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IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
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Legge 30: le nuove subordinazioni del lavoro

un analisi del Coordinamento RSU

(26 Ottobre 2003)

La legge 30 si inserisce nell’attuale fase dello scontro di classe tra Lavoro e Capitale come strumento per l’affermazione di una nuova subordinazione del Lavoro alle necessità dell’impresa. Ciò non può che avvenire per via coercitiva, distruggendo tutti i presupposti del precedente quadro normativo ed aprendo la strada a manomissioni della stessa struttura contrattuale – Considerazioni a cura del Coordinamento Rsu ( www.ecn.org/coord.rsu/ ) – Ottobre 2003

Colleghiamo l’attuale discussione sulla legge 30 con la lotta che l’interesse di Capitale svolge in generale per determinare nuove e maggiori subordinazioni del lavoro all’interesse di mercato e di impresa.
Una subordinazione che non può avvenire che per coercizione, attraverso la sconfitta materiale ed ideologica di una classe a favore dell’altra.
Per certi versi la legge 30, assieme alla precarietà che essa produce anche sul piano salariale e delle aspettative previdenziali può essere vista come un passaggio determinante di questo percorso. Con questa legge si produce un mutamento generale rispetto al precedente quadro normativo. La totale libertà di impresa sulle forme di impiego della Forza Lavoro è qui pienamente affermata, liberando l’impresa da ogni residua rigidità nel mercato del lavoro, superando in un colpo solo le ambiguità di un quadro normativo che il Capitale era riuscito fino ad ora solo ad emendare (anche pesantemente) ma non ancora a reimpostare organicamente.

L’azione di Capitale dagli anni ’70 ad oggi

Sappiano che per contrastare la sua crisi di accumulazione il Capitale cerca sempre di sostenere la sua remunerazione attraverso politiche di riduzione del salario e dell’occupazione (redistribuzione di ricchezza dai salari a favore dei profitti).
Ma perché ciò diventi stabile la sua offensiva deve investire anche le forme della società, le forme del salario e della sua contrattazione, delle norme che regolano l’occupazione e le sue forme, affinché tutti i soggetti e le organizzazioni siano asservite ai caratteri, alle esigenze ed agli interessi della ristrutturazione capitalistica ed alle risposte concorrenziali che il capitale deve afrontare.
L’offensiva di Capitale quindi non incide solo sulla distribuzione della ricchezza ma tende a modificare, a suo favore, la subordinazione del Lavoro e della società a questi processi.

Occorre quindi evitare, come spesso succede nella lotta sindacale, di osservare l’iniziativa di Capitale solo alla luce delle singole contingenze e di porsi di fronte a queste armati solo di una “razionalità economica” che presenta i problemi come questioni tecniche, come cose oggettive da affrontare in quanto tali, liberando questi dai connotati di classe che sostanziano invece, e sempre, gli interessi in gioco.
E’ da questa sorta di “realismo economico” che sono nate le risposte concertative, prima, e le attuali derive neocorporative. Linee che si fondano sulla illusione di poter contribuire alla soluzione della crisi, e di partecipare in qualche modo, in un secondo tempo, alla spartizione dei risultati.
L’illusione di poter governare i processi di ristrutturazione e mutamento del Capitale semplicemente intervenendo sulle politiche redistributive, senza scoprirne il carattere di classe, produce un atteggiamento emendatario delle linee di Capitale che non libera la Forza Lavoro dalla conseguente nuova subordinazione che questi processi devono affermare.

Tra le responsabilità della linea concertativa, oltre al fatto che non si sia stati capaci di tutelare adeguatamente il salario, la principale è quella di avere accettato di comprendere nel punto di vista del Capitale (centralità del mercato) il ruolo negoziale del sindacato.
Solo in questo modo è possibile spiegare il profondo mutamento di una contrattazione che ha di fatto portato parole d'ordine come quelle del "giusto salario" e della "difesa dell'occupazione" ad evolversi nel loro esatto contrario.
1. la politica di difesa dell’occupazione si è piegata alle logiche produttivistiche delle flessibilità del lavoro e della prestazione, cioè in precarietà occupazionale ed aumento dell’intensità di lavoro.
2. La politica di difesa delle retribuzioni si è piegata alla logica delle compatibilità di sistema (inflazione programmata) e della subordinazione della contrattazione salariale agli obiettivi di redditività e produttività di impresa.

L’accordo del 23 luglio e tutta la contrattazione confederale e categoriale successiva, la subalternità della linea sindacale all’illusione concertativa non ha quindi solo favorito l'efficacia delle pressioni per la riduzione quantitativa di salario diretto (sia dal lato dell'occupazione che da quello della retribuzione), ma si è resa complice di una strategia di ristrutturazione dell'intero quadro normativo, legislativo e contrattuale, funzionale all'utilizzo che il capitale intende fare di questa riduzione.

Nell’osservare lo svolgimeno della lotta Lavoro–Capitale di questi anni appare evidente quale sia la partita in gioco. Non solo le quantità salariali ed occupazionali, ma anche (soprattutto) la lotta del Capitale per l’asservimento totale del Lavoro alle sue necessità.
La legge 30 è una tappa fondamentale di questa lotta. La sua applicazione cambia e consolida i rapporti di classe a favore del Capitale, arrivando a condizionare ed a subordinare (con una specie di effetto alone) anche le retribuzioni, il salario previdenziale, le forme contrattuali e sindacali, lo stesso modello di società. Con la legge 30 (lo dice il titolo del nostro seminario) la precarietà diventa “regime”.

