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(17 Agosto 2011) Enzo Apicella
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Il Documento di programmazione economico-finanziaria 2004-2006

Prosegue la strategia neoliberista del Governo Berlusconi - di Andrea Ricci (responsabile Dipartimento Economia PRC)

(10 Agosto 2003)

CHE COSA SONO IL DOCUMENTO DI PROGRAMMAZIONE ECONOMICO-FINANZIARIA E LA LEGGE FINANZIARIA

Lo strumento del Dpef (Documento di programmazione economico-finanziaria) è stato introdotto nell’ordinamento finanziario italiano con la legge n.362 del 23 agosto 1988. La legge 362/88 interveniva a modificare le modalità di formazione del bilancio pubblico annuale e pluriennale, determinate dieci anni prima dalla legge 486/78, con la quale venne istituita la legge finanziaria.
L’introduzione della legge finanziaria fu determinata dalla necessità di superare le eccessive rigidità nella formazione del bilancio statale. Prima della sua introduzione, infatti, il bilancio annuale e pluriennale dello Stato era determinato automaticamente dalla legislazione in vigore. In tal modo, gli stanziamenti di ogni singolo capitolo erano derivati dall’insieme delle specifiche leggi di settore approvate precedentemente. La modifica degli stanziamenti poteva avvenire soltanto attraverso un complesso e laborioso lavoro di modifica e di integrazione delle singole e specifiche leggi. Tale meccanismo non consentiva di operare rapidamente ed efficacemente quegli aggiustamenti della manovra di bilancio necessari a configurare una coerente politica fiscale, capace di rispondere alla mutevole congiuntura economica. Attraverso la legge finanziaria, invece, diventò possibile far precedere all’approvazione del documento contabile, la modifica della legislazione esistente al fine di conseguire una composizione degli stanziamenti di bilancio coerente con gli obiettivi macroeconomici generali perseguiti. In tal modo si rafforzava la capacità dello Stato di orientare l’andamento macroeconomico dell’intero sistema produttivo. Per queste ragioni, la sua introduzione fu valutata favorevolmente anche dalle forze di sinistra, compreso il PCI.
Sulla base della l. 486/78, la legge finanziaria deve determinare: a) il livello massimo di indebitamento pubblico annuale; b) le risorse da destinare a nuovi provvedimenti legislativi da approvare nel corso dell’anno; c) le risorse da destinare alle leggi a carattere pluriennale; d) le integrazioni e le modifiche alla legislazione vigente avente riflessi sul bilancio pubblico. La legge finanziaria deve essere approvata, insieme al bilancio dello Stato, entro il 31 dicembre di ogni anno.
L’esperienza dei primi dieci anni di funzionamento, ha dimostrato che la legge finanziaria tendeva a trasformarsi in una sorta di “legge omnibus”, dove venivano inseriti, da parte del Governo e del Parlamento, una serie di provvedimenti eterogenei, e spesso incoerenti tra loro. Tutto ciò che non si era riuscito a fare attraverso i normali canali parlamentari, confluiva, spesso all’ultimo momento, nel carrozzone della legge finanziaria. In questo modo, i tempi di elaborazione e di approvazione della legge finanziaria si dilatavano e superavano il limite della fine dell’anno, rendendo necessario ricorrere all’esercizio provvisorio del bilancio. Veniva così meno il principale scopo per il quale la legge finanziaria fu istituita, quello di determinare la manovra di bilancio ai fini di obiettivi generali di politica macroeconomica.
Per queste ragioni la legge 362/1988 ha modificato il meccanismo di formazione del bilancio prevedendo: a) la presentazione da parte del Governo del Documento di programmazione economico-finanziaria entro il 15 maggio, e la sua approvazione in Parlamento entro il 31 luglio, in cui sono definiti gli obiettivi programmatici della successiva manovra finanziaria alla luce dell’evoluzione tendenziale del bilancio pubblico a legislazione vigente; b) la presentazione da parte del Governo entro il 30 settembre della legge finanziaria e del bilancio programmatico, in coerenza con il quadro generale definito nel Dpef. La legge finanziaria deve essere strettamente limitata alla definizione dei provvedimenti direttamente collegati alla determinazione delle voci di entrata e di spesa del bilancio annuale e pluriennale, senza contenere provvedimenti normativi di altra natura.

