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Un piromane si aggira per l'Europa

Un piromane si aggira per l'Europa

(7 Maggio 2010) Enzo Apicella
L'agenzia di rating Moody's, la stessa che consigliava di investire in Lehman Brothers, soffia sul fuoco della crisi europea e invita a disinvestire in Grecia, Portogallo e Italia

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09.09.2010 - Fabbriche e università: l’Italia dalla seria A alla serie B dell’Europa

(9 Settembre 2010)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.rete28aprile.it

Giovedì 09 Settembre 2010 13:28
di Giuliano Garavini
Le vicende dell’industria metalmeccanica italiana e quelle di scuola e università, apparentemente distanti tra di loro, sono in realtà espressioni dello stesso problema di fondo. Il nostro Paese, alla vigilia delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’unità e ancora alle prese con una devastante crisi economica iniziata nel 2007, sta inesorabilmente passando dalla serie A alla serie B dell’Europa.
A partire dagli anni Ottanta l’Italia ha smantellato e privatizzato buona parte delle sue grandi imprese pubbliche oramai governate malamente dalla politica con il risultato che in alcuni settori industriali, come la chimica, le capacità e l’esperienza italiana sono sostanzialmente scomparse. Altre aziende, come la Telecom nelle telecomunicazioni, hanno generato lauti profitti per gli imprenditori cui sono state vendute ma sono divenute del tutto secondarie sul piano della competizione internazionale, non meno burocratiche che in passato e facili prede di imprese straniere. (...)

Solo Eni e Finmeccanica resistono tra le grandi. Per il resto, le esportazioni italiane e la persistenza di un tessuto e una cultura industriale dipendono per il 90 per cento da piccole aziende, spesso a conduzione familiare, molto suscettibili agli umori dei mercati internazionali e non in grado di trainare, anche culturalmente, un sistema Paese.
L’unica grande azienda manifatturiera privata italiana resta dunque la Fiat che produce già oggi la maggior parte delle sue vetture fuori dall’Italia. Essa è pronta ad impegnarsi a 20 miliardi di nuovi investimenti nel Paese solo a condizione che la conflittualità nelle fabbriche venga azzerata tramite una cessione in favore diritti dei suoi manager, e che ritmi e modalità di lavoro vengano induriti. La sfida della “Fabbrica Italia” è quella della quantità di prodotto, e cioè di dare il proprio contributo alla produzione di 6 milioni di macchine in tutto il mondo entro il 2014, feticcio al quale viene subordinato ogni elemento della strategia industriale di Marchionne.
Anche nella scuola e nell’università il processo non è dissimile. Fino agli anni Settanta avevamo mantenuto un sistema scolastico e universitario di una qualità tale da consentirci un confronto alla pari con i grandi Paesi dell’Europa continentale, dalla Francia alla Germania. Alla sfida dell’allargamento di tali sistemi oltre un ridotto numero di privilegiati che ne avevano beneficato fino agli anni Sessanta abbiamo tuttavia sostanzialmente fallito. Prima assunzioni in massa di personale non sempre sufficientemente motivato e preparato e poi, in questi ultimi anni dopo la riforma del tre più due nell’università, utilizzo in massa di giovani e meno giovani precari, volenterosi e spesso preparati ma sottopagati e sottoposti a continui ricatti. Sia nella scuola che nell’università il feticcio sembra diventato quello del numero dei diplomati e laureati senza alcuna attenzione alla qualità di diplomi e di laurea, nonché alle condizioni di chi lavora nelle istituzioni educative. La produttività prima della qualità, con il risultato che la scuola è in realtà diventata spesso più elitaria perché costringe le famiglie a ricorrere agli insegnanti privati, e l’università produce meno laureati che all’inizio della riforma del tre più due e di qualità peggiore.
Il parallelismo tra un’industria dell’auto che si occupa prevalentemente di disciplinare il lavoro e ridurne gli spazi di libertà e di creatività piuttosto che di proporre nuovi modelli e tecnologie in grado di trovare i propri mercati; e un’università quasi esclusivamente concentrata sulla sua sopravvivenza espandendo le aree del lavoro precario e sottopagato a discapito della qualità dell’insegnamento e della ricerca è sconsolante.
Da questa analisi certamente troppo schematica ne deriva che le sfide per la sinistra non consisteranno solo nel mettere toppe – difendere con le unghie contratti e diritti acquisiti nell’industria, pianificare le assunzioni dei precari nel mondo della scuola e università –, ma nel tentare di ribaltare un modello di economia e di politica. Alla produttività bisognerà riuscire ad anteporre il prodotto: cioè alla quantità di prodotto bisognerà anteporre cosa si produce e come lo si produce. E allo stesso tempo alla questione della difesa dei posti di lavoro e dei salari bisognerà affiancare (e forse anteporre) la questione dell’eguaglianza nei posti di lavoro tra precari e non, della partecipazioni democratica alle scelte nei luoghi di lavoro, della ricerca di nuove motivazioni per chi lavora in situazioni di preoccupante isolamento umano.
Non è detto che una battaglia politica e sindacale basti a riportare l’Italia a dialogare con le altri grandi nazioni che oramai stanno acquisendo un vantaggio strutturale sulle più deboli dell’Unione europea. Un’azione interna dovrà essere accompagnata da misure strutturali a livello di Unione europea che consentono una perequazione tra le aree più avvantaggiate e quelle più svantaggiate dalla moneta unica e una democratizzazione generale del sistema. Di queste misure l’Italia ha certamente tutta l’autorevolezza per farsi portavoce. L’importante però è che oggi si ragioni sul futuro e si ribaltino errori nei quali oramai si susseguono da 20 anni Governi di centrodestra e centrosinistra concentrati esclusivamente sulla produttività, la flessibilità, il controllo del bilancio e gli altri feticci di una macroeconomia che ha impoverito sia culturalmente che economicamente il nostro Paese.

www.rete28aprile.it

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