Le tappe dello scontro Lavoro – Capitale degli ultimi anni

Fino ai alla fine degli anni '80, le pressioni di riduzione dell'occupazione, si sono realizzate in un quadro normativo che potremmo definire della "assistenza all’occupazione".

Dall'immediato dopo guerra, e fino agli anni 1975/80 la legislazione Italiana si è orientata infatti, per approssimazioni successive, verso politiche di sostegno alla permanenza sul mercato del lavoro di quei lavoratori a rischio occupazionale, con misure di salvaguardia del reddito e con il riconoscimento della titolarità del posto di lavoro.
Prima con la C.I.G. ordinaria, a fronte di crisi momentanee, causate da mancanza di commesse ed ordini, o per improvvise fermate causate da eventi di forza maggiore e fermate manutentive, poi (fine anni '60) con la C.I.G. straordinaria a fronte di crisi strutturali, aziendali e di settore, o conseguenti a piani di ristrutturazione e riconversione produttiva.
Con questo quadro normativo, la precarizzazione della condizione di occupato risulta 'assistita' per periodi più o meno lunghi (comunque quasi sempre prorogabili).
Il perno di questo sistema era la "titolarità del posto di lavoro" che sosteneva e teneva aperto l’impegno per l’azienda verso un rientro a parita' di condizioni, salariali e professionali dei lavoratori “momentaneamente” inutilizzabili.

Almeno fino alla fine degli anni 70, anche la contrattazione sindacale produce norme di forte tutela delle condizioni di utilizzo della forza lavoro e di gestione delle crisi occupazionali.
Da un lato i contratti stabiliscono chiari limiti alla possibilità di modifiche nell’orario di lavoro, nel ricorso agli straordinari, nell’introduzione di nuove turnazioni, di tutela delle professionalità ecc.
Dall’altro, forti del quadro normativo basato sulla “titolarità del posto di lavoro”, la contrattazione riesce ad affermare in diverse occasioni la “rotazione” dei lavoratori in Cig, ad impegnare le aziende in iniziative di ricollocazione del personale in esubero e non reintegrabile, a praticare (anche se con scarso successo) strumenti alternativi e solidali di tutela come “i contratti di solidarietà” collegati alle prime iniziative per la riduzione dell’orario di lavoro.

Possiamo dire che il capitale si è trovato ad affrontare i propri interventi sui livelli occupazionali e sulle condizioni di utilizzo della F.L. in un quadro di rapporti di forza favorevoli ai lavoratori, ed in un quadro normativo e politico di "stato sociale" che promuoveva azioni di sostegno ed assistenza ai problemi occupazionali.
Ciò è ancor più vero alla fine degli anni '70 con l'avvicinamento del PCI all'area del governo, e col coinvolgimento del sindacato nei processi di negoziazione e formazione della politica economica e sociale.

D’altronde, in quel periodo, le crisi di valorizzazione erano considerate congiunturali e quindi momentanee, e così è fino alla fine degli anni '70, dove le evidenti difficoltà di valorizzazione continuavano ad essere spiegate con sfortunate congiunture e periodi di recessione dei mercati.
In realtà non di questo si tratta. E' il modello Fordista della produzione lineare a flusso continuo che ha ormai esaurito la propria carica innovativa. Per questo ci troviamo di fronte a forti esplosioni ed accelerazioni critiche, seguite da momentanee ed apparenti riprese e ripresine. Ma nessuno, ancora, metteva in discussione la base Fordista.
Dalla fine degli anni 70, primi anni 80, la risposta di Capitale a queste crisi è quella della “razionalizzazione” e della riduzione dei costi “improduttivi”, nell’attesa di quella ripresa che avrebbe rimesso le cose a posto.

Gli accordi sindacali di quegli anni sono tutti interni a questo quadro ottimistico, per cui si accettavano sacrifici, sia salariali che di ricorso alla C.I.G., pensando con cio' di contribuire alla ripresa.
Veniva in pratica accettata come valida, sia la risposta di Capitale tesa a realizzare una riduzione dei salari (politica dei sacrifici e del ridimensionamento della pressione rivendicativa, compatibilità dei comportamenti sindacali con le esigenze di produttività, competitività e mercato), sia la chiusura dei cosi' detti "rami secchi" ed obsoleti, nella convinzione di liberare cosi' risorse da destinare a favore di investimenti più remunerativi che avrebbero, in un secondo tempo, ridato fiato alla situazione occupazionale. E’ il periodo della “politica dei sacrifici” o, come detta in altro modo della “politica dei due temi”
Nello stesso modo si comporta il quadro politico, che sostiene questa convinzione con una continua azione di proroga delle normative di assistenza all'occupazione e di sostegno alle imprese.

Ma l’accellerazione critica degli anni tra il 1980 ed il 90, dimostra che il modello Fordista non riesce più a valorizzare il capitale investito. Certo, ancora si sviluppano tentativi di riorganizzazione del processo di produzione Fordista, ma i limiti di questa azione sono evidenti, e sempre più si deve procedere alla distruzione della base tecnica Fordista (a flusso lineare) ed alla sua riorganizzazione sul modello della fabbrica integrata e flessibile. Certo la F.L. non più riutilizzabile in questo quadro, è ancora mantenuta, con una politica di proroghe, in una situazione da "occupazione assistita", ma con sempre minori possibilità di reimpiego, ed a poco o nulla servono tutte le normative di sostegno alla ricollocazione prodotte in quegli anni (corsi di formazione, liste di mobilità a favore dei lavoratori in C.I.G. ecc.).

