">
il pane e le rose

Font:

Posizione: Home > Archivio notizie > Imperialismo e guerra    (Visualizza la Mappa del sito )

Drones

Drones

(16 Febbraio 2010) Enzo Apicella
Afghanistan. I droni Usa continuano a far strage di bambini

Tutte le vignette di Enzo Apicella

PRIMA PAGINA

  • Domenica 21 aprile festa di Primavera a Mola
    Nel pomeriggio Assemblea di Legambiente Arcipelago Toscano
    (18 Aprile 2024)
  • costruiamo un arete redazionale per il pane e le rose Libera TV

    SITI WEB
    (Imperialismo e guerra)

    La politica fiscale nell’UEM - Il Patto di Stabilità e Crescita

    di Andrea Ricci (responsabile Dipartimento Economia PRC)

    (1 Settembre 2003)

    IL PILASTRO DELL’UNIONE MONETARIA EUROPEA: IL PATTO DI STABILITÀ E CRESCITA.

    Fin dalla sua entrata in vigore il Patto di Stabilità e Crescita (PSC) ha sollevato dubbi e perplessità di carattere tecnico e politico, legati alle rigidità delle regole di politica fiscale che esso impone. Inizialmente le posizioni critiche nei confronti del PSC erano circoscritte all’area della sinistra alternativa e ad alcuni economisti di matrice neokeynesiana. I principali schieramenti politici europei, di centrodestra e centrosinistra, così come la grande maggioranza degli economisti, ne erano invece fautori, più o meno entusiasti. Negli ultimi due anni, però, qualcosa è cambiato. Da quando l’economia europea è entrata in una fase di prolungata stagnazione/recessione i dubbi e le perplessità nei confronti del PSC si sono rafforzati ed estesi. Considerazioni critiche sono state avanzate persino dai vertici delle istituzioni comunitarie, primo fra tutti dal Presidente della Commissione Europea, Romano Prodi, che è arrivato a definire il PSC come “stupido”. Analoghe obiezioni si sono ripetutamente levate dai Governi dei principali Stati europei, in particolare dalla Francia e dalla Germania. In Italia, da tempo ormai la Confindustria, attraverso il suo organo di informazione “Il Sole 24 ore”, sostiene la necessità di un superamento dell’attuale versione del PSC. Ultimamente, è stato addirittura il Fondo Monetario Internazionale, custode dell’ortodossia monetarista, a prendere posizione contro il PSC. A difendere integralmente il PSC sembra essere rimasta soltanto la comunità finanziaria, che, attraverso le prese di posizione della Banca Centrale Europea e delle Banche Centrali nazionali, scaglia i propri strali contro chiunque attenti alla solidità e all’integrità del PSC.

    Eppure, nonostante questo coro di critiche, il PSC sembra, almeno formalmente, resistere ad ogni attacco. Per capire le ragioni di questa formidabile tenuta di uno strumento così discusso e criticato occorre ripercorrere la storia della sua nascita e le motivazioni politiche ed economiche che ne sono state alla base. Si scoprirà così che il PSC è ben più di uno strumento tecnico di politica fiscale, in quanto rappresenta l’architrave dell’intera costruzione dell’Unione Monetaria Europea nella sua attuale configurazione. Rimettere in discussione il PSC vuol dire modificare profondamente l’assetto e la gerarchia dei poteri all’interno dell’UEM ed anche il modello economico-sociale che sta alla base della sua istituzione. Per questa ragione le proposte di modifica delle regole del PSC sono tra loro molto differenziate e rispondono a opzioni politico-sociali contrapposte. In altre parole, per definire un modello economico e sociale europeo alternativo a quello neoliberista finora imperante, non è sufficiente proporsi il superamento del PSC. Le critiche al PSC provengono, infatti, anche da settori sempre più vasti dello schieramento neoliberista, che vedono in esso ormai un ostacolo, di fronte alla crisi della globalizzazione, alla piena realizzazione del modello propugnato. Per costruire una politica economica e sociale europea alternativa occorre allora qualificare la contrarietà al PSC ed indicare con che cosa, con quali strumenti e per quali fini alternativi, esso dovrebbe essere sostituito.

    COSA DICE IL PATTO DI STABILITÀ E CRESCITA

    Le regole fiscali definite dai parametri di Maastricht si riferivano alle prime due fasi del processo di integrazione monetaria ed avevano lo scopo di raggiungere le condizioni di convergenza macroeconomica definite per l'istituzione dell'UEM. Alla vigilia del compimento di queste due fasi preliminari e del varo della moneta unica, i Paesi membri dell’Unione affrontarono la questione delle regole fiscali da rispettare quando l’UEM fosse diventata pienamente operante. Il Consiglio Europeo di Dublino, nel dicembre 1996, e successivamente quello di Amsterdam (giugno 1997) definirono i connotati fondamentali del Patto di Stabilità e Crescita, che assunsero validità giuridica con l’emanazione di due regolamenti del Consiglio Europeo, il n. 1466/97 e il n. 1467/97. Come si ricorderà (vedi Materiali del Dipartimento Economia n.8), il Trattato di Maastricht contemplava la possibilità di superare la soglia del 3% nel rapporto deficit/PIL in casi eccezionali e transitori. Il PSC fornisce un’interpretazione più specifica sul significato da attribuire all’eccezionalità e alla transitorietà e, inoltre, regolamenta in maniera dettagliata le procedure sanzionatorie per i Paesi inadempienti.

    Lo scopo del PSC è quello di contenere i deficit fiscali entro la soglia del 3% del PIL anche in periodi di recessione. Per questo, il PSC stabilisce che il bilancio pubblico deve essere tendenzialmente “prossimo al pareggio o positivo” nel medio periodo. In questo modo, qualora si manifestasse una congiuntura recessiva, esisterebbero margini sufficienti per consentire agli stabilizzatori automatici di bilancio di operare senza inficiare il limite del 3% del deficit.

    Poiché il saldo di bilancio considerato dalla Commissione europea si riferisce al complesso della pubblica amministrazione, il PSC si applica anche alle Regioni e alle autonomie locali, oltre che agli Enti di Previdenza e a tutti gli enti pubblici che forniscono servizi non di mercato. In Italia, con la Finanziaria 1999, si è introdotto il Patto di Stabilità interno per coinvolgere le Regioni e le amministrazioni locali nel rispetto dei vincoli comunitari, attraverso la preventiva fissazione di un obiettivo di bilancio per le autonomie locali. L’obiettivo di bilancio del Patto di Stabilità interno è calcolato, a partire dal 2000, come la differenza tra le entrate proprie delle amministrazioni locali e le spese correnti, escludendo da queste gli interessi, le spese straordinarie e la spesa sanitaria. Attraverso questo strumento, in Italia le Regioni e gli Enti Locali hanno dovuto subire un pesante razionamento delle risorse a disposizione.

    Sulla base del PSC la clausola di eccezionalità può essere invocata dal Paese inadempiente soltanto qualora lo sfondamento della soglia del 3% nel rapporto deficit/PIL derivi da eventi straordinari, non controllabili dallo Stato membro, che hanno un effetto diretto sul bilancio pubblico (un caso di scuola è quello relativo ad una calamità naturale). Oppure qualora il deficit abbia origine da una grave recessione, derivante da una riduzione del PIL almeno pari al 2% annuo. In caso di recessioni meno violente, ma comunque superiori alla riduzione del PIL dello 0,75% annuo, si dovrà valutare la persistenza della recessione in rapporto all’andamento storico della crescita del Paese.

