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(29 Gennaio 2012) Enzo Apicella

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Firenze: 7 anni di condanna per aver protestato contro la guerra in Jugoslavia

(4 Novembre 2010)

Copertina dossier

IL CONTESTO E I FATTI

7 anni per una manifestazione sembrano davvero molti. Siamo convinti che nessuno dei partecipanti al corteo contro l’aggressione alla Jugoslavia, avrebbe pensato che quanto successo sotto il Consolato Usa il 13 Maggio 1999 sarebbe costato tanto. Non era ancora sotto gli occhi di tutti cosa vuole dire essere un paese in guerra, quale tipo di gestione delle contraddizioni, che questa condizione genera, si rende “necessaria” da parte dello stato.

Come si evolve il concetto di sicurezza, come si “rimodula” ciò che normalmente viene definito il diritto di manifestare, quale è la soglia che si determina tra il consentito e il non, all’interno della definizione di un ulteriore fronte di guerra oramai assunto da tutti come fronte interno.

Sono passati oltre 10 anni da quel Marzo del 1999 quando le forze della Nato iniziarono i loro bombardamenti sulla Jugoslavia, in nome della difesa del Kosovo e dei suoi abitanti. O meglio di una parte di essi, di quella parte che negli anni a seguire si renderà protagonista dell’espulsione e l’accerchiamento della popolazione non albanese presente su quel territorio. Non può sfuggire ad oggi quanto anche i media, soggetto non estraneo alla politica di guerra, abbiano una funzione fondamentale nel creare le condizioni di consenso all’intervento militare, alla sua definizione di missioni di pace. Un abile preparazione mediatica stravolge la realtà fino a farla diventare vera nel pensiero comune.

Una guerra a cui, per la prima volta, partecipa a pieno titolo l’Italia, non più anello debole della catena imperialista, ma alla ricerca di un suo protagonismo, di un trampolino di lancio che la vedrà protagonista nelle future missioni di guerra Afghanistan, Iraq, contro la cosiddetta pirateria, ecc..

Ma fu anche la guerra del centro sinistra, del governo D’Alema, quel governo che avrebbe dovuto rappresentare, nel pensiero di molti, una inversione di tendenza rispetto ai precedenti governi berlusconi. Niente di più illusorio e falso.

Dall’inizio dei bombardamenti in Italia si sviluppò un ampio movimento di opposizione all’intervento in Jugoslavia. Le bombe su Belgrado, sulle fabbriche che gli operai continuavano a difendere come “scudi umani”, le immagini dei morti straziati, scatenavano in molti la voglia, la comprensione che era necessario non rimanere complici di un governo, di un paese che vedeva nella guerra la soluzione o meglio questa come parte delle forme con cui salvaguardare o sviluppare i propri interessi economici e politici nel mondo.

Le forme della protesta riguardavano vari livelli. Aspetto non di poco conto quanto riguarda le forme più o meno alte di attacco verso le sedi DS a cui molti attribuirono, giustamente, la responsabilità di aver buttato nel cesso anche l’ultimo principio a cui la cosiddetta sinistra nostrana poteva dire fino ad allora di far riferimento.

CGIL, CISL e UIL, operavano una opposizione di facciata attraverso il sostegno alla Missione Arcobaleno, l’esempio di quello che nella nuova strategia di guerra rappresenta l’intervento civile affiancato a quello militare. Portare “conforto” alle popolazioni vittime dei bombardamenti, dirottare il sentimento del dover fare qualcosa da parte di chi si vede contrario all’intervento militare. Ma possiamo anche dire il primo esempio di quello che può essere la madre degli scandali, dello scempio vergognoso di cui si è resa protagonista negli anni a seguire la Protezione (In)Civile di Bertolaso.

Dentro questo panorama il sindacalismo di base colse la giusta richiesta di arrivare ad uno sciopero generale che segnasse un punto fermo nella volontà di opporsi a questa guerra, di portare la propria solidarietà umana e politica.

Il 13 Maggio 1999, oltre ogni previsione, gran parte dei lavoratori scioperarono e si riversarono nei cortei che si svolsero in numerose città italiane.