Il sistema Fordistico si esaurisce e non è più in grado di sostenere una politica di “assistenza all’occupazione” che però resiste essendo sostenuta da un quandro normativo frutto di un periodo precedente di rapporti di forza più favorevoli ai lavoratori.
Questa resistenza (sia normativa che dei comportamenti sindacali) appare ora come un vincolo, una rigidità non più compatibile con l'interesse di capitale.
Il Capitale diventa insofferente a qualsiasi solidarietà e responsabilità sociale, e pone sè stesso alla testa di un attacco ideologico contro gli "sprechi", contro lo "stato sociale", contro le politiche di "assistenza", per la centralità del mercato e del profitto come unico valore valido e regolatore delle leggi della società.

Già nel documento dell’assemblea di Confindustria del 1984, si poteva leggere:
"L'efficienza dell'impresa e la continuità dei rapporti di lavoro, devono essere stabiliti dalle regole del mercato, in una scelta che distingue nettamente e con rigore le esigenze di una attività economica (alla quale va concessa massima libertà), dall'assistenza."
Ed ancora, all’assemblea generale di Confindustria del 1987 ....
"La scelta coraggiosa di un'ampia liberalizzazione del mercato del lavoro in entrata ed in uscita (il licenziamento come momento naturale della storia lavorativa e non come trauma caricato di significati negativi, morali, psicologici e religiosi), è la via alternativa ad inutili e costose operazioni vetero-Keynesiane."

Il sistema della "assistenza all'occupazione" e della “rigidità della prestazione” deve quindi essere superato perché non contribuisce a liberare risorse, non favorisce la fuori uscita di Forza lavoro considerata ormai inservibile e non permette un utilizzo più flessibile ed economico della Forza lavoro occupata.
L’obiettivo è l'eliminazione di qualsiasi vincolo alle scelte di libertà di impresa (quindi anche quella di licenziare) che possa interferire sull'obiettivo del profitto. Il Capitale non può più accontentarsi di un patto sociale, come quello della “politica dei sacrifici” che se accetta di contenere i costi e sostenere gli obiettivi della “razionalizzazione” non è però ancora disponibile a modificare il quadro normativo su cui eranno ordinate le tutele per il Lavoro.

E’ interesse del Capitale invece distruggere il sistema di “tutele all’occupazione e della pretazione” ed asservire la Forza lavoro ad un nuovo quadro normativo che sostenga con maggiore efficacia il punto di vista del Capitale.
Negli anni 1988/1990 Confindustria svolge la sua piattaforma per ottenere un nuovo quadro normativo che rompesse il legame tra F.L. e posto di lavoro….
1. Contro la "titolarità degli esuberi" attraverso pressioni di deformazione degli “ammortizzatori sociali”. Per la riduzione delle risorse disponibili a sostegno della "assistenza all'occupazione" e per il loro trasferimento a politiche di sostegno all'impresa.
2. Per la liberalizzazione del mercato del lavoro, in entrata in uscita, con conseguenti modifiche delle norme che regolano i rapporti di lavoro. Libertà di assumere e di licenziare in qualsiasi momento a seconda delle necessità, senza sottostare a vincoli o rigidità di sorta.
.. cercando di condizionare il quadro politico e le stese forze sindacali ad accettare la necessità di questo cambiamento.

La legge 223 del 1991 - L'azione di smantellamento e di trasformazione del precedente quadro normativo, si avvia concretamente con la legge 223 del 1991, che prevede la possibilità per le imprese di espellere i lavoratori eccedenti collocandoli in una lista di mobilità (detta di mobilità corta) per un periodo di due anni (prorogabile a 3). Questi lavoratori risultano cosi' praticamente licenziati e decaduti dal diritto alla titolarità, che ora cessa di essere un onere per l'impresa.
L'iscrizione alle liste di mobilità, garantisce ancora un relativo sostegno al reddito (pari all'indennità di C.I.G.), ma per le caratteristiche di questa condizione, tale indennità si configura più come assegno speciale di disoccupazione, che decade comunque alla scadenza del secondo anno (al terzo in presenza di proroga).
La legge 223, sostanzia così il passaggio verso un sistema normativo che potremmo chiamare della "disoccupazione assistita" con successiva e conseguente disoccupazione tal quale.
Non è ancora la tanto rivendicata libertà di licenziare, ma poco ci manca. Ed in effetti le pressioni di capitale per la deregolamentazione delle norme, non si esauriscono con la legge 223.
A parte il tentativo "Pannella", per l'abrogazione (via referendum) dell'istituto di C.I.G., non si contano le dichiarazioni di esponenti politici che si spingono verso una maggiore e sempre più esplicita adesione alle richieste Confindustriali. Già nel 1993 Tiziano Treu indica la C.I.G. come uno strumento superato, non più in grado di sostenere l'occupazione e troppo oneroso per le casse dello stato. Dichiarando conclusa la fase delle "facili proroghe" Treu indica altresì la necessità di rivedere sia la durata che l'ammontare dell'indennità di mobilità, e di disattivare altri ammortizzatori sociali quali la mobilità di accompagnamento alla pensione.

L’introduzione della legge 223 nel 1991 rappresenta quindi un passaggio cruciale verso una più esplicita subordinazione del Lavoro ad un quadro normativo basato non più sulla “titolarità degli esuberi” ma sulla libertà dell’impresa di non aver vincolo alcuno in materia di licenziamento e di assunzione.
Lo scenario reso possibile dalla legge 223, e lo sfondamento anche ideologico contro le cosìdette “rigidità” della classe lavoratrice, apre concretamente la strada al definitivo smantellamento del quadro normativo precedente, con effetti significativi anche sulla politca legislativa e contrattuale successiva.
E’ infatti immediatamente successivo al 1991 l’accordo del 23 luglio del 1993 che subordina la contrattazione sindacale a parametri di compatibilità macro economica ed agli obiettivi di redditività e produttività dell’impresa.