LE PROPOSTE DI MODIFICA DELLE MODALITÀ DI FORMAZIONE DEL BILANCIO PUBBLICO

Negli ultimi mesi, sotto l’impulso in particolare del Ministro dell’Economia Tremonti, si è aperto un dibattito intorno alla necessità di modificare la modalità di formazione del bilancio. Due in particolare sono i rilevi mossi dal Governo all’attuale processo: in primo luogo, l’impossibilità di prevedere nel mese di luglio con sufficiente precisione l’evoluzione dell’economia e del bilancio pubblico nel successivo semestre; in secondo luogo, l’eccessivo ruolo parlamentare nella predisposizione definitiva delle legge finanziaria e di bilancio. In relazione a queste considerazioni, il Ministro dell’Economia ha più volte espresso l’opinione da un lato di eliminare lo strumento del Dpef e di determinare il quadro degli obiettivi macroeconomici perseguito dal Governo in sede di presentazione del programma di stabilità alla Commissione Europea e, dall’altro lato, di rendere la legge finanziaria un documento inemendabile da parte del Parlamento, il quale avrebbe soltanto il potere di approvarlo o di respingerlo in blocco. Sulle eventuali modifiche da apportare al meccanismo di formazione del bilancio è stato costituito un apposito gruppo di lavoro parlamentare, composto da rappresentanti della maggioranza e dell’opposizione.
In realtà, i rilievi del Governo servono più a coprire le proprie manchevolezze piuttosto che ad affrontare i veri nodi del problema. I primi due Dpef presentati da Tremonti, quello 2002 e quello 2003, infatti, si sono rivelati totalmente inattendibili sul fronte delle previsioni macroeconomiche e sono stati smentiti clamorosamente dai fatti (vedi tabella 1).

Tabella 1: gli errori del Governo

Previsioni 2002Variazione PILDeficit / PIL
Dpef luglio 2001+ 3,10,5
Finanziaria 2001+ 2,30,5
Dpef luglio 2002+1,31,1
Finanziaria 2002+0,61,8
Dato reale 2002+ 0,42,3


