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Dignità operaia

Dignità operaia

(9 Marzo 2012) Enzo Apicella
Oggi sciopero generale dei metalmeccanici convocato dalla Fiom e manifestazione nazionale a Roma

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(Per un sindacato di classe)

Il grande assente

(22 Ottobre 2010)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

La manifestazione della Fiom è stata accolta con grida di giubilo da moltissimi militanti, e citiamo come esempio un brano di un articolo di Pietro Ancona: “E' stato come ritrovare me stesso, la mia storia, la storia del movimento operaio italiano e della sua straordinaria civile combattività dopo anni di smarrimento, di sofferenza, di sconfitte. Allora non è vero che la classe operaia è scomparsa! Non è vero che non esisteva più, non aveva più identità, non era più la classe generale di cui parlavano i nostri padri capaci di guidare un movimento non solo di lotte di resistenza ma anche di trasformazione della società in senso socialista...”(1)

Questo è vero nel senso che i lavoratori sono ancora disposti a battersi, a rinnovare le gloriose lotte del passato, ma il problema della direzione politica e sindacale non è affatto risolto. Certamente, sono stati ridicolizzati gli uccelli del malaugurio, Maroni, che parlava di manifestazione “a rischio elevato”, di “gruppetti stranieri pronti ad infiltrarsi”, e il funereo Sacconi, che si aspettava ci scappasse il morto. Accanto al reato di molestie sessuali, bisognerebbe istituire quello di “molestie sindacali”, contro quei dirigenti politici, verdi dalla bile, che vedono in ogni manifestazione dei lavoratori un pericolo per la loro traballante credibilità.

Ma, perché la lotta dei lavoratori si sviluppi effettivamente, occorre sgombrare il campo da ostacoli giganteschi, a cominciare dai dirigenti concertatori, che non sono soltanto in Cisl e Uil, ma nella stessa CGIL, e costituiscono un freno potente per la lotta. Il problema è ben sintetizzato in un articolo di Truman Burbank, in cui c’è il presentimento di un’esplosione sociale: “Il sindacato virtualizza lo scontro di classe, sostituendo la lotta sindacale al conflitto reale tra classi diverse. La virtualizzazione dei conflitti porta vantaggi ad ambedue le parti in causa, almeno inizialmente. Nel caso si riuscisse a cancellare il conflitto virtuale riemergerebbe il conflitto reale. Oggi la CGIL ancora trattiene energie disponibili per il conflitto reale, immobilizzandole nella recita sindacale. Essa, più di CISL e UIL, tiene chiuso il vaso di Pandora. E’ cosciente la Cgil di ciò? Ha intenzione di continuare così? E, indipendentemente dalle volontà della CGIL, se anch’essa venisse neutralizzata, come già fatto con CISL e UIL, quanto ci vorrà prima che la tensione sociale esploda incontrollabile?”.(2)

Effettivamente, mentre Cisl e Uil non hanno credibilità tra i settori più combattivi dei lavoratori – e non molta ne ha la stessa CGIL ufficiale – mentre è ancora molto seguita la Fiom, anche se Landini si è detto disponibile ad accettare per Pomigliano i turni massacranti. Ma non potrà a lungo mantenere la lotta nell’ambito asfittico indicato dal cartello: "Lavoro, legalità, dignità'". Legalità, in un paese in cui si continua a introdurre nuove leggi contro i lavoratori – si pensi ad es. all’arbitrato - è sinonimo di rassegnazione.

Alla manifestazione hanno partecipato molti gruppi e partitini, ma nessuno di loro, indipendentemente dalla loro volontà e dalle loro posizioni politiche specifiche, ha la forza per influenzare il sindacato. Condiziona, invece, le posizioni della CGIL il PD, un partito borghese al 100%. La manifestazione si è, perciò, svolta sulla base delle più comuni parole d’ordine della democrazia borghese, come la difesa della costituzione e di una generica libertà di sciopero, regolato da leggi forcaiole sul preavviso.