Se la legge 223 ha aperto la strada allo smantellamento del precedente impianto normativo, gli obiettivi di Confindustria non sono ancora del tutto realizzati.
La libertà di licenziare ed assumere non deve riguardare solo le situazioni di crisi ma deve diventare la condizione normale per la libera conduzione dell’impresa.

Dal 1991, passando per il 1996 (legge Treu) fino ad oggi, è lo stesso terreno ideologico ad essere investito da questa tematica.
Conosciamo bene i contenuti del messaggio ideologico che si è cercato di omologare. Messaggio che potremmo così sintetizzare: “L'impresa ed il mercato come referenti principali dell'interesse generale. La risposta ai problemi del paese stà nella ripresa dell'accumulazione e dei profitti, senza i quali non c’è sviluppo e distribuzione di ricchezza. Qualsiasi altro punto di vista è vecchio, e chi lo sostiene è pazzo".
La stessa propensione difensiva della F.L. è considerata retaggio di tempi andati e sinonimo di spreco ed inefficiente assistenzialismo. Ogni condizionamento di tipo sociale (come la stessa salvaguardia dell'occupazione) è attaccato e ridotto ad ostacolo del libero svilupparsi dell'attività economica (leggi "profitto") dell'impresa.
La F.L. e le stesse organizzazioni sindacali, devono dimostrare "responsabilità", e quindi, disponibilità a concorrere alla ripresa dell'accumulazione rendendosi malleabili ed asserviti alle necessità della ristrutturazione, al bisogno di flessibilità ed al perseguimento di maggior produttività ed efficienza.

Naturalmente tutto ciò viene spudoratamente presentato come l'unico modo per affrontare i nuovi termini della realtà, per non restare legati a "vecchi sistemi", e per essere quindi creativi e innovativi, valorizzando la libertà di scelta degli individui ed i valori della persona umana, contro ogni forma di "oppressione burocratica" che deriva dalle organizzazioni e dalle contrattazioni collettive.
La liberalizzazione del mercato del lavoro, in entrata ed in uscita, l'assenza di vincoli e di tutele, dovrebbe essere vissuta come occasione di libertà e sviluppo individuale, fuori da ogni oppressione delle potenzialità soggettive, immaginandosi così scenari idilliaci dove i lavoratori vanno e vengono, dove il tempo di disoccupazione diventa "tempo libero" per la creatività e la formazione, dove "precario è bello".

Così le esigenze di capitale vengono presentate e sostenute nella forma subdola di liberazione dal lavoro. La flessibilità diventa "libertà di poter uscire ed entrare liberamente" dal mercato del lavoro, con enormi possibilità di libertà e crescita individuale.
In realtà, con la crescente centralità dell'impresa e del mercato, con la parallela flessibilizzazione della condizione lavorativa, tende invece ad aumentare la dipendenza del lavoro salariato.
Si ha, in pratica, quello che potremmo chiamare "effetto alone" e cioè l'interferenza dei problemi del lavoro anche e ancor di più nella sfera del tempo libero.
In una struttura produttiva dove tutto è flessibile (gli orari, i turni, le mansioni, il rapporto di lavoro e la sua localizzazione) , l'effetto alone rischia di avvolgere la totalità del tempo di vita. Con l’introduzione del "lavoro in affitto" (Legge Treu), il massimo prototipo del lavoro flessibile, quanto è diventato per molti il tempo perso nell'attesa, nella ricerca, nel tenersi disponibile, nei continui spostamenti, nel riprogrammarsi in continuo dell'esistenza?.

In fondo non e' già questa la condizione di milioni di disoccupati che vivono di sotto-occupazione, di precariato, di lavoro ad intermittenza?. Quanto del loro tempo e delle loro energie fisiche e mentali, vengono impiegate, consumate, quasi sempre inutilmente, nella ricerca e nell'attesa di una minima occasione di impiego?.
Proprio mentre il lavoro dovrebbe avere una minore importanza sui tempi di vita (con la tanto decantata tecnologia che libera dalla oppressione), avviene un processo inverso per cui alcuni sono costretti a lavorare sempre di più, con i tempi di lavoro che invadono prepotentemente tutta la loro sfera privata, mentre altri occupano buona parte del loro tempo nella affannosa, quanto inutile ricerca di un lavoro.
Tutto questo è inequivocabilmente una follia.

All’interno di questo messaggio ideologico il Capitale pone le sue necessità di ristrutturazione e mutamento, ottenendo consensi significativi per altro sia nel quadro politico, economico e anche sindacale.
Se può essere vero che l’accordo del 23 luglio è figlio anche della sconfitta sulla scala mobile, è vero altrettanto che l’impianto contrattuale che ne deriva è figlio di una adesione sindacale agli obiettivi di redditività e produttività di impresa e dell’illusione che tramite la concertazione anche i redditi da capitale e da rendita si sarebbero piegati ed impegnati verso uno sforzo di investimenti, di innovazione e ricerca, per un successivo rilancio dell’economia e quindi dell’occupazione.
E’ la riedizione della “politica dei due tempi” e della “responsabilità”, solo che il contenimento della rivendicazione salariale è ora codificato in un meccanismo (la concertazione) che produce e stabilizza forme salariali e negoziali subordinate ai vincoli ed agli obiettivi propri dell’interesse di impresa.
A parte la parentesi del 1994 (primo Governo Berlusconi) l’azione sindacale, concertata con gli interessi dei Governi di centrosinistra mette in campo la sua disponibilità a fare del recupero di produttività dell’impresa l’obiettivo comune, condiviso e perseguito da tutta la società.