A Firenze oltre 3000 persone parteciparono al corteo che come le previsioni si concluse in prossimità del Consolato Usa. Niente di particolare evvenne in quel luogo, se non che come succede normalmente un certo numero di partecipanti desse un occhio alle mosse degli onnipresenti sbirri.

La volontà di appendere una bandiera verso il consolato scatenò la reazione di polizia e carabinieri, che provocò numerosi feriti tra i presenti, lacrimogeni sparati ad altezza uomo, un fuggi fuggi da parte di numerosi dei presenti che niente di questo tipo si aspettavano. E’ logico che in quel momento fu fatto il possibile per rispondere alla carica e forse questo ha consentito che altri non fossero feriti. Certo non si può rallegrarsi di non essere riusciti ad evitare le manganellate o i colpi inferti con i manici di fucile ai manifestanti, o i colpi inferti a ragazzi caduti a terra, ma niente faceva prevedere che in quella occasione sarebbe successo quanto abbiamo visto.

Forse per il Dott. Luperi, contraddistintosi per le false molotov a Genova e le violenze alla Diaz era un banco di prova, ma in quel momento quello che avremmo visto in seguito a Napoli e a Genova poteva essere solo teorizzato dentro un inasprimento della repressione in uno stato in guerra.

Fu naturale per i manifestanti che l’immediata reazione portasse ad individuare come obiettivo coloro che vennero ritenuti, e continuano ad esserlo, i responsabili di quelle cariche: il partito dei DS.

Una grossa parte dei manifestanti partirono in corteo verso la sede DS che venne occupata denunciando quanto accaduto.

REPRESSIONE E CAMPAGNA MEDIATICA

Il clima di caccia alle streghe verso il movimento contro la guerra aveva già dato le prime avvisaglie.

Il 1 Maggio a Torino in occasione della tradizionale manifestazione sindacale alcuni esponenti del movimento contro la guerra che decisero di contestare l’atteggiamento confederale verso l’aggressione in Jugoslavia, definita una “necessità contingente”, furono pesantemente caricati. Se questo non bastasse polizia e carabinieri pensarono immediatamente di scatenare l’ondata repressiva verso il Centro Sociale Askatasuna. Le forze dell’ordine penetrarono al suo interno sfasciando computer e oggetti, mettendo a soqquadro il centro.

Nei giorni successivi ai fatti sotto il consolato si scatenò la campagna mediatica, solertemente orchestrata dalle veline della questura. Guerriglia, scontri preordinati e ben preparati, tentativi di assalto al consolato, infiltrati professionisti dei disordini, furono solo alcuni dei titoli che potevamo “ammirare” sulle prime pagine.

A niente servì il video girato da un cineamatore che testimoniava quanto realmente avvenuto, le cariche a freddo, i feriti e altro.

La verità doveva essere occultata tanto da intimidire anche gli eventuali testimoni, come nel caso del pastore della chiesa americana che dopo una prima dichiarazione nella quale affermava di aver visto la realtà delle cose e di essere in possesso di ulteriore materiale di prova, non solo dopo un primo contatto si negò più volte, ma addirittura diventò per noi irreperibile.

Questo fu solo il primo atto. Con la ripresa dell’attività delle organizzazioni combattenti il clima di caccia alle streghe si fece ancor più pesante. In un clima di chiara ambiguità in modo tale da far “coincidere” i due contesti, mobilitazioni contro la guerra e ripresa dell’attività combattente in Italia, furono operate perquisizioni ai danni di esponenti conosciuti del movimento contro la guerra e del sindacalismo di base. Una operazione ben orchestrata per cercare di rendere ancora più torbida la ricerca della verità sui fatti avvenuti sotto il consolato.

Niente emerse dalle perquisizioni ma questo fu sufficiente per creare il clima ideale che caratterizzerà l’andamento del processo stesso.

Un filo rosso lega il CPA Fi Sud a Ira e Eta, maestri di guerriglia all’interno delle organizzazioni del sindacalismo di base, nuovi e vecchi militanti inseriti in un presunto comune disegno criminoso teso a ricostruire le basi della guerriglia in Italia. Questo l’ulteriore passaggio nella campagna mediatica successiva alle mobilitazioni. Panorama si contraddistinse per la solerzia con cui furono ben assemblate le veline della questura.

