quella contro il capitalismo e l’imperialismo di “casa nostra” e crediamo anche che questo sia il modo migliore per sostenere concretamente, e non solo a parole, la resistenza dei popoli che lottano per la loro liberazione e contro le aggressioni imperialiste, come il popolo palestinese e il popolo iracheno.

    E in questa lotta le donne hanno un motivo in più per combattere.

    Infatti, quando la lotta di classe e la lotta delle donne marceranno insieme, potremo finalmente raggiungere l’obiettivo di una società senza classi e senza strutture patriarcali.


    In questa lotta ci sentiamo unite con le Madres di Plaza de Mayo e consideriamo nostro compito di donne comuniste non solo quello di offrire semplicemente il nostro appoggio e sostegno alla lotta di queste donne e compagne, di lottare insieme a loro, e insieme a loro lottare con il popolo argentino, iracheno, palestinese e a tutti i popoli che lottano per la propria liberazione; lottiamo insieme a tutti i prigionieri politici rinchiusi nelle carceri imperialiste di tutto il mondo e, infine, lottiamo insieme a tutti coloro che vengono chiamati terroristi, ma che invece sono uomini e donne che vogliono cambiare il mondo, che lottano per un altro mondo possibile sì, ma come dicono le Madri di Plaza de Mayo, con la rivoluzione e il socialismo.

    8 marzo 2003

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