L’esaurimento delle possibilità di sviluppo della vecchia base tecnica Fordista, non si traduce immediatamente in un mutamento. Per un lungo periodo ancora, il capitale agisce sulla data base tecnica disponibile, per creare e sfruttare ogni condizione utile alla realizzazione di una sufficiente accumulazione.
Il capitale che non riesce più a valorizzarsi andrà distrutto (chiusura di fabbriche, di linee, di attività) mentre dove risulterà possibile una adeguata valorizzazione, questa dovrà essere sostenuta ad ogni costo (razionalizzazioni, riduzioni di organico, riduzione dei costi, aumento dell'intensità di lavoro e della flessibilità, peggioramento della sicurezza sul lavoro, decentramento produttivo), piegando a questo punto di vista la propensione difensiva della F.L. occupata e delle sue organizzazioni sindacali.

Debole di fronte alla concorrenza internazionale, il capitale nazionale abdica di fronte ai suoi impegni di investimento e di rilancio della produzione su una nuova base produttiva.
Dietro allo slogan “piccolo è bello”, dietro alle privatizzazione di comparti essenziali della produzione industriale (come quello chimico), dietro al fallimento di piani industriali (come quello Fiat) che nonostante i tanti investimenti realizzati a partire dalle grandi ristrutturazioni degli anni ’80 non reggono la concorrenza internazionale, dietro la fuga di capitali dal settore industriale a quello della rendita finanziaria, si può leggere il fallimento della politica industriale Italiana e la sua sempre maggiore subordinazione alle scelte del capitale internazionale.
L’interesse del Capitale nazionale si attesta quindi (a parte qualche nicchia) su una economia di scala fatta di aziende piccole e medie, incapaci di una politica industriale complessiva, senza quella massa critica e quella dimensione di scala che potrebbe sostenere un piano di investimenti, di innovazione e ricerca.
Con ancora più forza di prima l’interesse di Capitale si rivolge quindi ancora più esplicitamente su una politica di riduzione dei costi. Per questo deve liberarsi di ogni residua rigidità e vincolo.
Perché la produzione flessibile possa scorrere fluida e libera da rigidità e vincoli, è necessario che tutti i fattori della produzione si adeguino a questa condizione, soprattutto il consumo di F.L.

Le tappe principali di questa offensiva sono:

23 luglio 1993 - Accordo Governo-Sindacati: Protocollo sulla politica dei redditi e dell'occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo. Con questo accordo la contrattazione viene subordinata ai parametri di compatibilità macro economica (inflazione programmata) ed agli obiettivi di redditività e produttività dell’impresa.

24 settembre 1996 - "Patto per il lavoro" tra Sindacati, Associazioni padronali e Governo. Ribadendo la validità dell’accordo sulla politica dei redditi, si completa quel quadro estendendo le disponibilità concertative alla gestione della prestazione. Non tutto viene chiarito (molto è demandato al successivi interventi legislativi del Governo) ma vengono ridotte le rigidità in materia di prestazione temporanea (nelle varie forme indicate; formazione, tempo determinato, intermediazione di mano d‘opera), di ricorso all’apprendistato, di flessibilità degli orari. L’accordo sancisce inoltre la necessità di nuovi e rinnovati impegni a favore dell’impresa, allargando le politiche di “decontribuzione” e rilanciando con ancora più forza la pratica dei “Contratti di area” e dei “Patti territoriali”, vere e proprie nicchie, dove la Forza Lavoro viene resa disponibile a condizioni in deroga alle norme in atto e dove il Capitale può accedere a consistenti finanziamenti

24 giugno 1997 - Legge 196 – “pacchetto Treu". Norme in materia di promozione dell’occupazione. Con questa legge viene data forma organica agli strumenti previsti nel “patto per il lavoro” dell’anno precedente. In modo particolare vengono normati il lavoro temporaneo – interinale e una politica di incentivazione alla rimodulazione degli orari. Al Capitale vengono così forniti strumenti importanti che rappresentano la base per l’azione di deregolamentazione successiva e di nuova subordinazione del lavoro e della prestazione all’interesse di impresa..

13 novembre 1997 – Avviso comune Sindacati – Associazioni padronali in materia di orario – Come è successo per il salario e come promosso dalla legge Treu, le parti sociali concordano una disponibilità a far saltare ogni rigidità della prestazione (distribuzione degli orari) definendo diverse tipologie utili a rispondere alle varie necessità dell’impresa. Salta il riferimento alla giornata lavorativa. I Ccnl immediatamente successivi subiscono inevitabilmente forti modifiche sul capitolo orario introducento svariate forme di flessibilità della prestazione e di distribuzione degli orari.

24 novembre 1998 – Viene trasformato in legge il decreto legislativo 335/98. Il Parlamento recepisce nella legge “disposizioni urgenti in materia di lavoro straordinario” l’avviso comune sull’orario firmato dalle parti sociali il 13 novembre 1997, rendendo così esigibili per l’impresa quelle concessioni anche in presenza di resistenze contrattuali a livello lcale.

