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Le riforme costituzionali

(5 Ottobre 2003)

Un giorno – diceva Piero Calamandrei in un discorso pronunciato all’Assemblea Costituente nel 1947 – si immaginerà che seduti su questi scranni “non siamo stati noi, uomini effimeri, ma tutto un popolo di morti, caduti nelle prigioni e sui patiboli” per aver intrapreso “il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità”. Ed aggiungeva l’illustre giurista che questi morti si erano riservata di questo lavoro la parte più dura, quella di testimoniare con la resistenza e col martirio la fede nella giustizia mentre ai costituenti e ai loro successori era rimasto un compito cento volte più agevole, quello di tradurre in leggi “chiare, stabili ed oneste” il sogno di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini alleati per debellare il dolore.

Che resta oggi, in era berlusconiana, di questo progetto? Una malinconica involuzione ci sta facendo assistere alla produzione e alla messa in cantiere non di leggi “chiare, stabili ed oneste” intese ad attuare quel grande progetto ma di norme rivolte a comprimere gli ambiti di solidarietà sociale, di leggi “ad personam” per la concessione di inammissibili privilegi, di regole che mortificano la libertà dell’informazione fino alla incredibile legge Gasparri, di provvedimenti rivolti a colpire l’autonomia della magistratura ed anche a limitare punitivamente la libertà di manifestazione del pensiero e di associazione dei giudici come ci si accinge a fare con la riforma dell’Ordinamento giudiziario.

E poi c’è la controriforma delle controriforme, quella che tocca direttamente la Carta costituzionale e ferisce gravemente il sogno di quel popolo di “ribelli”, laici e cattolici, che affrontarono sacrifici e persecuzioni per avviare nel nostro Paese la costruzione di una “Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Una Repubblica che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, che afferma il principio della pari dignità sociale con l’impegno a rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono lo sviluppo della persona umana e la partecipazione dei lavoratori alla vita pubblica, che sancisce il diritto al lavoro di tutti i cittadini e promuove le condizioni che lo rendono effettivo, che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Ed ancora: una Repubblica che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività, che impone la istituzione di scuole statali come struttura primaria dell’istruzione precisando che le scuole private non devono comportare oneri per lo Stato, che assegna allo Stato compiti di soggetto attivo nei processi economici garantendo gli istituti della proprietà privata e della libertà d’iniziativa economica ma prescrivendo che l’una e l’altra devono avere anche funzione sociale e non possono svolgersi contro gli interessi collettivi.

Ora, di fronte a tale scenario è mai possibile dire che l’impianto ideale e progettuale della Carta costituzionale non sta subendo attacchi demolitori e non rischia pericolosi stravolgimenti? E come si fa a giustificare la supina accettazione di quanto sta accadendo col semplicistico rilievo per il quale le progettate riforme non riguarderebbero la prima parte della Costituzione, quella dedicata ai principi fondamentali ed ai diritti e doveri dei cittadini, ma solo la seconda parte e cioè quella che disciplina l’ordinamento della Repubblica. Anche a voler prescindere dalla considerazione che la prima parte della Costituzione è stata già esplicitamente messa in discussione [sia pure allo stato di mere intenzioni] a partire proprio dalla disposizione che pone il lavoro a fondamento della Repubblica, non può sfuggire che molti principi e diverse direttrici dello Statuto stanno subendo una progressiva abrogazione di fatto [sulla quale, per la sua natura ed ampiezza, sarà difficile far pronunciare la Corte Costituzionale] mediante una produzione legislativa che contraddice palesemente il progetto rinnovatore del ’48.

Ma c’è di più e cioè che oggi – come si è detto – si sta mettendo pesantemente mano alla seconda parte della Costituzione ampliando marcatamente i poteri del capo del governo, limitando la funzione di garanzia del Presidente della Repubblica e comprimendo il ruolo fondamentale del Parlamento col proposito di ridurlo a docile strumento nelle mani del Presidente del Consiglio che potrà licenziarlo a piacimento facendone richiesta al Capo dello Stato oppure, ove la richiesta rischiasse di non essere accolta, facendosi sfiduciare dalla sua stessa maggioranza. Si tratta di modifiche che subdolamente intaccano la forma di governo parlamentare concepita dalla Costituzione come strettamente e funzionalmente connessa a quella democrazia pluralistica e partecipativa delineata dalla prima parte dello Statuto. Ed un gravissimo colpo alla prima parte della Costituzione viene anche inferto dalla cosiddetta “devolution” che aggiunge nella potestà legislativa esclusiva delle Regioni l’assistenza sanitaria, la scuola e la polizia locale. E ciò perché, specialmente in materia di sanità e di istruzione, “questo” federalismo non può non comportare riduzioni dei diritti inviolabili garantiti dall’art. 2 della Carta e violazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Carta medesima.

Brindisi, 26 settembre 2003

Michele DI SCHIENA

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