Molti pensano che sia possibile formare un sindacato di classe a sinistra della CGIL. E’ un’illusione; potrà anche formarsi un sindacato più combattivo, più attento agli interessi dei lavoratori che rappresenta, ma non un sindacato di classe, se prima non si forma il partito rivoluzionario che, nella situazione attuale, è il grande assente. Si può parlare di lotta di classe in senso pieno quando il partito politico dei lavoratori, basandosi su una complessa rete di sezioni locali, riesce ad unificare e affasciare le forze dei salariati – che altrimenti si disperderebbero in mille lotte locali o di categoria - almeno a livello nazionale. E si può parlare di sindacato di classe soltanto quando questo è permeato e ispirato dal partito rivoluzionario, come avvenne con la Socialdemocrazia tedesca dei tempi migliori e col bolscevismo sotto la guida di Lenin.

Questo è facilmente comprensibile per chi riflette sulla natura del partito o del sindacato. Un partito comunista deve essere composto da militanti che condividono fini, teoria, programma, principi, e che sono in grado di trovare un accordo sulla tattica. Riassumendo, potremmo dire che il fine è il comunismo, la società in cui non esistono più differenze di classe, dove è eliminata la schiavitù salariale e la stessa forma salariale. La teoria comprende la storia della società, il materialismo storico, la successione delle forme di produzione, l’analisi economica, ecc. I principi sono la dittatura del proletariato e l’uso della costrizione statale per impedire il ritorno al potere della borghesia. Mentre i fini dei comunisti coincidono con quelli degli anarchici, sui principi c’è una frattura incolmabile. Il programma riguarda l’azione pratica nella fase storica in corso, le questioni tattiche sono quelle che possono ammettere più soluzioni - che non siano in contrasto con teoria, principi, programma...- la scelta non deve essere affidata all’inventiva o all’intuizione dei dirigenti, ma essere frutto di un bilancio compiuto dall’intero partito.(3) Questi sono i punti di forza di un vero partito comunista, che lo differenziano dalle socialdemocrazie, dai fautori del “socialismo mercantile”, stalinisti compresi, dai partiti operaisti, o dai laburisti, che hanno programmi di sinistra liberale.

Non è possibile, per stabilire l’orientamento della classe, basarsi sull’opinione della maggioranza dei lavoratori. Si sa che il dominio della borghesia si estende anche al campo della cultura, della formazione, della stampa, dei media. La stragrande maggioranza non ha il tempo e l’occasione di darsi un’autentica formazione politica. Il sindacato recluta gli iscritti sulla base delle categorie professionali, e questo non può certo garantire una posizione politica unitaria, o escludere influenze borghesi o piccolo borghesi. Un caso per tutti: quanti sono gli iscritti alla CGIL, e persino dei sindacati di base, che votano Lega? La maggioranza delle famiglie italiane vivono di salario o stipendio, e sono numerosi i disoccupati, eppure le borghesia governa con la maggioranza, e nell’attuale situazione, in parlamento non c’è neppure un partito che possa dire di rappresentare i lavoratori.

La storia dimostra che, quando manca il partito di classe, o è debole e sottomesso ai dirigenti sindacali o ai riformisti, non è possibile ottenere risultati positivi, neppure in presenza di lotte gigantesche. Come in tempi in cui il sindacato non era ancora integrato nello stato come ai giorni nostri, e le lotte operaie e dei braccianti agricoli scuotevano la penisola, nel periodo antecedente al fascismo. Due dei numerosi esempi di subordinazione del partito nei confronti del gruppo parlamentare e del sindacato: nel novembre 1919, il Partito Socialista ottenne il successo elettorale con 156 seggi, rivelandosi il più grande partito italiano. La Direzione era nelle mani dei massimalisti e il programma elettorale sovrabbondava di frasi come questa: “Tutto il potere al proletariato, radunato nei suoi Consigli!” “Viva la repubblica socialista!”. Tra gli eletti, tuttavia, la guida era in mani riformiste. Il gruppo parlamentare, nel quadro della lotta contro le istituzioni monarchiche, lasciò l’aula al momento del discorso della Corona, il 1° dicembre, al grido di “Viva la Repubblica Socialista”. Davanti a Montecitorio, un gruppo di ufficiali e studenti nazionalisti aggredì i deputati. Direzione politica e sindacato dichiararono lo sciopero, che in molte località era già esploso spontaneamente, non appena la voce si era sparsa. Ci furono scontri con la forza pubblica, morti e feriti. Era uno sciopero politico, quindi era indispensabile che la direzione del partito lo guidasse, non certo il sindacato, e tanto meno il gruppo parlamentare. Invece il 3 dicembre i lavoratori appresero dal parlamentare Treves che lo sciopero indetto per protesta era stato revocato, e il suo discorso pacifista fu lodato da Nitti: “Pur nel dissenso legittimo, nessuna parola poteva giungere più opportuna di quella dell’on. Treves. Essa è stata parola di serenità e di pace.” Nella “Critica Sociale” (1–15 dicembre), sempre Treves scrisse: “In questo momento che la direzione del partito... praticamente non esiste più , tutte le responsabilità si assommano nel gruppo (parlamentare), il quale mal provvederebbe a se stesso se... si lasciasse indurre a sabotare il parlamento, mentre ogni altra forma più democratica e più di classe è ancora lontana, anzi non si delinea neppure all’orizzonte”.(4) Ai soviet, alla repubblica socialista, in nome della quale i parlamentari socialisti erano usciti dall’aula pochi giorni prima, si accennava ormai solo come a una vaghissima possibilità.