Più che dall’imprevedibilità della congiuntura, questi errori sono da addebitare ad un uso politico delle previsioni e ad una incapacità di comprensione delle dinamiche reali dell’economia da parte del Governo. La descrizione di uno scenario macroeconomico ottimistico, basato su stime di crescita addirittura otto volte superiori rispetto a quelle reali, presente nei primi due Dpef del Governo Berlusconi, sono derivate da fini propagandistici, anche al fine di contenere le contraddizioni all’interno della maggioranza, e dalla rigidità ideologica neoliberista, che è stata completamente spiazzata dall’esplodere della crisi economica strutturale del modello della globalizzazione capitalistica che ha investito l’economia internazionale.
La proposta di rendere inemendabile la legge finanziaria, d’altro canto, conferma il carattere autoritario di questo Esecutivo. Qualora ciò avvenisse, infatti, il Parlamento sarebbe espropriato di gran parte dei suoi poteri, in quanto si troverebbe nell’impossibilità di determinare non solo la politica economica del Paese, ma perfino la concreta applicabilità delle leggi da esso stesso approvate. Il Governo, infatti, potrebbe arbitrariamente sospendere l’efficacia delle leggi approvate, privandole delle risorse necessarie e, addirittura, abrogare o modificare la legislazione vigente. Il Parlamento sarebbe così ridotto, come già avviene per i Consigli comunali e Provinciali, a puro organo di ratifica delle decisioni dell’esecutivo, a semplice cassa di risonanza delle politiche governative. In questo modo si aggirerebbe e si svuoterebbe l’articolo 81 della Costituzione che assegna alle Camere il compito di approvare i bilanci preventivi e consuntivi.
In realtà il problema della modifica dei meccanismi di formazione del bilancio si pone su un versante esattamente opposto a quello avanzato da Tremonti. All’interno dell’Unione Monetaria Europea, le politiche macroeconomiche nazionali, non solo quella monetaria ma anche quella fiscale, sono sempre più vincolate dalle strategie definite in sede comunitaria, sia a livello di Banca Centrale Europea, sia a livello di Commissione e di Consiglio Europeo. Basti pensare alla centralità, per le manovre di bilancio nazionali, dei vincoli posti dal Patto di Stabilità e di Crescita e dalle interpretazioni che di esso vengono date dalla Commissione e dal Consiglio europeo. Questo livello comunitario è completamente sottratto ad ogni controllo da parte delle assemblee elettive nazionali ed europea. Inoltre, il quadro di politiche macroeconomiche europee è formulato in termini di vincoli e di regole rigide e automatiche, piuttosto che di indirizzi e di interventi attivi. Questo metalivello comunitario costituisce quindi un vincolo esterno che condiziona pesantemente le scelte dei Parlamenti nazionali. Le conseguenze di questa situazione sono: l’assenza di una politica macroeconomica attiva, in grado di indirizzare e dirigere lo sviluppo economico e sociale, e l’espropriazione dei ruoli delle sedi democratiche a vantaggio delle istanze tecnocratiche, subordinate agli interessi economici e finanziari dominanti. E’ evidente come questo meccanismo di formazione delle politiche macroeconomiche sia direttamente ispirato dall’impostazione neoliberista, perché di fatto svuota le autorità pubbliche dalla possibilità di adottare una politica macroeconomica attiva. Ai poteri pubblici rimarrebbe soltanto il compito di definire gli interventi specifici e settoriali, di carattere microeconomico, coerenti con il quadro rigido delle regole macroeconomiche comunitarie.
Per dotare il livello comunitario e nazionale di un efficace apparato di intervento pubblico nell’economia occorrerebbe allora far precedere gli strumenti di programmazione finanziaria nazionale, come il Dpef italiano, da un Documento di programmazione economico-finanziaria europeo, sulla cui base predisporre gli atti programmatori nazionali. Questo Dpef europeo dovrebbe essere proposto congiuntamente dalla Commissione europea e dal Consiglio europeo, previa acquisizione dei pareri vincolanti dei Parlamenti nazionali, e approvato in via definitiva dal Parlamento europeo. Il Dpef europeo dovrebbe contenere anche indirizzi e direttive vincolanti alla Banca Centrale Europea in merito alla politica monetaria e del tasso di cambio, in modo da rendere coerenti e coordinati tutti gli strumenti di politica macroeconomica a disposizione. Infatti, l’assoluta indipendenza della BCE, oltre a rappresentare un deficit democratico, costituisce anche un fattore di possibile incoerenza nella definizione della strategia di politica macroeconomica. Nulla impedisce oggi che la politica monetaria, definita in assoluta autonomia dalla BCE, agisca in direzione contraria rispetto alla politica fiscale, generando incertezza e minando l’efficacia dell’intervento pubblico. L’assoluta autonomia della BCE è figlia di un’impostazione monetarista e neoliberista che non prevede nessun ruolo pubblico di carattere macroeconomico. Solo in questa ottica essa può trovare giustificazione.
La direzione di marcia nella definizione dei meccanismi di formazione dei bilanci pubblici deve quindi essere quella della costruzione di un nuovo ed efficace apparato di intervento pubblico di carattere macroeconomico e questo non può che avvenire a livello europeo, sottoposto all’esame delle assemblee elettive democratiche. Quindi, l’esatto contrario delle proposte di Tremonti.

LE PREVISIONI TENDENZIALI DEL DPEF 2004-2006.

Elemento decisivo per impostare una corretta ed efficace politica fiscale è costituito da una corretta valutazione delle tendenze congiunturali e strutturali in atto. Errori in questo ambito, quali quelli presenti nei precedenti Dpef dell’attuale Governo, hanno la conseguenza di aggravare, con una politica fiscale prociclica, le tendenze negative in atto e di accentuare gli squilibri esistenti. Le previsioni del Dpef sono di due tipi: tendenziali e programmatiche. Le previsioni tendenziali sono date dalla stima delle principali variabili macroeconomiche in assenza di interventi correttivi di politica economica. Le previsioni programmatiche rappresentano invece gli obiettivi che il Governo intende raggiungere attraverso la manovra finanziaria.
Quest’anno il Governo non può ignorare la situazione di profonda stagnazione in cui si trova l’economia italiana e internazionale da due anni e mezzo. A partire dal 2001, ben prima degli eventi dell’11 settembre, le economie industrializzate hanno visto crollare i propri tassi di crescita (vedi tabella 2).

