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Sistema previdenziale: il buco nero inghiotte i precari

(28 Novembre 2010)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.comunistiuniti.it

Sistema previdenziale: il buco nero inghiotte i precari

foto: www.comunistiuniti.it

Sono di nuovo i giovani a pagare il conto, sono di nuovo loro quelli nell’occhio del ciclone! Il motivo è quasi sempre lo stesso, dagli errori fatti in passato adesso a pagare sono le generazioni future, nel caso specifico la nostra generazione, quella dei nostri figli, dei nostri nipoti. Sono loro che a conti fatti, nel migliore dei casi si dovranno accontentare di trascorrere una quarta età fatta di stenti.

È di qualche giorno fa la dichiarazione del presidente dell'INPS Antonio Mastrapasqua:

"Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale".

Così com’è successo nel luglio di quest’anno per i dipendenti subordinati, nelle prossime settimane, saranno inviate circa 4milioni di lettere da parte dell’inps ai dipendenti parasubordinati per informarli della loro posizione previdenziale, dunque dei contributi versati. Non sarà possibile invece per gli stessi, consultare il sistema di simulazione della pensione che andranno a ricevere, così come succede per i lavoratori subordinati. Il perché dell’impossibilità alla consultazione? La risposta ce l’ha data il presidente dell’inps che con tono quasi ironico ha esternato l’affermazione sopracitata. Ma di ironico non c’è proprio niente perché col sistema contributivo infatti, il trattamento maturato dai parasubordinati e consulenti, spesso non arriva alla pensione minima.

Proviamo a capire qual è il motivo di questa situazione e soprattutto perché i precari che l’inps ama tanto chiamare lavoratori parasubordinati, molto probabilmente non arriveranno a ricevere un soldo dai contributi che stanno versando. Per farlo dobbiamo spostarci in un periodo non troppo lontano. Prima del 1995, il meccanismo di calcolo delle pensioni veniva effettuato secondo i criteri del sistema retributivo. La rata di pensione che un soggetto riceveva al momento di collocamento in quiescenza era data dal prodotto tra la media dei salari degli ultimi 5 anni, gli anni contributivi ed un’opportuna aliquota fornita dall’ISTAT. È facile pensare che un sistema dove i meccanismi di calcolo della pensione sono dati dai criteri esposti sia abbastanza “generoso”, è immediato infatti capire che la storia lavorativa di un soggetto non è legata solo agli ultimi 5 anni di lavoro e che con elevata probabilità lo stipendio che questo percepisce ad inizio carriera non è per nulla paragonabile a quello che lo stesso percepisce a carriera più avanzata. Ci sono molti fattori che fanno si che questo sia possibile, tra i quali l’adeguamento dei salari all’inflazione e gli aumenti salariali legati alla carriera stessa. Tenendo conto solo degli ultimi 5 salari, dunque i più elevati, si andava in pensione con una rata a volte maggiore del salario che si percepiva quando si era nella forza lavoro. È facile intuire dunque che un meccanismo di calcolo di questo tipo non poteva reggere, anzi già non reggeva perché se si tiene conto che il sistema previdenziale italiano non si occupa solo delle pensioni di vecchiaia e di anzianità ma anche di quelle di invalidità, inabilità e superstiti, inoltre degli assegni sociali, di maternità di disoccupazione e malattia, la spesa che risultava (e che risulta) dal nostro sistema non riusciva ad essere compensata dalle entrate.

Nel 1992 con la riforma Amato si cercò di ridurre in qualche modo questa spesa, facendo risultare il calcolo della pensione non come media degli ultimi 5 salari ma degli ultimi 10 e portando l’età pensionabile da 55 a 60 anni per le donna e da 60 a 65 anni per gli uomini.

Il vero cambiamento però si è avuto nel 1995 a seguito della legge Dini, che ha segnato il passaggio dal sistema previdenziale di tipo retributivo e a capitalizzazione (i contributi di oggi sarebbero stati utilizzati per pagare i pensionati di domani), ad un sistema previdenziale di tipo contributivo, in cui la rata di pensione non veniva più calcolata tenendo conto della media degli ultimi salari, ma del montante dei contributi che un soggetto versa durante tutta la sua attività lavorativa. Il montante dei contributi, ottenuto calcolando i contributi come un’aliquota del 33% (nel caso dei lavoratori dipendenti) dei salari annui e capitalizzati attraverso un indice fornito dall’ISTAT, si moltiplica per un coefficiente di trasformazione che appunto consente di individuare quale sarà la rata annua lorda di pensione. Si passa inoltre da un sistema a capitalizzazione ad un sistema a ripartizione e cioè la massa dei contributi pagati dalla forza lavora di oggi vengono utilizzati per pagare i soggetti che oggi sono pensionati. Cambiano i requisiti per il pensionamento di anzianità, bisognava avere almeno 57 anni di età e 35 di contributi, quindi si elimina il fenomeno dei “baby pensionati” che consentiva di andare in pensione con un’anzianità contributiva di soli 20 anni indipendentemente dall’età. Inoltre in merito ai coefficienti di trasformazione questi saranno più bassi quanto più bassa sarà l’età in cui il soggetto decide di andare in pensione

