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Terzigno

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(22 Ottobre 2010) Enzo Apicella
Continua la rivolta popolare a Terzigno contro l'apertura di una nuova discarica nel Parco del Vesuvio

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    "GRAND AMERICA", NUOVO CASO PER LA PATTUMIERA AFRICANA

    Dalla Nigeria, un esempio di come Stati Uniti ed Europa sommergono l'Africa di rifiuti pericolosi.

    (26 Ottobre 2010)

    Montagne di tastiere e schermi rotti, vecchi computer, persino televisioni in bianco e nero. È questo il misterioso carico che la “Grand America” ha lasciato sulla banchina di Tin Can Island prima di ripartire verso nord, nella notte tra sabato 16 e domenica 17 ottobre. Dell’ispezione di quei sette container lasciati in porto con il permesso di chissà chi racconta alla MISNA Sule Oyofo, un dirigente della “Nigerian Environmental Standards and Regulations Enforcement Agency (Nesrea)”. È un organismo nato alla fine degli anni ’80, dopo uno dei casi più tragici e clamorosi nella storia della pattumiera africana: sulla spiaggia di Koko, nel cuore del Delta del Niger, erano state lasciate 3500 tonnellate di rifiuti tossici dell’industria “made in Italy”. Alla MISNA dicono che questa volta, almeno, c’è stata una multa. Non per la “Grand America”, ripartita con il favore della notte e forse la complicità di qualche funzionario, ma per la “MV Veradin”, un cargo arrivato sulle coste della Nigeria meridionale da New York dopo aver fatto scalo in Spagna. Anche in questo caso il carico era illegale e pericoloso sia per la salute umana che per l’ambiente. Nei container c’erano i tubi catodici con il piombo e l’arsenico e c’erano i vecchi pc con il mercurio, il nickel e il cadmio. Sono gli stessi veleni che nel 2005 avevano spinto a una prima denuncia Basel Action Network (Ban), un’organizzazione non governativa con sede negli Stati Uniti che si batte per il rispetto della Convenzione di Basilea contro il traffico di rifiuti pericolosi. “In un solo mese – ricorda Jim Puckett, il direttore di questa ong – nello Stato di Lagos arrivarono 400 container di spazzatura elettronica, quasi tutti provenienti da Nord America ed Europa”. La logica di questo commercio è semplice: nei paesi ricchi rottamare un computer costa, mentre se lo si porta in Nigeria, Ghana o Camerun si fanno soldi a palate e magari pure beneficenza. “I veri colpevoli – sostiene Puckett - sono gli esportatori: incassano tariffe milionarie per il servizio, ‘esternalizzando’ costi umani e danni ambientali”. Paradosso nel paradosso, questi traffici sono spesso giustificati con l’esigenza di ridurre il “divario digitale” che taglia il mondo in due. Come dire, ti do computer di seconda mano per aiutarti, ma poi eludo i controlli e i cargo li riempio di spazzatura elettronica. A porre un freno si è provato più volte, nel 1989 con la Convenzione di Basilea che chiede condanne penali per i trafficanti e nel 1995 con un divieto sull’esportazione dei rifiuti pericolosi recepito anche dall’Unione Europea (UE). Ma gli Stati Uniti, il primo paese al mondo per consumo di tecnologie, non hanno mai firmato la Convenzione. “Poi – aggiunge Puckett – c’è il problema dei controlli: nei grandi scali, da Rotterdam a Lagos, verificare tutti i carichi in partenza e in arrivo è impossibile sia per le società navali che per le autorità portuali”.[VG]

    Misna-Missionary International service news agency

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