    Il requisito della transitorietà del deficit eccessivo è corrisposto soltanto quando le stime di bilancio, formulate dalla Commissione europea, mostrano che il deficit scenderà sotto la soglia nell'anno successivo a quello in cui si è verificata la situazione eccezionale. Se le stime indicano che il deficit eccessivo permarrà anche quando la situazione eccezionale sarà superata, il Paese inadempiente sarà immediatamente sottoposto alle procedure sanzionatorie, nonostante la condizione di grave difficoltà in cui può trovarsi.

    LE PROCEDURE DI CONTROLLO E DI SANZIONE DEL PATTO DI STABILITÀ E CRESCITA

    Il PSC prevede che, a partire dal 1° marzo 1999, ciascuno Stato membro dell’UEM presenti al Consiglio e alla Commissione europea un programma di stabilità, aggiornato ogni anno, contenente informazioni su: l’obiettivo a medio termine del pareggio o dell’avanzo di bilancio e le tappe temporali di avvicinamento a tale obiettivo; le previsioni rispetto all’andamento delle principali variabili macroeconomiche; la descrizione delle misure di politica fiscale da implementare per raggiungere l’obiettivo e i loro effetti quantitativi sulle finanze pubbliche; l’impatto sul bilancio pubblico di eventuali scostamenti delle variabili macroeconomiche rispetto alle previsioni formulate. Nel luglio 2001, il Consiglio dei ministri europei dell’economia ha emanato un codice di condotta che regolamenta in maniera dettagliata le informazioni che i programmi di stabilità devono contenere. Entro due mesi dalla loro presentazione, il Consiglio europeo, su proposta della Commissione, esprime una valutazione sulla coerenza dei programmi di stabilità nazionali e dei loro aggiornamenti annuali con il PSC. Qualora il Consiglio europeo ravvisi una non piena corrispondenza con le regole del Patto, invita lo Stato membro ad adeguare il suo programma. Una volta adottato il programma di stabilità, il compito di monitoraggio e di controllo sulla sua concreta attuazione spetta alla Commissione europea. La Commissione, se ravvisa una situazione di deficit eccessivo superiore al 3% del PIL, stila una relazione e formula delle raccomandazioni che sottopone al Consiglio europeo per l’approvazione. Le raccomandazioni del Consiglio europeo stabiliscono un termine temporale, non superiore ad un anno, per la correzione del deficit eccessivo. In caso di inottemperanza totale o parziale delle raccomandazioni, il Consiglio europeo decide l’applicazione di sanzioni contro il Paese inadempiente.

    Le sanzioni sono costituite: a) dall’obbligo di fornire pubblicamente informazioni supplementari, secondo le indicazioni del Consiglio europeo, ad ogni nuova emissione di titoli pubblici; b) dalla riconsiderazione dei prestiti erogati dalla Banca Europea per gli Investimenti (BRI) allo Stato membro; c) dalla costituzione di un deposito infruttifero presso la Commissione europea, che sarà trasformato in ammenda, incamerato dal bilancio dell’Unione e ripartito tra gli altri Stati membri in proporzione del PIL, se entro due anni il Paese condannato non avrà ridotto il deficit. La sanzione più pesante è quest’ultima, poiché essa equivale all’irrogazione di una multa nei confronti del Paese inadempiente. L’entità della multa è particolarmente gravosa essendo determinata da un elemento fisso, pari allo 0,2% del PIL, e da un elemento variabile pari ad un decimo dello scostamento del deficit dal parametro del 3% del PIL. Negli anni successivi, in caso di persistenza del deficit, il Paese inadempiente deve continuare a pagare la quota variabile. In ogni caso, la sanzione complessiva non può superare lo 0,5 % del PIL. Per dare un’idea dell’ammontare della sanzione facciamo un esempio sull’Italia. Se il nostro Paese accusasse un deficit pubblico pari al 4% del PIL, dovrebbe pagare nel primo anno una multa alla Commissione europea dell’ordine dello 0,3% del PIL, cioè di circa 4 miliardi di euro, pari ad una tassa di 70 euro per ogni cittadino italiano, e negli anni successivi una somma dello 0,1% del PIL (1,3 miliardi di euro) fino ad un ammontare complessivo di 6,5 miliardi di euro (circa 120 euro pro-capite).

    “ERRARE È UMANO, PERSEVERARE È DIABOLICO”. IL PATTO DI STABILITÀ E CRESCITA: OLTRE MAASTRICHT, PIÙ DI MAASTRICHT.

    Come si è potuto notare, con il PSC cambia strutturalmente lo scopo della disciplina fiscale all’interno dell’UEM. Mentre il parametro di Maastricht, relativo al rapporto deficit/PIL, era finalizzato a limitare l’indebitamento pubblico al solo scopo di finanziare le spese di investimento, indipendentemente dalla congiuntura macroeconomica, il PSC impone la tendenziale copertura di tutte le spese pubbliche, comprese quelle di investimento, con le entrate fiscali correnti. Situazioni di deficit possono essere tollerate, entro il limite massimo del 3% del PIL, solo in situazioni macroeconomiche particolarmente depresse. La disciplina fiscale diventa così ben più rigida e stringente di quella prevista nei parametri di Maastricht perché il saldo effettivo del bilancio pubblico deve essere a pareggio o in positivo nel medio periodo. Eventuali deficit di bilancio nei periodi di bassa congiuntura devono essere più che compensati da surplus di bilancio in periodi di alta congiuntura. La motivazione fornita per questo irrigidimento è relativa alla necessità di ridurre e stabilizzare lo stock di debito pubblico. I parametri fiscali di Maastricht erano stati formulati sulla base dell’ipotesi di una crescita nominale del PIL del 5% annuo, che, considerato l’obiettivo di inflazione, equivaleva alla previsione di una crescita economica reale del 3%. In queste condizioni, deficit dell’ordine del 3% non comportavano aumenti del rapporto debito pubblico/PIL. In realtà, la crescita economica nell’UEM nel corso degli anni novanta era stata ampiamente inferiore (circa la metà) di quella ipotizzata, tanto che, nonostante il rigore fiscale, il debito pubblico era aumentato in quasi tutti i Paesi. Per questa ragione, si decise di rendere ancora più restrittiva la disciplina fiscale. Infatti, con un bilancio in pareggio nel medio periodo, è sufficiente una crescita nulla per garantire la stabilità del rapporto debito/PIL. Il PSC, prendendo spunto dal fatto che nel Trattato di Maastricht non sono previste eccezioni al requisito di una continua riduzione del rapporto debito/PIL verso la soglia del 60%, stabilisce che il debito pubblico non può crescere nemmeno in situazioni di gravi recessioni. I Paesi con elevato debito pubblico sono condannati ad una permanente restrizione fiscale, indipendentemente dalla fase del ciclo economico in cui si trovano.

    In questo modo, però, in nome di una cieca fedeltà all’ortodossia monetarista, si è caduti in un circolo vizioso, estremamente pericoloso, di carattere recessivo. Infatti, come si è visto nel precedente numero dei Materiali, la bassa crescita del PIL all’interno dell’UEM nel periodo del Trattato di Maastricht (1991-97), ha avuto come principali cause proprio la disciplina e il rigore fiscale e la politica monetaria restrittiva e antinflazionistica derivanti dai parametri di convergenza. Le politiche di aggiustamento monetario e fiscale, in conseguenza dei parametri di Maastricht, hanno depresso la domanda interna e hanno incrementato il debito pubblico a causa degli alti tassi di interesse, provocando in tal modo una distorsione verso il basso del ciclo economico europeo. In realtà, erano completamente errate le previsioni iniziali circa la possibilità di una crescita reale media del 3% annuo sotto le forche caudine del Trattato di Maastricht. E’ difficile dire se questo ottimismo infondato fosse allora dovuto ad una totale incomprensione dei meccanismi economici, derivante dall’adesione cieca alla teoria economica neoliberista, o fosse invece voluto per scopi politici, al fine di giustificare ulteriori riduzioni del ruolo economico dello Stato. Probabilmente, sono vere entrambe le cose. Fatto sta che con il PSC l’errore si ripete e si accentua: poiché la politica economica restrittiva di Maastricht ha fallito in termini di economia reale, allora occorre rendere ancora più restrittiva la politica economica! “Errare è umano, perseverare è diabolico”, questo è il motto che dovrebbe essere scritto davanti ad ogni ingresso dei palazzi del potere comunitario.

