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    Il Vangelo di Marchionne

    (12 Settembre 2010)

    anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.campoantimperialista.it

    Domenica 12 Settembre 2010 10:10
    C’è un lato dell’intervento di Sergio Marchionne al meeting di Rimini di CL che non è stato considerato con la dovuta attenzione: il fatto di rappresentare un manifesto politico, che dà voce ad aspetti importanti dell’ideologia contemporanea. Ma quell’intervento è precisamente questo. Lo è per la sua forma e struttura discorsiva prima ancora che per i suoi contenuti.

    La forma è quella dell’opposizione. Precisamente quell’opposizione che Hegel – così spesso citato da Marchionne – detestava: l’“opposizione dell’intelletto”, in cui gli opposti se ne stanno lì irrigiditi, l’uno di fronte all’altro. Nessuna mediazione. Una cosa contro il suo opposto, noi contro loro, il bene contro il male. Tutto l’intervento è contrassegnato da questi contrasti da talk show televisivo, triste parodia contemporanea della contrapposizione schmittiana di amico e nemico.

    I termini dell’opposizione di Marchionne sono “vecchio” e “nuovo”. Il suo discorso è un’ossessiva serie di variazioni su questo tema. “Proteggere il passato” anziché “guardare avanti”. “Rifiutare il cambiamento” (e quindi “rifiutare il futuro”) contro disponibilità ad “adeguarsi al mondo che cambia”. “L’abitudine di mantenere le cose come stanno” contro “la necessità di cambiare”. “Vecchi schemi” contro “nuovi orizzonti”.

    Questa prima opposizione è la premessa della seconda: buoni contro cattivi. Da una parte chi si ostina a rifiutare il cambiamento, dall’altro i suoi paladini. A cominciare ovviamente dallo stesso Marchionne. Che racconta: “quando sono arrivato in Fiat ho trovato una struttura immobile, chiusa su se stessa”. Poi il cambiamento, l’iniezione di “una forte carica di valori”: una nuova “etica di business è stata la chiave della rinascita, che ha strappato il gruppo dal fallimento al quale sembrava destinato nel 2004” .

    Sono parole molto belle. Ma i “valori” che nel 2005 hanno strappato la Fiat dal baratro sono di tipo più materiale. Si tratta di due eventi che Marchionne conosce bene perché firmò il bilancio in cui sono descritti. In primo luogo il pagamento di 1,56 miliardi di euro da parte di GM pur di rescindere un contratto che l’avrebbe obbligata a comprarsi la Fiat. E in secondo luogo il fatto che le principali banche italiane (Capitalia, Intesa, Unicredito…) – che nel 2002, quando la Fiat stava fallendo, avevano trasformato 3 miliardi di crediti a breve in crediti a medio-lungo termine – nel 2005 convertirono questi crediti in azioni Fiat. Tra l’altro al prezzo di sottoscrizione di 10,28 euro ciascuna, quando il valore delle azioni sul mercato era di 7,3 euro: e quindi la Fiat ricevette dal sistema bancario italiano un grazioso omaggio di 858 milioni di euro, che fu messo a bilancio come “Proventi finanziari atipici”.

    In questi e in molti altri casi – vedi alla voce incentivi –il “sistema Italia” ha saputo farsi carico della sua principale azienda manifatturiera in difficoltà. Anche per questo motivo l’insistenza di Marchionne sul fatto che “l’unica area del mondo in cui l’insieme del sistema industriale e commerciale del Gruppo Fiat è in perdita è proprio l’Italia”, e che (ri-)portare in Italia la produzione della Panda “non è stata una scelta basata su principi economici e razionali” a fronte di “vantaggi sicuri che altri Paesi potrebbero offrire”, rappresenta un’affermazione un po’ forte. E anche pericolosa, visto che, come Marchionne sa bene, nel mercato non c’è soltanto la razionalità di chi vende, ma anche quella di chi acquista. E forse qualcuno dei consumatori italiani, che comprano il 40% delle auto Fiat vendute, potrebbe anche ripensarci.

    Ma la parte che più lascia perplessi del discorso di Rimini consiste nella contrapposizione tra chi continua a “pensare che ci sia una lotta tra ‘capitale’ e ‘lavoro’, tra ‘padroni’ e ‘operai’”, dall’altra chi chiede “un grande sforzo collettivo, una specie di patto sociale per condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici”. Ora, a parte il fatto che se gli interessi di “padroni” e “operai” fossero immediatamente identici non avrebbe senso neppure parlare di “patto sociale”, qui c’è qualcos’altro che non torna. Il fatto che lo “sforzo collettivo” che si richiede è tutto da una parte sola. In termini di moderazione salariale (e gli stipendi Fiat sono già inferiori del 30% a quelli della Volkswagen), di ritmi di lavoro e addirittura di limitazione del diritto di sciopero. Dall’altra parte, invece, la volontà di evitare “una guerra in famiglia” si sostanzia in iniziative quali l’aggiramento e la risoluzione anticipata del contratto nazionale di lavoro, e da ultimo il rifiuto di ottemperare ad una sentenza della magistratura.

    Ora, il cambiamento è una gran bella cosa. Ma sarebbe bello che, una volta tanto, esso avvenisse anche da questa parte della barricata. Magari aumentando gli investimenti in ricerca e costruendo modelli in grado di vendere (per evitare che se in Europa il mercato cala del 17%, la Fiat perda il 32%, come a luglio). Oppure cominciando a vendere auto in Cina (dove la Fiat è l’unico grande marchio assente). O, ancora, evitando di distribuire dividendi per 237 milioni di euro agli azionisti se la società ha chiuso il bilancio in perdita per 800 milioni (è avvenuto pochi mesi fa).

    Marchionne ha ragione: “essere liberi vuole dire trovare il coraggio di abbandonare i modelli del passato”. Vale anche per lui.

    pubblicato su il Fatto Quotidiano del 08/09/2010

    www.campoantimperialista.it

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