Anche il processo doveva mantenersi all’interno di questa linea e va ritenuta parte di questa strategia la scelta di svolgere la prima udienza nell’aula bunker dove nel tempo si sono svolti i processi nei confronti dei/lle militanti delle Organizzazioni combattenti.

Il clima in cui si andrà a svolgere l’intera fase processuale di primo grado sarà contraddistinto da un lento ed inesorabile inasprimento della legislazione repressiva e della mano militare.

Come abbiamo già affermato un paese in guerra tende a creare un nuovo fronte di guerra anche al suo interno nei confronti di coloro che gli si oppongono.

Se da una parte è evidente la repressione militare poliziesca, non deve essere perso di vista quanto va a determinarsi sul piano della ristrutturazione dell’apparato repressivo stesso.

Basta solo ricordare quanto delineato dal pacchetto sicurezza varato dal governo D’Alema e dal riordino delle forze di polizia, i carabinieri come 4 arma dell’esercito, indipendente e con il doppio ruolo di forza militare e di controllo del territorio all’interno delle metropoli cosi come nelle zone di occupazione e guerra, la creazione dei corpi antisommossa, addestrati per mesi all’interno di Ponte Galeria per poi essere scatenati come bestie contro i manifestanti a Napoli e a Genova.

L’allargamento del 270 bis (ter, quater,quinques, …) stabilendo nuovi “confini” nella definizione dell’associazione sovversiva, sempre più elastici nel loro utilizzo verso strutture non facilmente individuabili nelle forme classiche di organizzazione.

Si va ad allargare, trovando la legittimità necessaria nei fatti dell’11 settembre, ciò che viene valutata “condotta terroristica”, escludendo anche l’uso della violenza, ritenendo tale qualsiasi atteggiamento riconducibile alle pratiche stesse della dimensione di movimento.

Fino ad arrivare al decreto Pisanu nel quale con il 270 sexties si va a definire tale lo stesso impedimento a svolgere la propria attività decisionale degli organi istituzionali.

Sempre con il governo di centro sinistra si va a dare maggiori poteri all’azione giudiziaria, potendo intercettare, perquisire, pedinare senza l’autorizzazione del magistrato.

Quel copia e incolla che poi servirà come base per l’arresto e la persecuzione di numerosi appartenenti al movimento di classe e rivoluzionario con le inchieste per associazione sovversiva che si perpetueranno nel tempo.

Prendendo spunto da quanto già predisposto per gli eventi sportivi internazionali si procede ad una maggiore integrazione delle polizie a livello europeo in particolare per quanto riguarda la prevenzione e la repressione delle iniziative del movimento in occasione dei vertici delle organizzazioni economico, politico e finanziarie internazionali.

IL PROCESSO

E’ chiaro fin da subito quale sarà la strategia. Questo processo non è un processo per i fatti sotto il consolato, è il processo contro una parte del movimento fiorentino, è l’occasione per regolare il conto verso chi aveva osato negli anni creare una sorta di anomalia fiorentina, per gli anni di inchieste della procura fiorentina, ad opera dei vari Fleury e Chelazzi, che non erano mai riuscite ad ottenere risultati. Ma per fare ciò dovevano essere prima di tutto individuati i cattivi, estrapolati dal contesto delle mobilitazioni contro la guerra e inseriti nel perdurare di un loro disegno eversivo di cui gli stessi manifestanti erano praticamente vittime. Non più 45 gli imputati, ma 15, escludendo i delegati sindacali, i promotori, coloro che in qualche modo potevano rendere più difficile l’operazione. Dovevano rimanere i famosi esponenti dei centri sociali, professionisti della guerriglia e dei disordini, humus di quel progetto rivoluzionario che nonostante la repressione, le campagne di dissociazione e altro rinasce dalle ceneri nel nostro paese. Quello “stagno in cui i pesci nuotano” di cui viene più volte fatto cenno nelle relazioni dei servizi segreti di quel periodo. E’ ben chiaro per la magistratura fiorentina che esistono le leggi per punirci sufficientemente, patrimonio dell’esperienza repressiva del fascismo prima e dell’apparato legislativo ex emergenziale del nostro paese. “Punirne uno per educarne cento” sembra il leit motiv che contraddistinguerà l’azione giudiziaria del PM Suchan, dalemiano di ferro, appartenenza da sempre sbandierata con orgoglio, a cui sembra non sia andata proprio giù la contestazione alla sede dei DS. Un processo che avrebbe voluto in tutti modi contraddistinto dal reato di associazione sovversiva, che se non è stato possibile nella forma è stato anche superiore nella sostanza. Un processo verso un movimento che a loro modo di vedere rappresentava quindi nel presente e nel futuro quell’area verso cui doveva dirigersi inesorabilmente la repressione.