22 dicembre 1998 – Patto per lo sviluppo e l’occupazione (cosìdetto “Patto di Natale”) tra Governo-Associazioni Padronali-Sindacati. Sostanzialmente si ribadisce e si rafforza l’impegno delle parti ad essere coerenti con i limiti posti dalla politica macroeconomica e dalle compatibilità di mercato. Premessa ed obiettivo dell’accordo sono infatti: Il contenimento ed il controllo della politica salariale, in modo che questa sia sempre più compatibile e coerente alla necessità di rendere disponibili maggiori risorse a sostegno degli investimenti e dell'occupazione e l'introduzione di regole certe ed esigibili, per consolidare il modello concertativo e per estenderlo anche a livello regionale e locale, con l'obiettivo di vincolare le parti sociali al rispetto degli obiettivi macro economici del "Patto" garantendo e verificando la coerenza dei loro comportamenti rivendicativi e contrattuali.

5 novembre 1999 – Decreto legislativo 532 in materia di Lavoro notturno – Di fatto si apre la strada alla introduzione di nuove turnazioni con limitate possibilità di intervento sindacale in proposito

Come si vede, dallo svolgimento dei vari interventi legislativi e degli accordi (nel decennio 1991–2000) possiamo ben affermare che le azioni per la liberalizzazione del mercato del lavoro e della prestazione sono stati notevoli.
Occorre aggiungere inoltre la fallita iniziativa referendaria lanciata dai Radicali nel 2000 per l’abbrogazione dell’articolo 18 della legge 300/70 che avrebbe, se riuscita, completato il quadro offensivo aperto dal Capitale in materia di totale libertà nei licenziamenti.

Dal 2001 ad oggi – La crisi della concertazione

Il risultato complessivo non soddisfa ancora il punto di vista dell’interesse di Capitale. Significativa è la relazione alla assemblee nazionale di Confindustria tenutasi a Parma nel maggio 2002.
In essa si afferma l’apprezzamento Confindustriale per quanto fatto fino ad ora, ma si contesta il carattere contingente, non complessivo ed organico delle modificazioni introdotte. Se alle aziende sono ora disponibili maggiori strumenti per affrontare ristrutturazioni, riorganizzazioni, riduzione dei costi sulle materie salariali, occupazionali e della prestazione, è il contesto generale che ancora permette forme di resistenza sindacale alla totale subordinazione del Lavoro al Capitale.
Molte delle concessioni che l’impresa ha ottenuto in questi anni sono ancora “viziate” da parametri di verifica inaccettabili, come i riferimenti (che ancora persistono qua e la) alla eccezionalità e temporaneità dell’accesso a questi strumenti ed a una negoziazione che (seppur concertativa) obbliga ancora le aziende a concordare con i sindacati, con esiti incerti, sulla qualità e sulla tempestività delle soluzioni. La filosofia Confindustriale è semplice: Il mercato corre veloce e noi non abbiamo tempo da perdere. Chi meglio di noi conosce il mercato! … lasciateci lavorare!.

Infatti d’Amato afferma nella sua relazione-piattaforma di Parma … “Come è sbagliata l’antitesi tra rigore e sviluppo, così è sbagliata l’antitesi tra efficienza economica ed equità sociale. L’una è in funzione dell’altra: e noi siamo pronti a dimostrarlo, pronti cioè ad alzare il livello dell’occupazione non appena avremo un mercato del lavoro più flessibile, liberato dagli impedimenti di questi anni, in entrata ed in uscita”

E’ inoltre la contrattazione nazionale di categoria ad essere attaccata in quanto fonte di costi mal distribuiti sulla variegata tipologia dele imprese. Costi che pesano sull’economia aziendale in modo più distorto di quanto invece porebbe fare una maggiore flessibilità contrattuale a livello decentrato.

L’entrata in carica del Governo Berlusoni facilità l’idea Confindustriale di poter realizzare un’affondo che, uscendo dagli impegni concertativi, liberi l’impresa da ogni impedimento ad affermare il suo interesse come unico valore regolatore della società. La piattaforma di Confindustria si salda immediatamente con l’impianto di trasformazione legislativa sostenuta dal Governo con il suo “Libro bianco per il lavoro”.

Il 3 Ottobre del 2001, il Governo presenta il suo “Libro Bianco per il lavoro” che, rispondendo alle sollicetazioni di Confindustria si basa su espliciti punti di partenza:

… “Esiste in Italia un problema di deficit culturale: I dipendenti si sentono estranei ad un coinvolgimento nell’impresa in cui sono occupati. Il lavoratore assai più che semplice titolare di un "rapporto di lavoro", deve sentirsi invece un collaboratore all’interno di un ciclo”.

… “Occorre continuare ad accrescere la flessibilità eliminando quegli ostacoli normativi che ancora rendono complicato l’utilizzo delle tipologie contrattuali flessibili"

… “Nell’ambito della nozione di ‘raffreddamento’ del conflitto occorrono decisioni più coraggiose sulla "rarefazione oggettiva" (adeguati intervalli tra uno sciopero e l’altro) e l’istitutuzione del referendum come condizione per la legittima proclamazione dello sciopero. Si possono sperimentare forme di sciopero virtuale e/o solidale, che non produca la sospensione o l’interruzione del pubblico servizio ma la devoluzione del corrispondente sacrificio economico ad un fondo gestito bilateralmente dai lavoratori e dall’ Azienda”.