    LE “ECCEZIONALI ECCEZIONI” AL RIGORE FISCALE DEL PSC.

    Oltre al vincolo del pareggio del saldo di bilancio nel medio periodo, anche la definizione data dal PSC di recessioni gravi è indizio di un assoluto e insensato rigore fiscale. Come si è visto, il deficit pubblico può essere superiore al 3% del PIL in caso di recessioni eccezionalmente gravi, pari almeno alla caduta del 2% del PIL. Ora, negli ultimi 40 anni, nei Paesi dell’UEM ci sono stati solo 6 casi in cui il PIL è calato in questa misura: due volte in Finlandia, una volta ciascuno in Grecia, in Italia, in Lussemburgo e in Portogallo, mai negli altri stati membri dell’UEM. Più frequenti le recessioni gravi, secondo la definizione del PSC, comprese tra –0,75% e – 2% del PIL: negli ultimi 40 anni ciò è accaduto 19 volte per i Paesi membri dell’UEM (3 volte per Belgio, Germania, Portogallo e Finlandia, 2 volte per Grecia e Italia, una volta per Spagna, Francia, Lussemburgo e Olanda, mai per Austria e Irlanda). Queste gravi recessioni sono tutte accadute in tre periodi: 1974-75, 1980-82 e 1991-93. Nei primi due periodi esse furono l’effetto degli shock petroliferi, nel terzo invece dell’impatto economico della riunificazione tedesca e del crollo dell’URSS, particolarmente sentito nelle economie del Nord Europa. In tutti i casi, quindi, le gravi recessioni hanno avuto origine da eventi economici o politici di eccezionale rilevanza e di carattere assolutamente straordinario, non derivanti dall’andamento normale del ciclo economico. In tutti i casi, esse hanno assunto la forma prevalente di shock dal lato dell’offerta, piuttosto che da cadute della domanda. E’ evidente, allora, che la definizione di recessioni gravi adottata dal PSC, per consentire uno scostamento dalla ferrea disciplina fiscale, non consente di far fronte a situazioni di “normale” difficoltà economica. Ad esempio, una situazione di prolungata stagnazione, con crescita nulla o di poco negativa, quale quella che l’UEM sta attraversando da due anni a questa parte, non consente alcun allontanamento dalle regole fiscali.

    Inoltre, la definizione di recessione basata esclusivamente sulle variazioni del PIL è parziale e incompleta, poiché non viene presa in considerazione un’altra variabile chiave per il benessere economico: quella del tasso di disoccupazione. La disoccupazione può infatti aumentare considerevolmente anche in situazioni di stagnazione, di lieve recessione o addirittura di moderata crescita economica, perché la produttività del lavoro continua ad aumentare, a seguito dei miglioramenti tecnologici o delle riorganizzazioni produttive. Ignorando totalmente la variabile disoccupazione, il PSC dimostra che ciò che interessa all’UEM è soltanto il valore aggiunto prodotto dalle imprese e per nulla la piena occupazione. La disoccupazione può pure aumentare, l’importante è che le imprese non vedano ridursi i propri affari: questa è la filosofia implicita nel PSC, che ha così sostituito al posto del diritto al lavoro, sancito nelle Costituzioni degli Stati europei, il diritto all’utile d’impresa.

    Altro elemento da considerare riguarda le modalità attraverso cui si può affrontare una situazione di grave recessione. Anche in periodi eccezionalmente negativi, il saldo di bilancio pubblico deve restare in pareggio o in surplus nel medio periodo. Ciò vuol dire che eventuali deficit fiscali eccessivi sono accettabili, in presenza di una profonda crisi economica, solo se, successivamente, saranno compensati da analoghi o superiori surplus di bilancio. La politica fiscale, quindi, deve essere essenzialmente basata sugli stabilizzatori automatici di bilancio e deve escludere ogni intervento strutturale o discrezionale. In sostanza, la formazione del bilancio pubblico deve perdere gran parte del suo significato politico, attinente alla distribuzione delle risorse e alla organizzazione della società, per ridursi ad un meccanismo tecnico che si aggiusta da solo, automaticamente, al variare delle condizioni dei mercati.

    In questo modo, la politica fiscale diventa impotente ai fini della stabilizzazione macroeconomica proprio quando essa sarebbe più necessaria, cioè nei momenti di crisi economica strutturale, nelle fasi di transizione verso un nuovo modello economico-produttivo. Finché le difficoltà economiche sono dovute a normali e periodiche fluttuazioni cicliche, gli stabilizzatori automatici possono funzionare per ammortizzare le oscillazioni della congiuntura, ma, quando, sono cambiate le condizioni macroeconomiche strutturali essi diventano del tutto inefficaci, e in certi casi addirittura negativi. Ci troviamo, qui, di fronte ad un autentico paradosso del PSC, ad una contraddizione in termini delle regole da esso imposte, che può essere così formulata: se le cose vanno eccezionalmente male, il PSC consente una limitata dose di flessibilità fiscale, ma, affinché la limitata flessibilità fiscale possa essere efficace, le cose non devono andare eccessivamente male. Infatti, da un lato, come abbiamo visto, le regole fiscali possono attenuarsi in situazioni di grave e straordinaria recessione, quando qualcosa di profondo è cambiato nella struttura dell’economia. Dall’altro lato, però, le eccezioni alle regole fiscali devono essere attuate attraverso meccanismi automatici, predisposti e pensati quando tutto funzionava regolarmente. Uno strumento di questo genere non può funzionare. Il PSC non è solo “stupido”, ma è anche portatore di un impulso suicida, perché contiene in sé i germi della propria autodistruzione. E’ solo questione di tempo. E il tempo sembra ormai essere arrivato.

    IL FALLIMENTO DEL PATTO DI STABILITÀ E CRESCITA.

    Nel periodo di vigenza del PSC (1998-2002), l’UEM ha fatto registrare il tasso medio di crescita più basso, dopo quello dell’America Latina, tra le principali aree economiche mondiali (vedi tabella 1). E’ da ricordare che in questo periodo l’America Latina è stata sconvolta da catastrofiche crisi economicofinanziarie, fra le quali primeggia quella argentina.

    Tabella 1: crescita economica mondiale 98-02

    Aree PIL 98-02PIL 98-00PIL 01-02
    USA+3,0+4,1+1,4
    UK+2,5+2,8+2,0
    Canada+3,8+4,7+2,5
    Africa+3,1+2,9+3,5
    America L.+1,4+2,2+0,3
    Asia+5,8+5,6+6,1
    Medioriente+3,3+3,5+3,0
    PVS+4,3+4,4+4,3
    UEM+2,3+3,0+1,1

    Fonte: Banca d’Italia

    Particolarmente accentuata è stata la frenata dell’economia europea nella fase discendente del ciclo economico, dopo lo scoppio della bolla speculativa borsistica nella seconda metà del 2000. L’andamento della prima metà del 2003 conferma ulteriormente la particolare gravità della situazione economica europea, con una stima di crescita negativa nel primo semestre e con previsioni di crescita nulla nel corso dell’intero anno.