Tabella 2: il rallentamento della crescita

Variazione PIl1990-19951996-20002001-2002
USA+2,9+3,7+1,3
UE+1,7+2,4+1,1
Giappone+2,3+1,1+0,3
Italia+1,4+1,9+1,1


La durata, ormai pari a 10 trimestri, del ristagno mostra il carattere non congiunturale, ma strutturale della crisi. E’ il fallimento del modello della globalizzazione neoliberista, che aveva giustificato l’approfondimento delle diseguaglianze sociali, con il miraggio di una crescita economica sostenuta e generalizzata. Il crollo dei mercati borsistici internazionali e il rallentamento del commercio mondiale, i due fattori su cui si era fondata l’espansione neoliberista degli anni Novanta, confermano il dato strutturale della crisi.
I dati del PIL per il primo trimestre del 2003 accentuano la tendenza negativa degli anni precedenti. Nei primi tre mesi dell’anno in corso il PIL italiano è diminuito dello 0,1%, mentre nel complesso dell’UME è rimasto stazionario. Il crollo del 7% della produzione industriale italiana nel mese di maggio, fa presagire per il secondo trimestre un andamento ancora più negativo. Ciò trova conferma dai primi dati riguardanti la produzione industriale nel mese di luglio: la variazione su base annua risulta essere del -1,1%.
Tuttavia, nonostante l’inevitabile presa d’atto delle tendenze negative del passato, il Dpef 2004-2006, alla stesso modo dei precedenti, descrive per il presente e, soprattutto, per il futuro uno scenario decisamente ottimistico (vedi tabella 3).

Tabella 3: previsione tendenziale Dpef

-2003200420052006
PIL0,81,82,12,2
Inflazione2,41,91,71,6
Disoccupazione8,88,58,38,1
Deficit/PIL2,33,13,22,8
Deficit strutturale1,82,73,02,7
Avanzo primario3,01,91,82,2


Infatti, tenendo conto dell’andamento stimato del PIL dei primi due trimestri dell’anno, nel secondo semestre 2003 la crescita del PIL dovrebbe miracolosamente balzare su valori prossimi al 2% per rispettare le previsioni governative. Nel successivo triennio, poi, la crescita dovrebbe mantenersi stabile e costante intorno a questo valore, che, ricordiamo, è ben superiore a quello medio registrato dall’economia italiana nel corso di tutti gli anni Novanta, gli anni del boom della globalizzazione.
Stessa cosa accade per il tasso di inflazione. I dati ISTAT, che hanno chiaramente sottostimato l’effetto dell’introduzione dell’euro, affermano che nel primo semestre 2003 il tasso di inflazione si è attestato intorno al 2,7%. Affinché sia confermata la previsione del Dpef, nel secondo semestre l’inflazione dovrebbe calare al 2%. Perchè mai? I consumatori non si stanno affatto accorgendo di ciò. Infatti, le prime stime per il mese di luglio danno il tasso di inflazione fermo al 2,6%.
Il Governo prevede che lo stimolo all’accelerazione alla crescita verrà dal rilancio della domanda interna. Infatti, l’apprezzamento dell’euro e il persistente divario inflazionistico esistente tra l’Italia e il resto dell’UME determinerà, anche nel prossimo futuro, una riduzione della componente estera della domanda. Secondo il Governo, saranno i consumi delle famiglie e la ripresa degli investimenti ad essere gli elementi propulsivi della crescita. E tutto ciò dovrebbe accadere senza alcun provvedimento di politica economica rispetto a quelli vigenti! E’ facile pronosticare un nuovo, clamoroso, errore previsionale.
Le previsioni del Governo costituiscono un mistero della fede neoliberista. Ma si tratta di un dogma interessato e funzionale ai propri scopi politici e sociali. Le previsioni macoeconomiche non sono, infatti, un dato neutro e oggettivo. La loro distorsione in senso ottimistico serve per motivare una politica fiscale rigorista, orientata alla riduzione dell’intervento pubblico nell’economia. L’esame degli obiettivi programmatici che il Governo si pone nel prossimo triennio confermano in pieno questa considerazione.