… “La contrattazione collettiva è rimasta fortemente centralizzata. Il riferimento all’inflazione programmata previsto dall’accordo del 1993 (con il principio di non automatico recupero dell’ inflazione passata dovendosi tenere conto delle eventuali origini esterne al sistema produttivo), ha contrastato il rischio di spirali inflazionistiche. La contrattazione collettiva ha però caratteristiche inadatte ad assicurare la flessibilità della struttura salariale. Essa produce norme inderogabili che escludono la libera pattuizione individuale e non lascia alcuna flessibilità alle parti, se non in senso migliorativo per il lavoratore”

… “La recente riforma costituzionale assegna alle Regioni potestà legislativa concorrente in materia di "tutela e sicurezza del lavoro", "professioni", nonché "previdenza complementare e integrativa". La potestà legislativa delle Regioni riguarda quindi non soltanto il mercato del lavoro, bensì anche la regolazione dei rapporti di lavoro, quindi l’intero ordinamento del lavoro. Sarà così possibile realizzare differenziazioni regionali. Occorre proseguire su questa strada”

… “La crisi della giustizia del lavoro è dovuta sia ai tempi con cui vengono celebrati i processi, sia alla qualità professionale con cui sono rese le pronunce. Il Governo si propone di sperimentare interventi di collegi arbitrali già avanzata da più parti. Conferendo al collegio arbitrale, a proposito dell’ estinzione del rapporto di lavoro indeterminato, la possibilità di optare per la reintegrazione o per il risarcimento. L’impugnabilità del lodo arbitrale può essere proposta solo per vizi di procedura. L’attuale ordinamento giuridico del lavoro ( cioè l’art. 28 ) protegge troppo gli insiders (occupati) a scapito degli outsiders ( in ricerca di occupazione).

… “E’ urgente, una massima semplificazione delle procedure di collocamento attraverso la competizione tra strutture pubbliche e private. Alla funzione pubblica vanno affidare residue attività (anagrafe, scheda professionale, controllo dello stato di disoccupazione involontaria e della sua durata, azioni di sistema) mentre vanno affidate al libero mercato le attività di servizio. Il Governo valuta positivamente l’esperienza del patto per il lavoro realizzata dal Comune di Milano con un’intesa fra le parti sociali”.

… “Occorre ridurre le uscite dal mercato del lavoro e elevare il grado di partecipazione degli anziani. I lavoratori anziani non applicandosi a loro il sistema contributivo che basa il calcolo dei trattamenti pensionistici sull’intera vita lavorativa e non solo sugli ultimi anni di contribuzione, non sono incentivati a proseguire l’attività lavorativa, passando magari a rapporti di lavoro a tempo parziale. A loro rimane accessibile solo il canale delle pensioni d’anzianità. Inoltre i meccanismi di flessibilità all’ingresso, caratterizzati da un minore peso contributivo per le aziende, non sono operanti nel caso dei soggetti più anziani. Ciò ha contribuito a favorire uno spostamento della domanda di lavoro verso le nuove generazioni”.


Come si vede, i principi ispiratori del Libro bianco propongono una vera e propria rivoluzione normativa e contrattuale. Un salto di qualità rispetto al piano delle concessioni avviate dai precedenti Governi di centro sinistra alle richieste del Capitale.
Il Libro bianco si presenta come una piattaforma generale ed organica per un nuovo modello sociale nel quale il Lavoro viene totalmente subordinato alle necessità dell’impresa e del mercato. E’ da questo impianto generale che parte l’affondo al precedente quadro normativo, per liberarlo definitivamente dalle ambiguità e per arrivare a rendere disponibile sul mercato la Forza lavoro nelle condizioni di utilizzo che il Capitale rivendica.

Le prime iniziative del Governo Berlusconi già vanno spedite in questa direzione:

Infatti, col decreto legislativo n. 368 del 6 settembre 2001 sul lavoro a tempo determinato si prefigura una modificazione di vaste proporzioni dei principi lavoristici del diritto italiano. La costituzione del rapporto di lavoro subordinato potrebbe normalmente essere a tempo determinato, anziché a tempo indeterminato, in una generalità di casi. Rimane una sorta di vincolo al carattere eccezionale del ricorso ma la casistica viene significatamene ampliata oltre a quella prevista dalla Legge Treu del 1997.

Ma la realizzazione dello scenario prefigurato dal “Libro bianco” prevede, nella politica del Governo Berlusconi, anche l’indebolimento del sindacato. Un indebolimento che, a seguito della firma separata sul “Patto per l’Italia” del 5 luglio 2002, prevede il coinvolgimento di Cisl e Uil in un patto di partecipazione alla gestione del mutamento normativo (legislativo e contrattuale) e l’isolamento della Cgil.

5 luglio 2002 – Con la firma del “patto per l’Italia”, Cisl e Uil sposano nella sostanza una linea che mette al centro degli interventi necessari alla ripresa economica la flessibilità del mercato del lavoro.
Tra le altre cose, preoccupante è il riferimento al “nuovo quadro istituzionale definito dal rinnovato Titolo V della Costituzione”. Per quanto non se ne traggano conseguenze esplicite, si allude evidentemente ad una possibile differenziazione su base territoriale del sistema degli ammortizzatori. Si configura la confluenza in un non meglio definito livello di “protezione integrativa, aggiuntiva o sostitutiva, liberamente concordata fra le parti sociali ai più vari livelli, con prestazione autofinanziata e gestita da organismi bilaterali di natura privatistica” .
Dunque si prevede anche il superamento del sistema fino ad ora conosciuto di cassa integrazione (ordinaria e speciale) e delle relative procedure.