Una prova definitiva dell’abdicazione del PSI: durante l’occupazione delle fabbriche, la Camera del Lavoro di Milano chiese la convocazione degli “Stati generali del proletariato”, cioè dei rappresentanti delle Camere del Lavoro, dei dirigenti della CGL e del PSI. La riunione si tenne nei giorni 4 e 5 settembre 1920, a Milano. I dirigenti confederali, in piena intesa con i riformisti, sostenevano che la questione aveva un carattere squisitamente sindacale. Buozzi disse che “con un buon concordato la si potrebbe risolvere”, e che i metallurgici potevano andare avanti da soli. La sinistra massimalista invocava l’estensione generale del movimento, e la sua politicizzazione. Il segretario della CGL D’Aragona, non solo parlò del controllo sindacale dell’industria, ma anche della rivoluzione (le parole sovversive non costano niente!): la rivoluzione in Italia “è spiritualmente preparata, la borghesia ne è mezza convinta; il soldato andrà col più forte. Ma il dilemma è nelle materie prime; entro 15 giorni non ci sarà più il carbone, indi chiusa la produzione... Vogliamo fare la rivoluzione nel mentre ci troviamo di già fra le difficoltà presentateci dalla semplice presa di possesso degli stabilimenti?” “Io non mi sento di assumere delle responsabilità che si risolverebbero nel massacro del popolo, e me ne vado anche perché sento che per dirigere occorre la maggiore disciplina e mi accorgo che questo manca in voi”. D’Aragona non si oppose direttamente ai massimalisti, ma li giocò abilmente con la minaccia, destinata a rimanere tale, delle dimissioni. Il comunicato congiunto del giorno successivo, nonostante citasse persino la socializzazione di ogni forma di produzione, in realtà auspicava la ripresa delle trattative. In altra sede si svolgevano i contatti tra governo, sindacati, Turati e Treves, e i capitalisti “moderati” tra cui Agnelli. Il governo temeva che l’intransigenza della maggioranza degli industriali provocasse la guerra civile. Il 9 settembre, il segretario del PSI (in quel momento Gennari), visto che gli industriali non cedevano, e che gli operai non potevano abbandonare lo scontro in assenza di risultati, dichiarò che la lotta aveva assunto un carattere eminentemente politico, e quindi la direzione del partito avocava a sé “la responsabilità e la direzione del movimento, estendendolo a tutto il paese e all’intera massa proletaria”. Invitò il gruppo parlamentare e la Confederazione a dare esecuzione ai deliberati della direzione. Gennari illustrò un piano rivoluzionario, che partendo dall’occupazione permanente delle fabbriche, delle miniere, delle terre, come reale presa di possesso, giungesse alla costituzione dei soviet, che dovevano sostituire i municipi. Il partito, esperto nelle contese elettorali, era assolutamente impreparato a queste azioni, che comportavano uno scontro con uno stato armato fino a denti, ma la cosa più assurda fu che tale piano venne sottoposto al voto del vertice sindacale. Il partito, che avrebbe dovuto dirigere la lotta di classe, affidò la decisione finale al Consiglio nazionale della CGL! Naturalmente il consiglio votò la mozione D’Aragona, che assegnava la direzione del movimento alla CGL, con l’ausilio del Partito Socialista. Gennari dichiarò che, secondo il patto di alleanze, quando vi era una divergenza politica tra sindacato e la direzione del partito, quest’ultima poteva avocare a sé la direzione del movimento, ma “In questo momento la direzione del partito non intende avvalersi di tale facoltà...”(5) Era l’abdicazione, in uno dei momenti più determinanti della lotta del dopoguerra. Questi cedimenti saranno motivo di riflessione per molti militanti, compresi i seguaci di “Ordine Nuovo”, che nel congresso di Bologna avevano votato per i massimalisti. Cominciarono ad abbandonare il mito dell’unità del partito e ad avvicinarsi alle posizioni de “Il Soviet” e di Bordiga, che da tempo proponevano la scissione e la formazione del partito comunista. Ma la nascita di quel partito - un modello di combattività marxista, come lo definì l’Internazionale - sorse tragicamente in ritardo, quando le nodali lotte del primo dopoguerra erano state sabotate e disfatte dal collaborazionismo dei riformisti e dall’incapacità parolaia dei massimalisti, mentre la borghesia liberale e quella fascista, unite nella lotta antiproletaria, si apprestavano a distruggere le organizzazioni operaie, rivoluzionarie o riformiste, sindacali o cooperative.