LE PREVISIONI PROGRAMMATICHE DEL DPEF 2004-2006: GLI OBIETTIVI DEL GOVERNO BERLUSCONI NEI PROSSIMI TRE ANNI.

Infatti, le sole indicazioni approssimative sulle determinanti della crescita prevista attengono al mercato del lavoro. In primo luogo, il contenimento salariale al di sotto dell’inflazione e della dinamica della produttività dovrebbe più che compensare la perdita di competitività estera della nostra economia ed aumentare le prospettive di profitto delle imprese. In coerenza con ciò, Il tasso di inflazione programmata, sulla cui base sono ancorati i livelli salariali, è previsto in netta discesa. L’assoluta inconsistenza di questa previsione peserà caro sulle tasche dei lavoratori e dei pensionati, in termini di ulteriore riduzione del potere d’acquisto. In secondo luogo, l’ulteriore precarietà del lavoro, derivante dall’entrata in vigore nel prossimo settembre della legge delega sul mercato del lavoro, attraverso il decreto attuativo approvato dal Governo lo scorso 31 luglio, dovrebbe generare un aumento dell’occupazione. In effetti, nel 2002 l’occupazione è cresciuta dell’1,1%. Ma di quale occupazione si tratta? E’ un’occupazione sempre più precaria, flessibile e poco remunerata, anche quando riveste la forma del rapporto di lavoro a tempo indeterminato. La ricetta neoliberista è quella di sostituire posti di lavoro stabili con salari decenti con posti di lavoro precari e poco remunerati. In questo modo, l’aumento dell’occupazione deriva prioritariamente dalla necessità di lavorare di più con meno diritti per mantenere un precario tenore di vita. Il decreto legislativo di attuazione della legge 30 sul mercato del lavoro introduce almeno altre 40 figure contrattuali precarie e flessibili!
Bassi salari e precarietà del lavoro, dunque, sono la ricetta neoliberista del Governo per rilanciare lo sviluppo. L’andamento dell’economia italiana nell’ultimo decennio, nettamente inferiore a quello degli altri principali Paesi industrializzati, dimostra che l’attacco ai salari e ai diritti dei lavoratori non produce nessun effetto benefico, anzi, al contrario, frena lo sviluppo e impoverisce i lavoratori. L’Italia, infatti, detiene un duplice record all’interno dell’UE: è il Paese con il più basso tasso di crescita medio nell’ultimo decennio ed è il Paese con la minore quota di reddito da lavoro sul reddito totale (53% contro il 60% della media UE). Inoltre, negli ultimi anni questo primato si è ulteriormente rafforzato. Nel periodo 1999-2002 in Italia i redditi da lavoro dipendente hanno avuto un tasso di crescita medio annuo inferiore dello 0,2% rispetto alla crescita della produttività, mentre nel complesso dell’UE è accaduto esattamente il contrario, i salari e gli stipendi sono cresciuti dello 0,1% più della produttività. Questo vuol dire che in Italia la distribuzione del reddito continua a spostarsi a vantaggio dei profitti e delle rendite, mentre in Europa, sia pure molto lentamente, accade il contrario.
In questi anni il sistema industriale italiano si è avviato, nonostante la moderazione salariale e la flessibilità, lungo un repentino declino. I principali settori strategici dell’industria nazionale sono stati smantellati o sono passati sotto il controllo straniero. Il tasso di ricerca e di innovazione del nostro sistema produttivo è tra i più bassi all’interno dell’OCSE. Lo stesso Governatore della Banca d’Italia lancia l’allarme del declino industriale. Il Mezzogiorno rimane privo di qualsiasi prospettiva di sviluppo. Il Governo, invece, si mostra completamente sordo e cieco di fronte a questa realtà. Nel Dpef non è contenuta nessuna indicazione di politica industriale attiva, né di serio intervento strutturale per il Mezzogiorno. “Laissez faire, laissez aller”, è questo il canto allegro e spensierato che si leva dalla plancia di comando del Governo, mentre la nave dell’economia italiana affonda inesorabilmente.
Sulla base di queste previsioni ottimistiche, fondate sulla credenza magica nelle virtù del neoliberismo, il Governo prevede per il prossimo triennio una politica di rigore finanziario finalizzata alla riduzione dell’indebitamento pubblico e al rispetto integrale del Patto di Stabilità, che stabilisce nel prossimo triennio il raggiungimento di un saldo del bilancio pubblico prossimo allo zero (vedi tabella 4). Infatti, date le previsioni formulate, non esiste per il Governo un’emergenza economica tale da imporre politiche di sviluppo e di sostegno alla domanda.