L’impianto generale del “Patto” agisce nella sostanza, in ogni sua parte, per uno svuotamento della centralità della contrattazione come strumento e della partecipazione dei lavoratori alle decisioni come metodo.
Con il Patto si sancisce di fatto l’estromissione di tutta una serie di questioni legate agli interventi sull’occupazione e sul mercato del lavoro dall’autonoma contrattazione sindacale, che viene praticamente superata con il passaggio ai tavoli “bilaterali” i quali si costituiscono “a priori” su obiettivi generali già concordati, con l’impegno ad agire in coerenza a questi obiettivi.
Di fatto è lo svuotamento della stessa politica contrattuale concertativa a favore di un modello più orientato verso un raporto neocorporativo tra le parti.

La Cgil si oppone a questa deriva neocorporativa, riproponendo la bontà dell’impianto concertativi. Iniziano mesi di lotta e di accordi separati che mettono in gioco le stesse relazioni sindacali.
Forte della situazione venutasi a creare con la spaccatura sindacale, il Governo procede nell’emenazione delle leggi che danno forrma e sostanza ai principi già anunciati nel Libro Bianco sl lavoro.

8 aprile 2003Legge 66 “su taluni aspetti che concernono l’organizzazione dell’orario di lavoro” - Il testo abroga la precedente legislazione in materia di orario di lavoro, in particolare su lavoro straordinario e notturno. Nella legge la normativa sul lavoro straordinario e notturno viene peggiorata azzerando ogni possibilità di reale controllo da parte degli organi ispettivi, determinando così una sostanziale deregolamentazione del sistema degli orari. Il Governo procede, come è già accaduto con la legge 368/01 sul lavoro a tempo determinato, ad un mutamento surrettizio del modello contrattuale, con il progressivo indebolimento dei Contratti Collettivi. E' esplicito, infatti, nella legge, che le norme oggi contenute nei vari CCNL cessano di avere efficacia alla loro scadenza. Nel caso dei Contratti già scaduti tali norme restano valide solo fino al 31.12.2004.

E’ del 14 febbraio 2003 infine l’approvazione da parte del Senato della legge 30 (Delega al Governo per la revisione della disciplina dei servizi pubblici e privati per l'impiego, nonché in materia di intermediazione e interposizione privata nella somministrazione di lavoro) che trova poi sostanza nelle norme attuative della legge emanate con decreto legislativo del 31 lugio 2003.
La forza della Legge 30 sta nel fatto che il lavoro a tempo indeterminato non è più la condizione normale del rapporto di lavoro.
Il mercato del lavoro viene di fatto ridotto ad una specie di menù, dal quale il Capitalista (ma anche l’ente pubblico) sceglie la forza lavoro che gli serve, per il tempo che gli serve, tra le varie possibilità e tipologie che la legge propone.
Vengono a meno tutti i i vincoli, e la stessa struttura normativa dei Contratti nazionali viene di fatto smantellata. Di fronte a questa Legge o si accetta che i contratti vengano modificati o il Governo potrà intervenire per decreto rendendo quindi inutile e superflua l’esistenza delle stesse regolamentazioni contrattuali su questa materia.
La legge 30, congiuntamente al disegno di legge collegato alla delega 848/bis in materia di licenziamenti e controversie di lavoro, rappresenta quindi la liquidazione di tutto il quadro normativo precedente e l’affermazione di un punto di vista dove la precarietà occupazionale, salariale e previdenziale diventa regime.
Rendendo il ricorso al lavoro temporaneo e precario condizione “normale” del rapporto di lavoro, si producono così anche le condizioni per una diffusa precarietà sociale che si fonda sulla sempre maggiore precarietà nelle aspettative salariali e previdenziali di sempre maggiori quote di Forza Lavoro.
E’ l’insieme del modello sociale che viene deformato da questa legge.

La campagna di autunno 2003

Al di la delle questioni di merito particolare (salario, pensioni, mercato del lavoro) su cui dovremo comunque prestare massima attenzione, l’elemento che dobbiamo preoccuparci di fare emergere è il carattere generale e politico dell’offensiva liberista (che investe non solo la sfera lavorativa ma l’intero modello di società).

La battaglia del Capitale per l’affermazione della totale condizione di precarietà della Forza lavoro sul mercato non si esaurisce con la Legge 30. Anzi la Legge 30, se attuata, rappresenterà il grimaldello (come successe con la 223 del 1991) per modificare l’intero quadro normativo e contrattuale, adeguandolo al nuovo quadro di subordinazione del lavoro al Capitale che il novo mercato globalizzato richiede.
Già ora la struttura contrattuale è sotto attacco (vedi Fiom), e già ora i risultati contrattuali di diverse categorie sindacali si sono piegati ad accogliere ed a normare la soluzione a diversi problemi posti dalle imprese. La stessa Legge 30 fa capolino in diversi di questi accordi.
Ma la manomissione definitiva del quadro contrattuale è posta nell’ordine del giorno della prossima verifica del 23 luglio. Una verifica che ancora non è avviata formalmente (anche se dibattiti e disponibilità cominciano ad aprirsi) soprattutto per via dell’ostilità Cgil a concedere ruolo e risultati a questo Governo.
Una manomissione contrattuale che si accompagna ad un dibattito preoccupante sulla natura stessa del sindacato.
Già con il Patto per l’Italia firmato da Cisl e Uil, fino alla firma separata del CCNL Meccanici è ormai posta all’ordine del giorno la questione del superamento della Concertazione e la sua evoluzione verso forme di stampo neo corporativo.

11 ottobre 2003

Coordinamento RSU

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