Oggi, leggi antisociali, come ad esempio il collegato lavoro o lo statuto del lavoro, sono soltanto aspetti dell’imbavagliamento della classe operaia, alla quale si toglie sempre più ogni agibilità politica e sindacale, mentre Maroni si esercita, contro i pastori sardi e le madri vulcaniche della Campania, in quell’azione repressiva, che sarà sempre più all’ordine del giorno, se non sapremo sviluppare un’opposizione reale.

Il partito di classe potrà nascere per la spinta dei giovani, di quelle generazioni che vedono davanti a sé soltanto un avvenire senza prospettive, di disoccupazione o di precariato. I più anziani, quelli non ancora logorati, che non hanno ceduto allo scetticismo, potranno fungere da memoria storica.

Nel Partito Comunista d’Italia raramente i dirigenti superavano i trent’anni, e quasi tutta la Federazione giovanile li seguì. Pochi gli intellettuali, erano in grande maggioranza salariati puri. Allora fu necessario rompere con i riformisti e con i massimalisti, persino con gloriosi militanti che avevano lottato contro la guerra, ma non capivano l’esigenza della rottura con l’ala destra del PSI. Una rottura ancora più profonda occorre oggi, contro chi ha collaborato con partiti e governi borghesi. Sarebbe oggi un errore fatale, ad esempio, non escludere fin dall’inizio quei dirigenti e parlamentari che per salvare, non la “patria in pericolo”, ma il loro seggio ministeriale o parlamentare, hanno votato per le sedicenti “spedizioni di pace”.

Michele Basso

21 ottobre 2010

Note

1) Pietro Ancona: “La classe operaia è viva”, 17 ottobre 2010.

2) Truman Burbank (http://trumanb.blogspot.com/), Fonte: www.comedonchisciotte.org, 17.10.2010

3) Lenin, III Congresso dell’Internazionale Comunista, “Discorso in difesa della tattica dell’Internazionale Comunista”, 1° luglio 1921. Un esempio di divergenza tattica: al II Congresso dell’Internazionale Comunista si discusse se, per combattere il parlamentarismo borghese, era necessario uscire dal parlamento, o lo si poteva fare dall’interno mediante il parlamentarismo rivoluzionario. Dopo che si fu discusso e si fu accolta la seconda soluzione, anche chi era contrario dovette attenersi alla soluzione tattica stabilita.

4) Le citazioni e le annotazioni storiche sono tratte da “Storia della Sinistra Comunista, vol. II, 1919 -.1920, cap. V, “Massimalismo alla deriva e battaglia della Sinistra”, edizione “Il programma comunista”. Chi cerca una lettura più facile, anche se meno approfondita, veda Luigi Cortesi, “Le origini del PCI ”, Cap. 5, “Il “massimalismo elettorale” e il fallimento del problema del potere nel dopoguerra”. “Le lezioni del dicembre 1919”.

5) “Storia della Sinistra Comunista”cit.,, vol. III, capitolo II, “L’occupazione: prima fase” e “La svolta”.

Michele Basso

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