Dopo quasi dieci anni di udienze si arriva alla richiesta del PM Suchan: dai 4 ai 4 anni e mezzo per resistenza pluriaggravata.

Una richiesta che risultava già fuori da ogni previsione, ben sapendo che lo stato non si autoprocessa e che difficilmente in primo grado sarebbe stato possibile pensare ad una assoluzione od ad un eventuale riconoscimento della responsabilità delle forze di polizia e carabinieri. Una richiesta che non solo aveva stupito i “militanti”, ma anche numerosi soggetti normalmente non certo schierati a favore della piazza.

Immediata la risposta della solidarietà. Spontaneamente fin dalla prima sera centinaia di compagni/e solidali sono scesi in piazza mettendo in subbuglio le forze di polizia.

Ma era solo il preludio di quella che pensiamo sia una delle sentenze più forcaiole sia nella condanna, sia nella sua stesura, che possiamo ricordare per quanto riguarda una manifestazione di caratteristiche come quella del 13 maggio 1999.

E’ alla fine di gennaio che arriva la stangata: 7 anni di condanna per tutti, senza se e senza ma.

Unica nota stonata l’assoluzione di un dirigente Cobas.

Avevamo già capito la situazione con la sentenza di primo grado nei confronti di un compagno condannato con il rito abbreviato per gli stessi fatti ad una pena di quasi 3 anni, ma l’assoluzione in appello poteva in qualche modo almeno lasciare qualche speranza. La realtà è stata invece una condanna esemplare.

E’ interessante esaminare brevemente alcuni passi della sentenza Emerge fin da subito una disparità evidente nella considerazione dell’attendibilità delle testimonianze.

Accettate e indiscutibili quelle da parte della polizia, dagli squilli di tromba e di sirena per far sciogliere la manifestazione, totalmente assenti nel materiale video ed audio; l’arrivo di 400 autonomi (chissà dove li hanno trovati) una volta che il corteo si era sciolto quando dalle stesse riprese video si vede la totalità dei manifestanti che sostano in presidio in prossimità del consolato; la scomparsa dei sindacalisti (buoni) e la presenza degli “autonomi” dei centri sociali (cattivi) quando dal materiale video si vedono chiaramente le bandiere e gli esponenti del sindacalismo di base; il lancio di oggetti precedente alle cariche e i tentativi di sfondamento, batterie di auto che volano e altri oggetti, quando se ci sono stato lanci di oggetti sono stati successivi alle cariche e certo non si vedono nei materiali video e fotografici e nemmeno sugli eventuali reperti “.... La potenzialità lesiva di tali oggetti e la capacità anche intrinseca anche di uccidere già di per sé colloca la scelta su un piano assai elevato sotto il profilo squisitamente criminale con le ovvie conseguenze su quello sanzionatorio ….”.

Fondamentale è la preparazione del contesto da parte del Dott. Fama, ben evidenziato dagli estensori della sentenza, che fa notare la totale mancanza di contatto con i manifestanti o meglio gli organizzatori, ad eccezione dei sindacati di base, tanto da far prefigurare una premeditazione degli incidenti “.. un significativo ed univoco segnale della dolosa e predeterminata organizzazione di attività criminose ….. In sostanza l’elemento introdotto chiarisce oramai definitivamente, la caratteristica di preordinazione che l’attacco aveva nelle menti degli ideatori tra cui gli odierni imputati ...” Una contraddizione in seno alla dichiarazione di Fama, in quanto proprio i sindacati erano gli organizzatori e quindi gli unici legittimati a prendere eventualmente contatto con gli sbirri.