    Nello stesso periodo (98-02) il deficit del bilancio pubblico nell’UEM è passato dall’1,3% del PIL nel 1998 al 2,2% nel 2002 e ad un 2,5% stimato dalla Commissione europea per il 2003. Perfino per il 2004 la Commissione prevede, in maniera peraltro ottimistica, un deficit pubblico nell’area dell’euro pari al 2,4%. Anche il saldo strutturale, depurato dagli effetti del ciclo economico, è peggiorato di oltre un punto percentuale. Questi semplici dati aggregati mostrano il completo fallimento del PSC. L’economia europea è entrata in una prolungata fase di stagnazione, più accentuata rispetto a quella delle altre aree industrialmente sviluppate, e contemporaneamente i deficit pubblici sono aumentati rispetto al periodo precedente all’entrata in vigore del Patto.

    Se procediamo ad un’analisi disaggregata, scopriamo che ben tre Paesi hanno già violato il PSC e sono soggetti all’apertura delle procedure sanzionatorie. Per primo ha iniziato il Portogallo con un deficit del 3,1% nel 2000, del 4,2% nel 2001 e con una stima del 3,5% per il 2003 e del 3,2% per il 2004. Subito dopo hanno seguito a ruota la Francia (-3,1% nel 2002, –3,7% stimato nel 2003 e –3,5% stimato nel 2004) e la Germania (-3,6% nel 2002 e –3,4% stimato nel 2003). Le stime della Commissione europea prevedono che nel 2004 i Paesi inadempienti diventeranno quattro, con l’aggiunta dell’Italia (-2,3% stimato nel 2003 e – 3,1% stimato nel 2004). Le tre principali economie dell’UEM, che rappresentano più dei tre quarti del PIL complessivo, sono virtualmente fuori dal PSC. In particolare, il PSC si è mostrato particolarmente vulnerabile per quei Paesi, come la Francia e la Germania, che hanno un tasso di inflazione inferiore alla media e un elevato deficit pubblico. Per questi Paesi, la politica monetaria comune impone elevati tassi di interesse reali, che in una fase recessiva, debbono essere controbilanciati da politiche fiscali espansive per evitare il completo crollo della domanda interna. Tali politiche fiscali sono però ostacolate dalla vigenza del PSC. Rigore fiscale e politica monetaria antinflazionistica sono il mix di politica macroeconomica che sta strangolando il cuore pulsante dell’economia europea.

    In questa situazione, sostenere ancora la validità dello strumento del PSC equivale a professare un vero e proprio atto irrazionale di fede. Per comprendere fino in fondo il fallimento del PSC, basta confrontare gli obiettivi definiti nei programmi di stabilità presentati dai singoli Paesi con i risultati ottenuti (vedi tabella 2).

    Tabella 2. Saldi dei bilanci pubblici: obiettivi* del PSC e risultati per gli anni 2002 e 2003**

    Stati20022003
    -obiettivirisultatiobiettivirisultati
    Belgio-0,3+0,1+0,2-0,2
    Germania-1,0-3,6-0,5-3,4
    Grecia+0,2-1,2+1,5-1,1
    Spagna+0,1-0,1+0,2-0,4
    Francia-1,2-3,1-0,5-3,7
    Irlanda+2,6-0,3+4,6-0,6
    Italia-0,6-2,3-0,1-3,1
    Lussembur.+1,7+2,6+3,1-0,2
    Olanda-1,1-1,1-1,1-1,6
    Austria-1,4-0,6-1,3-1,1
    Portogallo-1,2-2,7-0,8-3,5
    Finlandia+2,3+4,7+4,7+3,3
    UEM-0,8-2,2-0,2-2,5

    *Gli obiettivi sono quelli iniziali, fissati con i primi programmi di stabilità. **Per il 2003 i risultati indicano le stime ufficiali della Commissione Europea.
    Fonte: ISAE, Rapporto annuale sullo stato dell’UE 2003


    Nei programmi di stabilità presentati nel 1998 si definiva un obiettivo di deficit per il 2002 nel complesso dell’UEM pari allo 0,8% del PIL: il risultato reale è stato del –2,2%. Per il 2003, gli obiettivi definiti nel 1999 fissavano al –0,2%, una situazione di sostanziale pareggio, il deficit dell’area euro: in base alle ottimistiche previsioni della Commissione europea si raggiungerà il –2,5%. La distanza dei risultati dagli obiettivi non migliora di molto se si considera il breve periodo, invece del medio. Nel 2001 i programmi di stabilità indicavano nello 0,9% il deficit per l’anno successivo, contro il -2,2% poi realizzatosi. Il fallimento del PSC è così completo. Esso non funziona né per i risultati, né per il metodo. Ormai è diventato soltanto un elemento di confusione nelle politiche economiche, ha perso ogni credibilità nell’influenzare le aspettative degli operatori. Continua però a provocare danni sempre maggiori, perché impedisce di adottare politiche fiscali attive ed espansive per fronteggiare una crisi economica strutturale di dimensioni rilevanti, quale quella che attanaglia l’economia europea.

    LA MODIFICA DEL PATTO DI STABILITÀ E CRESCITA: LA PROPOSTA DELLA COMMISSIONE EUROPEA.

    Il completo fallimento del PSC è ormai una realtà impossibile da nascondere. Per queste ragioni, si sono moltiplicate le proposte ufficiali di modifica delle regole fiscali dell’UEM. Governi, come quello francese e tedesco, organismi comunitari, come la Commissione europea, associazioni imprenditoriali, mondo accademico: gli ultimi due anni sono stati un fiorire di proposte, suggerimenti e consigli per modificare le regole del Patto, salvaguardandone però la sostanza. Il Patto di Stabilità, infatti, più che uno strumento tecnico, è un manifesto politico. Esso indica il modello sociale neoliberista che si vuole imporre all’Europa.

    Innanzitutto esaminiamo la nuova interpretazione del PSC che ha dato la Commissione europea, in una comunicazione inviata al Consiglio e al Parlamento europeo il 27 novembre del 2002. Essa si basa su cinque punti principali:
    1) il pareggio o attivo di bilancio deve essere calcolato in termini di saldo strutturale, cioè depurato dagli effetti ciclici e congiunturali, e non più in termini di saldo effettivo nel medio periodo;
    2) per i Paesi lontani dall’equilibrio di bilancio, il miglioramento del saldo strutturale rispetto al PIL dovrebbe essere almeno dello 0,5% annuo. Per i Paesi con elevato debito pubblico o in situazioni di alta congiuntura il miglioramento annuale dovrebbe essere significativamente maggiore;
    3) un allontanamento del saldo strutturale dall’equilibrio in condizioni di crescita economica favorevole dovrebbe essere considerato come una violazione del PSC e sottoposto ai meccanismi sanzionatori;
    4) temporanei peggioramenti del saldo strutturale, sempre nel limite massimo del 3% del deficit/PIL, possono essere consentiti solo per la promozione di riforme strutturali coerenti con la strategia di Lisbona (es. pensioni, fisco, mercato del lavoro) o per programmi di lungo periodo di investimenti produttivi. Questa eccezione si applica però solo ai Paesi che rispettano il parametro del 60% debito/PIL e che hanno precedentemente raggiunto l’obiettivo del pareggio strutturale di bilancio;
    5) maggiore considerazione va data alla riduzione del debito pubblico. I Paesi che non rispettano il parametro del 60% rispetto al PIL devono proporre programmi di riduzione del debito e, in caso di un loro non adeguato rispetto, essere sottoposti a sanzioni.