Tabella 4: previsione programmatica Dpef

-200420052006
PIL2,02,32,5
Inflazione programmata1,71,51,4
Disoccupazione8,58,27,9
Deficit/PIL1,81,20,5
Deficit strutturale1,30,80,3
Avanzo primario3,13,84,6


Per questo, il contributo della politica fiscale allo sviluppo economico nel corso del prossimo triennio sarà irrilevante in termini di crescita economica e di riduzione della disoccupazione. La politica fiscale continuerà a concentrarsi prioritariamente sulla riduzione del deficit pubblico, mantenendo un carattere restrittivo, con l’obiettivo di passare ad una situazione di avanzo del bilancio nel 2007. Il Dpef è estremamente chiaro su questa impostazione quando afferma: “nel breve periodo il risanamento dei conti pubblici prevarrà sull’azione di stimolo all’economia” (pag.67). Altro che scatola vuota!
Particolarmente preoccupante è la composizione dei saldi di bilancio prevista per conseguire questo scopo. Infatti, da un lato l’avanzo primario (cioè la differenza tra entrate e spese pubbliche con esclusione della spesa per interessi sul debito pubblico) nel corso del triennio dovrebbe complessivamente aumentare, rispetto all’andamento tendenziale, di 5,6 punti percentuali di PIL (qualcosa come 80 miliardi di euro), tornando sui livelli record della metà degli anni Novanta, il periodo precedente l’entrata nell’UME. Dall’altro lato, invece, la spesa per interessi dovrebbe mantenersi attorno al 5% del PIL fino al 2007. Questa previsione contiene, implicitamente, un tasso di rendimento del debito pubblico statale che supera il 5,5% annuo, nonostante che oggi i tassi di interesse sui BOT siano di poco superiori al 2% e quelli dei titoli a più lunga scadenza si collochino intorno al 3,5%. E’ da dedurre che il Governo intenda rilanciare la rendita finanziaria, altrimenti un ministro così finanziariamente creativo come Tremonti non avrebbe difficoltà a predisporre un piano di riconversione-ristrutturazione del debito pubblico in grado di sfruttare il consistente ribasso dei tassi di interesse. Poiché il Governo conferma l’obiettivo di graduale riduzione della pressione fiscale, tutto ciò vuol dire che quegli 80 miliardi di euro da ricavare nei prossimi tre anni usciranno dalla riduzione della spesa pubblica corrente, cioè principalmente dalla sanità, dalle pensioni, dalla spesa sociale e dal taglio ai trasferimenti al sistema delle autonomie locali.
Se è vero, infatti, che il Dpef non contiene indicazioni sull’inserimento nella prossima Finanziaria di interventi generalizzati sulle pensioni, esso conferma e rilancia il tema delle riforme strutturali, prime fra tutti quelle dei sistemi previdenziale e sanitario. Sul fronte pensionistico, è presumibile ipotizzare un ulteriore inasprimento dei contenuti della legge-delega all’esame del Parlamento, mentre sul fronte sanitario il Dpef cita espressamente l’introduzione di un sistema privatistico di tipo assicurativo per gli anziani non autosufficienti, in analogia col modello sanitario degli USA.