È del 2004 la controriforma Maroni-Berlusconi quella che introduce ulteriori trasformazione al meccanismo di pensionamento per anzianità: vengono introdotti i così detti “scalini” e cioè l’età di accesso alla pensione per anzianità viene incrementata ogni due anni di uno con uno “scalone” iniziale e cioè l’età passa da 57 a 60. Dunque ferma restando l’anzianità contributiva a 35 anni, a partire dal 2008 per poter andare in pensione per anzianità si devono avere 60 anni, per poi passare a 61 nel 2010 ed a 62 nel 2012. Verrebbe da osservare che andare in pensione per anzianità contributiva, ormai sta diventando solo una questione di facciata perché è abbastanza semplice notare che nel 2012 il requisito di accesso è 62 anni e che per quanto riguarda i coefficienti di trasformazione, a quest'età quello applicato è più basso dello stesso calcolato a 65 anni, è ovvio che si preferisce rimanere nella forza lavoro per altri 3 anni (sempre se non si raggiunge prima il limite massimo di anzianità contributiva di 40 anni). La riforma pone l’attenzione ai fondi pensione complementari, evidenziando come l’adesione ad essi sia necessaria non solo per dare alle famiglie italiane uno strumento che integri la minore pensione pubblica del futuro, ma anche per evitare che venga rimesso in discussione il principio contributivo, ossia il cardine stesso del nuovo sistema pensionistico.

La controriforma pensionistica Maroni-Berlusconi indebolisce il sistema pensionistico pubblico, il suo carattere universale e solidale che era già stato pesantemente picconato dalla legge Dini del 1995.

Si andrà in pensione più vecchi e con una pensione più povera, infatti la rata di pensione che riceveranno tenderà ad essere sempre più bassa per effetto delle revisioni sui coefficienti di trasformazione, che essendo legati all’aspettativa di vita tenderanno ad essere più bassi di fronte ad un allungamento della vita media. La legge Dini prevedeva che tali coefficienti sarebbero stati rivisti ogni 10 anni, il 1° Gennaio di quest’anno, dunque 15 anni dopo l’applicazione dei primi sono entrati in vigore i nuovi coefficienti di trasformazione, più bassi rispetto a quelli della legge Dini del 95, perché la vita media si è allungata. Per avere dei coefficienti simili a quelli che erano fissati a 65 anni per la legge Dini, si dovrebbe allungare ulteriormente l’età di pensionamento. Ma niente paura perché a tutto ciò ci ha già pensato il nostro caro presidente del consiglio, infatti con la legge 102/2009 il governo Berlusconi ha varato una norma che prevede, a decorrere dal 2015, che i requisiti di età anagrafica per l'accesso al sistema pensionistico sono adeguati all'incremento della speranza di vita, con riferimento al quinquennio precedente. Si tratta dunque di un innalzamento dell’età pensionabile collegato alla speranza di vita che dovrebbe agire in controtendenza rispetto alla diminuzione dei coefficienti. Per i giovani e i neoassunti sarà dunque una vera catastrofe: si troveranno a lavorare fino a chissà quale età e a “scadenza” usufruiranno di un miserevole assegno pensionistico (il 50% circa dello stipendio) ed anche se decidessero di aderire ad un fondo integrativo, la rendita finale aumenterà di un misero 10-15%, al costo di dire addio alla buonuscita.

Ma, a questo punto viene da porgersi un’altra domanda: e la disoccupazione??? Se ci sarà sempre più permanenza della forza lavoro anche ad età abbastanza elevate, come si fa a fronteggiare un altro fenomeno che in Italia ha un carattere piuttosto rilevante??? O il precariato stesso??? Come si fa a divenire lavoratori subordinati se i posti sono sempre tutti così pieni e non si crea nuova occupazione??? Sembra di essere in un tunnel senza uscita o volendo usare un detto molto più popolare sembra di avere a che fare con “un cane che si morde la coda”. Ma non è questa la sede per affrontare il problema, dunque tornando al nostro sistema previdenziale si vuole precisare che il motivo di quest’intervento è quello di informare i lavoratori, o meglio i contribuenti, dello stato in cui versa il nostro sistema previdenziale, ed affermare che quando si legge o si apprende che nello stato attuale delle cose sarà già solo un miracolo percepire pensione, non è solo per fare notizia ma la situazione esiste davvero ed è molto più grave di quello che noi pensiamo. Basti pensare che il nostro sistema è a ripartizione, e che i diversi fondi che aderiscono: fondo dei coltivatori diretti, fondo degli artigiani e quello dei commercianti sono tutti in negativo, solo quello dei lavoratori dipendenti è in positivo ma se si aggiunge il fatto che la cassa dei dirigenti d’azienda, degli elettrici e dei trasporti (sempre tutte in negativo) vanno a finire nella grande cisterna dei lavoratori dipendenti allora quest’attivo smagrisce; che con tutto questo calderone di disavanzi negativi di bilancio, spese, spese e ancora spese, si continuano a pagare le pensioni di chi in pensione c’è già. E il futuro??? È come scorgere l’orizzonte e non vedere nulla, e si perché è meglio dire che non si veda nulla, è meglio omettere piuttosto che dire che la situazione si presenta difficile e comunicare alla gente, ai precari soprattutto, che devono provvedere al loro futuro in altri modi perché dopo una vita di lavoro incerto, dopo aver pagato fiumi di contributi, forse il sistema a loro la pensione non la darà!!!

Giuseppe Ambrosio (PdCI Vibo Valentia)
Anita Porretta

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