    Solo una lettura superficiale può considerare, come pure è stato fatto sulla stampa, la proposta della Commissione come un allentamento dei vincoli del PSC. In realtà siamo di fronte ad una ulteriore stretta sulle politiche fiscali. Il riferimento al saldo strutturale, invece che al saldo effettivo di medio periodo, implica che le misure di riduzione del deficit verso il pareggio o surplus devono concentrarsi esclusivamente sugli elementi permanenti del bilancio pubblico. Per rispettare questo criterio occorre quindi intervenire, in particolare, su quelle componenti di spesa pubblica poco sensibili all’andamento della congiuntura (es. spese per il personale, sanità, pensioni, scuola). Il ritmo di marcia verso un saldo strutturale in equilibrio, pari almeno allo 0,5% del PIL all’anno, è particolarmente accelerato, soprattutto considerando l’attuale fase di stagnazione dell’economia. Il meccanismo delle sanzioni diventa più cogente e discrezionale, perché esso può scattare ogniqualvolta la Commissione ritenga che vi sia un rilassamento della disciplina fiscale, anche qualora non si fosse mai oltrepassata la soglia del 3% deficit/PIL. Eccezioni alle rigide regole della nuova interpretazione del PSC possono essere consentite solo ai Paesi che rispettano il requisito del debito e solo per l’attuazione di riforme strutturali coerenti con la strategia di Lisbona. In concreto, questo significa riforma delle pensioni, riforma del Welfare, riduzione della pressione fiscale, precarizzazione del mercato del lavoro, grandi investimenti infrastrutturali, incentivi alle imprese per formazione, ricerca e sviluppo. Il PSC può dunque allentarsi solo se la politica fiscale è orientata alla distruzione del modello sociale europeo e alla piena aderenza alla logica della competizione globale.

    La maggiore considerazione del requisito del debito pubblico imporrà ai Paesi lontani dal parametro del 60% (Italia, Belgio, Grecia e, in minor misura, Austria) una cura da cavallo. Inoltre, poiché nel corso degli ultimi anni, anche Francia e Germania, oltre al Portogallo, hanno ormai raggiunto o di poco superato il limite del 60% nel rapporto debito/PIL, in realtà l’interpretazione flessibile del PSC riguarderebbe soltanto pochi Paesi dell’UEM, quelli economicamente di minori dimensioni. In conclusione, nella nuova interpretazione del PSC proposta dalla Commissione europea non c’è nessuno spazio per utilizzare la politica fiscale e l’intervento pubblico per il rilancio della domanda e per la trasformazione strutturale del sistema produttivo. Anzi, le falle e le smagliature del PSC vengono chiuse attraverso una più rigida attivazione delle procedure sanzionatorie e un più forte controllo politico della tecnocrazia dell’UEM nei confronti delle politiche economiche nazionali. La nuova interpretazione della Commissione europea rende il PSC un vincolo ancora più restrittivo e soffocante per le economie dell’UEM.

    LA “GOLDEN RULE”.

    Le proposte più diffuse di modifica riguardano l’esclusione dal saldo di bilancio preso a riferimento dal PSC di determinate categorie di spesa pubblica. E’ quella che, in gergo tecnico, viene chiamata l’applicazione della “Golden Rule”.

    La categoria di spesa più gettonata per essere esclusa dai vincoli del PSC è quella relativa agli investimenti pubblici. Si tratterebbe così di un sostanziale ritorno al regime fiscale di Maastricht. Dal punto di vista teorico questa ipotesi viene giustificata con il fatto che gli investimenti pubblici hanno un rendimento economico e sociale differito nel tempo, cioè producono effetti positivi per un arco temporale ben più lungo di quello necessario alla loro realizzazione. Di conseguenza, appare economicamente illogico pretendere di finanziare le spese in conto capitale con le entrate correnti. Se l’indebitamento è finalizzato a finanziare nuovi investimenti, esso è uno strumento economicamente sano e corretto. Dal punto di vista empirico, la giustificazione della “Golden Rule” per le spese pubbliche in conto capitale, deriva da un dato preoccupante. Negli ultimi dieci anni il livello degli investimenti pubblici nell’UEM è nettamente calato, passando da un livello annuo pari al 3% del PIL nel periodo 1983-91 al 2,5% del 1998-2002. Particolarmente brutale è stato il crollo in alcuni Paesi, come l’Italia (dal 3,5% al 2,3% del PIL), l’Austria (dal 3,5% all’1,5%) e la Germania (dal 2,4% all’1,8%). Nello stesso periodo negli USA e in Giappone, invece, gli investimenti pubblici hanno mostrato una tendenza alla crescita. La riduzione degli investimenti pubblici, in un periodo di forte innovazione tecnologica e produttiva, ha pesato negativamente sulla competitività di sistema dell’Europa ed ha sicuramente contribuito alla bassa crescita degli anni Novanta. La causa della riduzione delle spese pubbliche in conto capitale è sicuramente derivata dal carattere restrittivo delle politiche fiscali in Europa, imposto da Maastricht prima e dal PSC dopo.

    Oltre alla categoria delle spese per investimenti pubblici, sono state proposte da varie parti altre applicazioni della “Golden Rule” per allentare la disciplina fiscale: le spese per la difesa, per incentivare il potenziamento e l’ammodernamento militare europeo, le spese in ricerca e sviluppo, per incrementare il tasso di innovazione tecnologica nell’UEM, le spese per la formazione professionale, per aumentare la qualificazione della forza lavoro e per accompagnare i processi di precarizzazione del mercato del lavoro.

    Tutte le proposte di “Golden Rule” sono però soggette a forti obiezioni teoriche e politiche. In primo luogo, la catalogazione delle spese pubbliche non è né facile né netta. La collocazione di un intervento nell’una o nell’altra categoria è soggetta ad ampi margini di discrezionalità contabile. La “Golden Rule” sarebbe così intrinsecamente priva di un fondamento oggettivo e quindi soggetta ad arbitrarie applicazioni sulla base delle intenzioni politiche dei Governi. In secondo luogo, l’introduzione della “Golden Rule” produrrebbe una distorsione nelle scelte allocative delle risorse pubbliche, non giustificata sul piano dell’efficienza economica e sociale. I Governi sarebbero incentivati ad aumentare le spese ricomprese nella “Golden Rule” e a ridurre le altre. La costruzione di un’autostrada non è detto che sia economicamente e socialmente preferibile all’adozione di misure per incentivare il trasporto pubblico, la produzione di un cacciabombardiere è sicuramente meno preferibile da ogni punto di vista all’aumento dell’assistenza agli anziani o delle spese per l’istruzione, e così via. In terzo luogo, poiché le spese per investimenti richiedono tempi piuttosto lunghi dalla decisione di stanziamento alla realizzazione effettiva dell’opera, l’introduzione della “Golden Rule” sarebbe del tutto inefficace per sostenere l’economia nelle fasi di stagnazione. Anzi, potrebbe agire in senso prociclico, accentuando le fluttuazioni della congiuntura.

    Sul piano politico, infine, le proposte di “Golden Rule” pubblicamente avanzate devono essere aspramente combattute dalle forze della sinistra antiliberista. Infatti, qualora esse venissero realizzate, i vincoli del PSC, resi ancora più stringenti dalla nuova interpretazione della Commissione, ricadrebbero pressoché esclusivamente sulle spese sociali. Alla fine a sopportare il peso prevalente o esclusivo della disciplina fiscale europea rimarrebbero le spese per il Welfare (pensioni, sanità, servizi sociali, scuola, ammortizzatori sociali, trasferimenti di reddito). Saremmo di fronte ad una nuova, ancor più drammatica, stagione di devastazione sociale giustificata in nome dell’Europa.