LA MANOVRA FINANZIARIA 2004

L’esame più ravvicinato dei caratteri fondamentali della manovra 2004, contenuti nel Dpef, consentirà di comprendere meglio il forte impatto sulle condizioni sociali del Paese della prossima Legge Finanziaria.
Per abbattere nel 2004 il rapporto deficit/PIL dal 2,3% di quest’anno e dal 3,1% tendenziale fino all’1,8% programmato, il Governo stima una manovra complessiva di 16 miliardi di euro. Si tratta di una manovra pesante, pari all’1,3% del PIL, soprattutto considerando la fase di ristagno dell’economia. Questo obiettivo vuole fare dell’Italia la prima della classe all’interno dell’UME in merito al rispetto del Patto di Stabilità. Francia e Germania ormai da due anni hanno di fatto abbandonato il Patto di Stabilità, con deficit crescenti e addirittura superiori al limite del 3% fissato dal Trattato di Maastricht. La difficile situazione economica ha portato questi due Paesi a rinunciare al rigore finanziario per tentare, sia pure con grande prudenza, di non soffocare ulteriormente l’economia. Negli USA per il 2003 si prevede, addirittura, un deficit pubblico intorno al 4,5% del PIL, quando soltanto due anni fa gli USA avevano un consistente avanzo di bilancio. Insomma, il Governo Berlusconi si colloca alla testa del fronte dell’ortodossia neoliberista internazionale.
Sui contenuti concreti attraverso cui verranno raggiunti questi folli obiettivi il Dpef dice ben poco, rinviando tutto alla presentazione della Legge Finanziaria. Si sa che la manovra dovrebbe basarsi per un terzo (5,5 miliardi di euro) su riduzioni permanenti della spesa e per due terzi (10,5 miliardi di euro) su misure una-tantum. Il continuo ricorso a misure temporanee, già ampiamente realizzato nei due anni precedenti soprattutto attraverso i condoni fiscali, non fa che spostare nel tempo la resa dei conti, quando occorrerà sostituire queste misure con interventi strutturali di massiccia dimensione.
Sul fronte delle riduzioni strutturali di spesa il Dpef si limita ad affermare che esse si concentreranno sulla riduzione dei regimi speciali di favore, sulla razionalizzazione degli acquisti di beni e servizi, sull’applicazione del patto di stabilità interno e sul piano europeo degli investimenti infrastrutturali.
E’ curioso notare su quest’ultimo punto come il tanto sbandierato Piano di Azione Europea per gli investimenti infrastrutturali, lanciato in pompa magna dalla Presidenza italiana dell’UE, sia citato nel Dpef tra gli elementi di riduzione della spesa, scoprendo così le reali intenzioni del Governo. Il piano Lunardi-Tremonti di rilancio degli investimenti infrastrutturali, a parte il devastante impatto ambientale, è in realtà una grande bufala e nasconde soltanto la volontà di privatizzare la gestione dei grandi assi di mobilità, in modo da far recuperare al grande capitale italiano quelle occasioni di profitto sicuro che il declino industriale del Paese sta perdendo.
Sul fronte delle misure una-tantum, invece, le uniche indicazioni riguardano la ripresa delle privatizzazioni e il settore immobiliare.
Cosa vorranno dire tutte queste sibilline affermazioni? Sperando di essere smentiti, esse potrebbero significare: una riduzione della tutela previdenziale per il pubblico impiego e per i lavoratori autonomi, l’intensificazione delle misure di esternalizzazione nella Pubblica Amministrazione, una riduzione degli investimenti statali (pari allo 0,6% del PIL), la privatizzazione di ulteriori quote di ENEL ed ENI, una consistente riduzione dei trasferimenti alle Regioni e agli Enti Locali e, infine, un grande condono edilizio. Questi ultimi due punti destano, in particolare, forte preoccupazione. Le Regioni e gli EELL nel corso degli ultimi anni sono già stati spremuti come limoni. Un’ulteriore, consistente, riduzione dei trasferimenti statali vorrà dire lo smantellamento dei servizi pubblici locali e costituirà lo strumento di una definitiva privatizzazione dei beni comuni e dei servizi sociali e di pubblica utilità. Il condono edilizio, per raggiungere la consistenza prevista dal Dpef, dovrà intervenire non solo sui piccoli abusi, cosa già di per sé grave e diseducativa, ma dovrà sanare anche i grandi abusi della speculazione selvaggia e dei palazzinari.