Se non bastasse emerge il rischio di un pericolo per le buone relazioni tra Italia e Usa, in quanto il comportamento degli imputati risponde “alla volontà di impedire che venisse portato a compimento l’atto di ufficio, in sostanza la difesa del territorio statunitense …..” ,“ …. non può mancare di rilevarsi come , nell’ambito di una ulteriore valutazione di gravità, quanto i fatti abbiano minacciato, quantomeno sotto un profilo potenziale, addirittura i rapporti internazionali del nostro paese … il rappresentante di uno stato estero sul nostro suolo collocato nel centro urbano cittadino.

E’ interessante la motivazione con le quali si attribuisce la veridicità dei riconoscimenti da parte degli sbirri che “ … individuano infatti con assoluta certezza per aver conosciuto numerosi fra quei soggetti in manifestazioni del 13 maggio quali autori della condotta tipica del reato di resistenza mediante la creazione del corteo di sfondamento e mediante il lancio di oggetti anche di peso oggettivamente rilevante e di intrinseca pericolosità ...” “ Riconoscimenti effettuati successivamente negli uffici della questura e non sul materiale video o cartaceo dei fatti, ma sulle foto segnaletiche.

Ben diverso il giudizio sulle testimonianze portate dalla difesa. “ il dato obiettivo che accomuna le deposizioni dei testi a difesa e che spiega la mancata percezione di qualsiasi disordine che possa aver provocato è determinato, volgendo al termine la manifestazione, dal clima di distensione che si era creato …..era, dunque, fisiologicamente seguito dal crollo dell’attenzione, anche visiva, verso quei luoghi intanto divenuti invece teatro dei disordini ….. In definitiva la conclusione che si trae non è quella della loro non credibilità per aver riferito cose non vere, quanto invece di una “inattendibilità in buona fede” rispetto all’accadimento dei fatti, determinato da una condizione psicologica e da una dislocazione logistica ….” Per concludere, ciliegina sulla torta, le motivazioni con le quali è stata esclusa la concessione delle circostanze attenuanti previste per legge, importanti nella formulazione della condanna, ma in verità per noi totalmente estranee alla ricostruzione della realtà dei fatti successi quel 13 maggio 1999: “deve dirsi come gli imputati, pur esercitando il loro diritto di assenza, mai abbiano partecipato al procedimento, né si siano sottoposti all’esame, né abbiano ritenuto di dover comunque intervenire per fornire al collegio una ragione giustificatrice e fondante dei fatti gravi loro addebitati ...” Possiamo rispondere che non avevamo e non abbiamo niente di cui giustificarsi.

Noi non pensiamo che ci sia pena che possa essere accettata, come non pensiamo che siano le iniziative di solidarietà e dibattito che potranno modificare gli esiti del processo.

Ma tutto ciò ha una sua forza intrinseca. La forza di non voler sottacere davanti alla repressione, non cedere di un passo, rendere sempre più coscienti coloro che si avvicinano alla politica, quella con la P maiuscola, fuori dagli inciuci, i ritorni personali e i giochi di palazzo. Non trovarsi impreparati davanti agli attacchi violenti da parte dello stato e saper resistere anche nei momenti più difficili. In un periodo dove l’inasprimento del divario tra gli interessi di classe, dove un capitale sempre più violento all’interno della sua crisi ristruttura in termini negativi le relazioni sociali all’interno delle metropoli della periferia e del centro, così come nella fabbrica e nei luoghi di lavoro, alla reazione spesso spontanea e frammentata, non può che rispondere con la repressione. L’azione preventiva, i licenziamenti e le cariche contro i lavoratori, gli avvisi orali agli studenti e ai militanti, le sorveglianze sono il contraltare di quanto va a dispiegarsi nelle metropoli nei confronti degli immigrati e della illegalità proletaria. Le città si riempiono di divieti, le piazze si chiudono e le proteste le vorrebbero relegate all’interno dei circoli mediatici e istituzionali ben lontane dai centri di potere. Per noi diventa imprescindibile mettere al centro del dibattito tutto ciò, ben consci che non esiste una centralità del dibattito sulla repressione. E’ vero la repressione si combatte continuando a lottare, esprimendo la solidarietà e non lasciando solo chi ne viene colpito. Ma questo non può essere un motivo per non parlarne, perchè domani ognuno sappia, sia ben cosciente che la lotta per un mondo migliore passa anche attraverso le sbarre di una galera.

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