    UNA NUOVA MAASTRICHT PER LE PENSIONI.

    Recentemente, è stata avanzata in Italia, da parte di Brunetta e Cazzola, una nuova proposta di revisione del PSC. Si tratta della possibilità di inserire all’interno delle regole del PSC un parametro relativo alla spesa pensionistica. In particolare, l’UEM dovrebbe vincolare i singoli Stati membri a procedere in tempi certi e definiti alla riforma del sistema previdenziale, secondo la strategia definita nei Consigli europei di Stoccolma (marzo 2001) e di Goteborg (giugno 2001). Tale strategia prevede la riduzione della copertura pensionistica pubblica, l’incremento delle forme privatistiche complementari e l’innalzamento dell’età pensionabile. Secondo Brunetta e Cazzola, il PSC dovrebbe incorporare un ulteriore parametro generale relativo al massimo deficit consentito nel sistema previdenziale pubblico. In sostanza, il PSC dovrebbe definire un limite massimo alla differenza tra le pensioni erogate e i contributi versati. Il superamento della soglia definita di deficit previdenziale farebbe scattare le procedure sanzionatorie, indipendentemente dal deficit pubblico complessivo.

    Questa proposta non va considerata come una “boutade”. Innanzitutto per il ruolo ricoperto dai proponenti. Renato Brunetta, oltre ad essere parlamentare europeo, è anche il responsabile economico di Forza Italia, nel momento in cui il nostro Paese ha assunto la Presidenza dell’UE. Giuliano Cazzola, esperto delle questioni previdenziali, è uno dei principali collaboratori del ministro del Welfare italiano, Maroni, e tra gli ispiratori della legge delega sulla riforma pensionistica presentata dal Governo italiano, ora all’esame del Parlamento. Inoltre, la privatizzazione dei sistemi previdenziali è un obiettivo comune a tutti gli attuali Governi europei. L’imposizione di un obbligo esterno faciliterebbe il compito di vincere le forti opposizioni sociali interne che tali riforme scatenerebbero, fornendo una giustificazione superiore e “oggettiva” al taglio delle pensioni pubbliche. Come è accaduto nell’era di Maastricht, una volontà superiore a quella nazionale costringerebbe ad una politica di pesanti sacrifici e di riduzione dei diritti sociali.

    E’ superfluo rilevare che tale proposta è priva di qualsiasi motivazione tecnica o economica. In nessun modo, essa servirebbe a correggere le disfunzioni del PSC, anzi semmai le aggraverebbe. Tuttavia, non è questo il suo scopo. Essa è, infatti, solo il frutto di una precisa volontà politica, è la strada giudicata meno insidiosa per smantellare in Italia e in Europa il sistema previdenziale pubblico. Il fatto che, in autorevoli sedi ufficiali di Governo, si pensi di utilizzare ancora, in maniera così sfacciata, i vincoli istituzionali europei per scopi politici particolari, dimostra che, finché non saranno eliminate le regole automatiche di politica economica, in virtù di scelte democratiche e consapevoli attuate a livello europeo sulla distribuzione delle risorse e sul modello sociale, i rischi dell’attuale configurazione istituzionale dell’UEM per i popoli europei sono ancora fortissimi.

    REGOLE SOLO SULLA SPESA PUBBLICA.

    Un’altra ipotesi di modifica del PSC propone di cambiare l’indicatore della disciplina fiscale, sostituendo il livello totale della spesa pubblica al saldo di bilancio. Secondo questa proposta il PSC dovrebbe fissare, per un periodo pluriennale, il livello totale di spesa pubblica da non oltrepassare, pena l’avvio delle procedure sanzionatorie. Il livello totale della spesa pubblica dovrebbe essere determinato sulla base di due obiettivi: la riduzione del debito pubblico e la riduzione della pressione fiscale. Il parametro di spesa pubblica potrebbe essere definito in termini nominali (come erogazioni monetarie massime delle pubbliche amministrazioni) o in termini reali (come quota rispetto al PIL). Il primo caso è considerato preferibile nel breve periodo, quando occorra rapidamente arrivare ad una situazione di equilibrio delle finanze pubbliche, perché permette un maggior controllo sull'effettiva riduzione della spesa pubblica. Il secondo caso è, invece, propugnato dai sostenitori di questa proposta in un orizzonte temporale di medio periodo, allorché l’economia si è assestata alla nuova situazione strutturale derivante dal risanamento del bilancio pubblico, perché è più facilmente sostenibile sul piano economico-sociale. L’imposizione di regole sulla spesa pubblica, anziché sul saldo di bilancio, sarebbe motivata dai seguenti vantaggi: maggiore garanzia di rispetto perché i Governi controllano direttamente la spesa pubblica; funzionamento pieno e completo degli stabilizzatori automatici di bilancio dal lato delle entrate fiscali.

    L’impostazione neoliberista alla base di questa proposta è di per sé evidente. Innanzitutto, nei criteri di scelta del livello dell’indicatore. Se gli obiettivi da raggiungere sono la contemporanea riduzione del debito pubblico e delle tasse, è solo la spesa pubblica a dover sopportare per intero il peso dell’aggiustamento all’equilibrio. Mentre, però, il controllo della dinamica del debito pubblico ha, in qualche modo, un carattere “oggettivo”, per evitare la bancarotta dello Stato, la riduzione delle tasse è invece una preferenza di carattere politico, dietro cui si nasconde l’idea dello”Stato minimo”. In questo approccio, lo Stato dovrebbe limitarsi ad offrire solo ed esclusivamente le prestazioni essenziali, non altrimenti erogabili dagli operatori privati. Tutti gli altri servizi pubblici dovrebbero essere privatizzati e affidati al mercato.

    Inoltre, l’uso della politica fiscale ai fini di stabilizzazione del ciclo economico sarebbe esclusivamente affidata alla variazione delle tasse, attraverso i meccanismi automatici di bilancio. Quando l’economia si trova in una fase di surriscaldamento, con tensioni inflazionistiche, le tasse aumenterebbero e agirebbero da freno ai consumi e agli investimenti privati. Viceversa, in una fase di ristagno economico, le tasse diminuirebbero, sostenendo la domanda privata. Nessun ruolo per i consumi e gli investimenti pubblici e quindi nessuna possibilità per lo Stato di intervenire sulla struttura dell’economia a fini di programmazione dello sviluppo e di ridistribuzione del reddito. Il modello economico e sociale che sta dietro questa ipotesi è quello dell’economia consumistica di mercato.

    Non è infine da dimenticare che la riduzione delle tasse è uno strumento di sostegno alla domanda inferiore sul piano dell’efficacia economica e dell’equità sociale rispetto all’aumento della spesa pubblica. Parte delle riduzioni fiscali finiscono in risparmi finanziari e speculativi e quindi non servono a rilanciare l’economia reale. Inoltre, i vantaggi delle riduzioni fiscali si distribuiscono maggiormente sulle fasce più ricche della popolazione, quelle che consumano una parte proporzionalmente minore del proprio reddito, e molto meno sulle fasce più povere, che consumano interamente quanto guadagnano perché non possono permettersi di risparmiare. Mentre in termini relativi questo effetto si verifica quando i sistemi fiscali sono orientati alla progressività, in termini assoluti è sempre vero, indipendentemente dalla struttura del sistema fiscale. L’esperienza dell’attuale fase di stagnazione economica sta confermando in pieno l’inefficacia e l’iniquità di un’espansione fiscale dominata dalla riduzione delle tasse. Per motivi ideologici e politici, sia negli USA, in forma massiccia, sia in Francia e in Italia, in forma molto più prudente, negli ultimi due anni i rispettivi Governi hanno proceduto a ridurre le tasse, in particolare per i contribuenti più facoltosi. Gli effetti sulla domanda interna sono stati molto scarsi negli USA, dove è solo la spesa militare a contribuire a sostenere la domanda, e addirittura nulli In Francia e in Italia, entrambi passati dalla stagnazione alla recessione.