CONCLUSIONI: IL DPEF NON È UNA SCATOLA VUOTA, MA PIENA DI ESPLOSIVO SOCIALE.

Molti, in particolare dal versante del centro-sinistra, hanno criticato il Dpef più per quello che non contiene (cioè indicazioni più dettagliate sulla prossima manovra finanziaria) che per quello che contiene. E’ questa, in realtà, una lettura sbagliata, che si limita ad un esame tecnicistico del documento di programmazione del Governo. In realtà, il Dpef non è uno strumento tecnico, né uno studio accademico, ma un atto politico significativo e strategico. Da questo punto di vista, il Dpef è pieno di contenuti. Infatti, è certamente vero che il Dpef rimane sul generico rispetto alle misure tecniche e specifiche della prossima Finanziaria, anche per evitare di gettare benzina sul fuoco delle polemiche interne alla maggioranza. Tuttavia, sul piano della strategia di politica economica le scelte contenute sul Dpef sono chiare ed esplicite, prive di ambiguità.
Il Dpef si pone in totale continuità con le azioni fin qui portate avanti dal Governo Berlusconi. L’impostazione di politica economica rimane saldamente ancorata ad un neoliberismo integrale fondato sulla riduzione dell’intervento pubblico e sulla privatizzazione dei servizi e, attraverso le esternalizzazioni, della stessa Pubblica Amministrazione. La politica di bilancio mantiene un carattere marcatamente restrittivo, finalizzato al pieno rispetto del Patto di Stabilità, nella sua interpretazione più rigida. Nessun problema di sostegno, né selettivo, né indiscriminato, alla domanda viene posto. Le riforme strutturali del mercato del lavoro e del Welfare, insieme alla riduzione dei salari e del costo del lavoro, sono gli unici interventi proposti per un improbabile rilancio delle prospettive strutturali di sviluppo. La tutela dei profitti e della rendita, finanziaria ed edilizia, costituiscono il baricentro della politica dei redditi governativa.
Sulla base di questi presupposti, il Governo chiama i sindacati e la Confindustria a partecipare a ben undici tavoli programmatici sulle più svariate materie, ribadendo però che questa ulteriore fase di confronto si svolge all’interno della cornice definita nel Patto per l’Italia. E’ un tentativo, questo del Governo, di recuperare la CGIL ad una posizione accomodante nei confronti della sua politica economico-sociale per evitare una nuova esplosione di conflittualità sociale fin dal prossimo autunno. Ma si tratta più di un tentativo propagandistico e di facciata, non essendoci alcun segno di ravvedimento del Governo rispetto alle azioni fatte e ai programmi annunciati.
Lungi dall’essere una scatola vuota, il Dpef è invece una scatola piena di esplosivo, in grado di produrre profonde devastazioni sociali e di aggravare la crisi economica e produttiva del Paese. Sarebbe bene che tutte le opposizioni politiche e di movimento agissero insieme per produrre una forte mobilitazione sociale per sbarrare la strada ai programmi annunciati dal Governo. Ma perché ciò possa accadere, occorre che il centrosinistra prenda atto del fallimento su scala europea e mondiale delle politiche neoliberiste, sia di quelle selvagge che di quelle temperate, e si ponga sul terreno della sperimentazione di politiche economiche alternative. Criticare il Dpef in nome del Patto di Stabilità e del rigore finanziario è come essere più monarchici del re: un atteggiamento questo non solo ridicolo, ma, in determinate circostanze, addirittura suicida.


Materiali del Dipartimento Economia
Bollettino di informazioni a cura del Dipartimento Nazionale Economia - Area Lavoro e Diritti Sociali - Partito della Rifondazione Comunista

Numero 7 - Agosto 2003
Web: http://www.rifondazione.it/statosociale/pagine/economiaD.htm
E-mail: andricci@supereva.it

Andrea Ricci
(responsabile Dipartimento Economia PRC)

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