    Da ultimo, è evidente che l’adozione di una regola fiscale sulla spesa pubblica annullerebbe completamente i già stretti margini di autonomia dei Governi e dei Parlamenti. Fissato l’obiettivo di spesa pubblica in sede comunitaria, Governi e Parlamenti avrebbero ben poco da fare. L’omologazione del sistema politico alle compatibilità di mercato sarebbe così totale e completa.

    LE REGOLE ISTITUZIONALI DI POLITICA ECONOMICA, COMUNQUE FORMULATE, IMPLICANO L’ADESIONE AL MODELLO NEOLIBERISTA.

    E’ vero che, di fronte alle proposte di modifica delle regole fiscali del PSC finora avanzate, si potrebbe controbattere avanzando nuove proposte: ad esempio, escludere dal saldo del bilancio pubblico considerato dal PSC le spese sociali e sanitarie oppure le spese per interessi, che ridistribuiscono il reddito a favore della rendita finanziaria e sono condizionate dalla politica monetaria della BCE. O ancora, fissare un livello minimo di spesa sociale incomprimibile. E’ cioè possibile elaborare una proposta progressista di regole fiscali di carattere istituzionale alternativa a quelle di stampo neoliberista finora prospettate. Tuttavia, accettare questo terreno di confronto è estremamente pericoloso e non solo per lo stato attuale dei rapporti di forza politici e sociali, in un’Europa dominata da Governi conservatori. Le regole fiscali, comunque formulate, sono pur sempre dei meccanismi automatici e rigidi di politica economica. Esse si inscrivono teoricamente in quel filone di pensiero economico, di stampo monetarista e neoliberista, che sostiene la necessità di limitare al massimo il ruolo dell’intervento pubblico nell’economia attraverso la costruzione di vincoli e di regole istituzionali, invalicabili e immodificabili, alla politica economica. La politica economica dovrebbe, in questo approccio, essere prevedibile e fornire il quadro istituzionale al cui interno possano liberamente agire le forze di mercato. Dietro l’idea di regole istituzionali di politica economica c’è la concezione dello Stato neutrale rispetto all’allocazione delle risorse e alla distribuzione del reddito, affidate al libero gioco del mercato. Lo Stato non sarebbe un soggetto attivo nel conflitto distributivo o nel processo economico, ma un osservatore esterno che si limita a garantire il rispetto delle regole del gioco. Inoltre, applicare una regola universale per Paesi in situazioni economiche e sociali molto diverse, con gradi di sviluppo economico estremamente differenziati, come quelli attuali dell’UEM, o ancor più come accadrà in futuro a seguito dell’allargamento ad Est dell’UE, vuol dire, da parte dei poteri pubblici, rinunciare a programmare e indirizzare strategicamente lo sviluppo.

    Se si accettano regole fiscali, perché allora si dovrebbe criticare la fissazione di rigide regole quantitative per la politica monetaria? Se si accetta la determinazione per via istituzionale dei contenuti della politica economica, perché si dovrebbe poi contestare il carattere tecnocratico e ademocratico dell’UEM? Fissate le regole, non è forse poi una questione puramente tecnica quella della loro concreta attuazione? Tanto è vero che alcuni economisti hanno avanzato proprio l’idea di uniformare la gestione della politica fiscale a quella della politica monetaria europea. In queste ipotesi la definizione della politica fiscale verrebbe sottratta ai Governi e ai Parlamenti nazionali per essere affidata ad un Consiglio di esperti indipendenti (analogo al Consiglio direttivo della BCE). Si tornerebbe così all’“ancien regime”, pre-Rivoluzione francese, dove, però, al posto del Re Sole e della sua splendida corte, ci sarebbero una manciata di rispettabili e noiosi cattedratici o tecnocrati, chiusi in asettiche stanze blindate, a decidere di tasse e spese pubbliche.

    Come si vede, al di là della specifica formulazione, l’idea stessa di regole istituzionali di politica fiscale implica l’adesione ad un approccio fondamentalmente neoliberista e antidemocratico, dove è sempre e comunque il mercato a farla da padrone. In definitiva l’adesione al metodo delle regole istituzionali di politica economica, nasconde una convinzione ancora più profonda e radicata, a volte anche solo nel subconscio, quella relativa al carattere “naturale” dell’economia capitalistica di mercato. Il capitalismo di mercato sarebbe un meccanismo perfetto ed eterno, immune da crisi o da cambiamenti strutturali. Basta fissare delle regole, semplici e invariabili, al ruolo dello Stato per non incrinare la “perfezione celeste”. In realtà, la storia ci ha dimostrato che qualunque regola è, prima o poi, destinata a saltare. E se non ci fosse stato l’intervento dello Stato nelle periodiche fasi di crisi generale del capitalismo, questo meccanismo “perfetto e immutabile” sarebbe già scomparso da un pezzo.

    “CHE FARE?” L’INTEGRAZIONE FISCALE IN UN’EUROPA DEMOCRATICA È LA SOLA ALTERNATIVA ALL’EUROPA NEOLIBERISTA.

    Alla fine dell’esame del PSC e delle proposte di modifica avanzate, è venuto il momento di ricapitolare le principali conclusioni a cui siamo giunti:
    1) Il PSC è un fattore di blocco della crescita economica europea, particolarmente grave in un periodo di stagnazione;
    2) Il PSC, come prima i parametri di Maastricht, è stato usato per imporre e giustificare in Europa politiche impopolari di riduzione dei servizi pubblici e di privatizzazione;
    3) Il PSC ha fallito tutti i suoi obiettivi, compresi quelli di riduzione dei deficit pubblici;
    4) Il PSC non riesce più ad essere rispettato dai principali Paesi dell’UEM;
    5) Il PSC è gravato da insolubili contraddizioni interne ed è privo di coerenza con l’attuale assetto dell’UEM;
    6) Le proposte di modifica del PSC, avanzate in sedi ufficiali e semiufficiali, aggravano i problemi invece di risolverli;
    7) La determinazione di regole istituzionali di politica economica, rigide e vincolanti, sono il frutto di un fallimentare approccio ideologico neoliberista all’integrazione europea.

    Alla luce di queste conclusioni, per le forze antiliberiste e alternative europee la fatidica domanda del “Che fare?” si pone da sola.

    Una risposta possibile potrebbe essere quella dell’autarchia, dell’uscita unilaterale dei singoli Paesi dall’UEM per recuperare i margini perduti di autonomia politica ed economica nazionale, al cui interno sperimentare percorsi di trasformazione politica, economica e sociale. Tuttavia, sul piano della sua concreta fattibilità, questa strada solo apparentemente è percorribile. Il processo di integrazione economica e monetaria europea è ormai un dato irreversibile della realtà. Forse, in quei Paesi, come l’Inghilterra, la Svezia o la Danimarca, che non hanno già aderito all’UEM, è ancora possibile opporsi con successo all’unificazione monetaria. In tutti gli altri Paesi, dove ormai le precedenti monete nazionali sono solo un lontano, e a volte nostalgico, ricordo, è arduo ipotizzare un ritorno indietro, senza scontare conseguenze economiche catastrofiche. L’uscita unilaterale comporterebbe non solo il ripristino dell’antica moneta nazionale, ma anche la fuoriuscita dallo spazio economico comune europeo. Inoltre, l’irreversibilità storica del processo di integrazione deriva dall’intreccio inestricabile esistente tra le strutture economiche nazionali, sempre più fuse in un’unica struttura economica europea, tanto che ormai appare difficile distinguere e delimitare le singole economie nazionali.

    In secondo luogo, oltre ai forti dubbi sulla fattibilità di un progetto autarchico nazionale, è opinabile anche la sua desiderabilità. L’integrazione europea, accanto a tutte le negative conseguenze sociali prodotte dall’approccio neoliberista, ha generato anche effetti positivi in termini culturali e di collaborazione pacifica e costruttiva tra Paesi un tempo irriducibilmente nemici. Questa conquista di civiltà, eredità storica dello spirito pacifista e internazionalista del migliore movimento operaio europeo, deve essere salvaguardata. Inoltre, nell’odierna economia del capitalismo globalizzato, un progetto di trasformazione economica e sociale può essere pensato e realizzato soltanto su vasta scala, su dimensioni almeno continentali. Di certo, nel mondo di oggi, l’idea del “socialismo in un Paese solo” appare del tutto anacronistica, soprattutto se si tratta di un Paese europeo, dalle dimensioni territoriali e demografiche relativamente ridotte. Infine, nella fase della globalizzazione capitalista, l’Europa può diventare il fulcro mondiale della resistenza e dell’alternativa nei confronti delle politiche neoliberiste, attraverso la definizione di un modello economico e sociale alternativo a quello degli USA, in grado di contribuire ad una politica di pace e di riequilibrio tra Nord e Sud del mondo.

    Allora, l’alternativa al PSC e alla declinazione europea dell’ideologia della globalizzazione neoliberista, oggi incarnata dall’attuale struttura dell’UEM, va cercata e perseguita a livello europeo. L’alternativa non è l’autarchia nazionale, bensì la costruzione di una nuova Europa, democratica, indipendente e sovrana, ispirata dai valori della pace, della giustizia, dell’uguaglianza e della libertà. Oggi, l’Europa di Maastricht e del PSC non è questo, anzi per molti aspetti ne rappresenta l’antitesi. L’attuale UEM è l’Europa del capitale finanziario, della tecnocrazia comunitaria e bancaria, della subalternità ai mercati e ai mercanti.

    Quali allora i connotati basilari di un’altra Europa?
    All’interno di un’Unione Economica e Monetaria, formata da entità statuali distinte, è certamente necessario che esista un forte grado di coordinamento nelle politiche economiche. Se così non fosse, l’Unione si disgregherebbe, in seguito ai comportamenti egoistici dei singoli Stati. Esistono però diverse forme attraverso cui realizzare la necessaria integrazione e collaborazione. La strada finora scelta dall’UEM è consistita nell’affidare ad un organismo tecnico, come la BCE, responsabile solo nei confronti dei mercati finanziari, la conduzione della politica monetaria e del cambio e di mantenere invece una gestione decentrata a livello nazionale delle politiche fiscali. Per garantire la coerenza sistemica delle singole politiche fiscali nazionali, però, sono stati creati vincoli di natura istituzionale, quali quelli del PSC, rigidi e sottratti alla potestà democratica. La struttura del potere e i meccanismi decisionali dentro l’UEM sono così privati di qualsiasi legittimazione democratica, in balia di tecnocrazie irresponsabili o di meccanismi impersonali e “oggettivi”.

    L’altra Europa da costruire passa allora innanzitutto attraverso l’integrale democratizzazione delle istituzioni europee. Tra queste un posto di primaria rilevanza spetta alla BCE. La conduzione della politica monetaria e del tasso di cambio deve essere sottoposta a poteri di indirizzo politico, formulati da organismi istituzionali sottoposti a controllo democratico e direttamente responsabili nei confronti dei cittadini, sottraendole all’attuale subordinazione agli interessi dei mercati finanziari.

    Per quanto riguarda la politica fiscale, occorre invece procedere verso una maggiore integrazione, introducendo, accanto a strumenti di coordinamento gestionale, anche forme di definizione a livello comunitario degli indirizzi strategici e dell’orientamento macroeconomico complessivo dell’area. Ciò può essere possibile, in primo luogo, attraverso un rafforzamento quantitativo e qualitativo del bilancio dell’UE, oggi pari ad appena l’1,5% del PIL dell’area e limitato a pochi settori di intervento. E’ evidente come l’esiguità attuale delle risorse gestite a livello comunitario rende impossibile attuare, a livello di Unione, serie ed efficaci politiche di riequilibrio regionale e di ridistribuzione territoriale delle risorse. Ancora più arduo risulta oggi l’obiettivo di utilizzare la politica fiscale comunitaria per orientare la domanda complessiva dell'UEM e per svolgere compiti di programmazione e di pianificazione generale dello sviluppo. Ma una maggiore integrazione fiscale vuol dire anche procedere, dal lato delle entrate pubbliche, verso una convergenza dei sistemi tributari nazionali e, dal lato delle spese pubbliche, verso una maggiore omogeneità dei sistemi di protezione sociale. In questo modo, si costruirebbe, accanto allo spazio economico, anche uno spazio sociale europeo, nel quale i cittadini possano godere tendenzialmente dei medesimi diritti. Inoltre, è solo attraverso una più forte integrazione fiscale che l’intervento pubblico nell’economia può acquistare gli strumenti e le risorse necessarie per politiche strutturali sull’apparato industriale e produttivo, non limitate alla sola liberalizzazione dei mercati.

    Naturalmente, procedere verso l’integrazione fiscale porta con sé una parziale riduzione della sovranità degli Stati nazionali. Ma, in realtà, già oggi, con il PSC, essa è largamente espropriata a vantaggio delle tecnocrazie e degli interessi economici dominanti. L’integrazione fiscale dovrebbe essere accompagnata dalla democratizzazione dei meccanismi decisionali dell’Unione, con un ruolo primario del Parlamento europeo, unica istituzione espressione di una sovranità popolare europea. Integrazione fiscale non vuol dire centralizzazione: l’esperienza storica di numerosi Stati federali mostra una varietà di possibili soluzioni in grado di garantire sia l’efficacia generale della politica fiscale, sia il decentramento decisionale e operativo.

    L’alternativa all’Europa neoliberista di Maastricht e del PSC passa dunque attraverso un di più di integrazione e non un di meno. Ormai, il vecchio sogno europeista della costruzione di un’entità statuale continentale, può essere incarnato solo dalle forze della sinistra alternativa e antiliberista. Come mostra il topolino della bozza di Costituzione europea partorito dalla Convenzione, le forze dominanti non possono procedere oltre sulla strada dell’integrazione europea, perché dovrebbero rinunciare al loro modello politico e sociale, oggi alla base dell’UEM. Il compimento dell’unità europea passa così per la costruzione dell’alternativa al neoliberismo.

    Materiali del Dipartimento Economia
    Bollettino di informazioni a cura del Dipartimento Nazionale Economia - Area Lavoro e Diritti Sociali - Partito della Rifondazione Comunista

    Numero 9 - Settembre 2003
    Web: http://www.rifondazione.it/statosociale/pagine/economiaD.htm
    E-mail: economia.prc@libero.it

    Andrea Ricci
    (responsabile Dipartimento Economia PRC)

    9722