">
il pane e le rose

Font:

Posizione: Home > Archivio notizie > Imperialismo e guerra    (Visualizza la Mappa del sito )

Pro mutuo mori

Pro mutuo mori

(19 Settembre 2009) Enzo Apicella
In un attentato a Kabul, sono colpiti due blindati italiani, uccidendo 6 parà della Folgore

Tutte le vignette di Enzo Apicella

PRIMA PAGINA

  • Domenica 21 aprile festa di Primavera a Mola
    Nel pomeriggio Assemblea di Legambiente Arcipelago Toscano
    (18 Aprile 2024)
  • costruiamo un arete redazionale per il pane e le rose Libera TV

    SITI WEB
    (Go home! Via dell'Iraq, dall'Afghanistan, dal Libano...)

    Iraq: “il soggetto scabroso” per il pacifismo e il purismo marxista

    Come affrontare la questione senza farsi paralizzare?

    (18 Novembre 2003)

    Paradossalmente, il movimento pacifista ha avuto meno difficoltà a mobilitarsi contro le aggressioni militari negli ultimi 15 anni, organizzate dagli Usa con più o meno alleati, in assenza di un soggetto militarmente “resistente”. Quando quest’ultimo, invece, c’è stato, vuoi per le sue intrinseche “nefandezze” vuoi per quelle attribuitegli dall’aggressore in parte recepite come vere da tutti, il pacifismo si è sempre sentito in obbligo di sostenere il fatidico “contro l’aggressore e contro l’aggredito” “o quantomeno non a sostegno dell’aggredito”. Anche il purismo marxista, per quanto critico del pacifismo, ha assunto lo stesso indirizzo: non per ragioni morali, ma per non essere coinvolto in appoggi a lotte di liberazione nazionale, considerate sorpassate e quindi reazionarie.

    Non sarà sfuggito che, su questa “intransigenza” dell’opposizione alle aggressioni, ha fatto leva l’aggressore stesso, per trasformarla in un fattore di debolezza nell’area fluttuante e indecisa di detta opposizione. Non si può negare che spesso un po’ di gente è rimasta a casa per non fare il gioco dei Milosevic, dei Talebani, dei Saddam, comunque anche di masse fanatiche e retrograde: in un certo senso è stata più realista del re.

    Nell’ascesa del movimento pacifista contro l’ultima aggressione all’Iraq, fino all’oceanica manifestazione del 15 febbraio, con 110 milioni di persone in piazza (che in molte situazioni vide anche scontri con la polizia), dell’aggredito si osservava solo l’aspetto passivo di vittima. Lo stesso Saddam, per quanto inviso al movimento, sembrava non avere alcun ruolo, sicché offriva poche occasioni di perplessità. Con una certa approssimazione, è stato teorizzato che a spingere tanta gente in piazza sia stato una sorta di pietismo a buon mercato, magari travestito da umanitarismo. Questa tesi ha creduto di trovare conforto dopo l’occupazione militare dell’Iraq, che gli Usa hanno minacciato a tempo indeterminato, quando da una parte è riapparso l’aggredito come soggetto attivo … e, nel contempo, una certa stasi del movimento (eccezion fatta per gli Usa e per Londra, che in questo inizio d’autunno hanno rispettivamente visto in piazza due manifestazioni di 100 mila persone).

    Molte sono le ragioni dell’attuale impasse del movimento pacifista, ma crediamo che la tesi del pietismo sia un’ennesima interpretazione anticlericale a tutti i costi (una damina di carità dietro ogni gesto di solidarismo?) che porta a trascurare, tra le motivazioni del movimento, quel senso di sicurezza di poter contare solo sulla propria presunta purezza di soggetto “avanzato” e già emancipato, di non dover più fare affidamento su soggetti a tal punto ambigui da presentarsi come vittime/carnefici. Al contrario, anche quando noi individuiamo tra le ragioni della difficoltà il fatto che sia riapparsa sulla scena una vittima come soggetto attivo e resistente, il pietismo in crisi è un elemento affatto marginale. Questa resistenza, che - bisogna ammettere - è emersa al di là di qualsiasi aspettativa, trasforma la vittima passiva in “soggetto scabroso”. Essa però mette in crisi “limiti” di ben altra natura e portata.

    Questo soggetto, intanto, mette in crisi anche i “marxisti”, che invece ritengono pomposamente di essere ostacolati solo dalla ancora diffusa ideologia pacifista. Sono avviluppati nello stesso dilemma. Anche su di loro, appena accennano alla mobilitazione, pesa in modo ricattatorio la domanda se puta caso “stanno con Saddam” o con gli islamici reazionari. E così, mentre molti pacifisti aspettano, per mobilitarsi senza riserva alcuna, una resistenza “pulita” delle vittime, i marxisti (stiamo sempre parlando dei puristi, sia pure con varie sfumature) aspettano una resistenza con bandiere rosse e al canto dell’internazionale: prima di questo evento, è meglio stare fermi o, al massimo, andare al risparmio. In fondo, alcuni marxisti che sputano sui pacifisti e alcuni pacifisti che fuggono dai marxisti si somigliano più di quanto non pensino: non lo ammetteranno mai!

    Dove risiedono questi limiti? Certo, nella cautela che inibisce l’agire politico dispiegato. Ma questa cautela, ancorché attinga da vecchi pregiudizi, ha una serie di nuove e buone ragioni. Alcune di ordine generale, quali quelle che riguardano l’anacronismo delle lotte di liberazione nazionale (sicuramente nelle versioni già praticate e fallimentari). Altre di ordine più immediato, quali la ignobile ambiguità di molti dirigenti dei paesi aggrediti, che - come è noto - sono stati perfino alleati degli attuali aggressori.

    Tuttavia, questa cautela o diventa un punto di forza per opporsi all’imperialismo o diventa un punto di debolezza da questi utilizzato. Anche il purista deve rendersi conto di questa strumentalizzazione che finisce per subire, proprio quando crede di esserne maggiormente al riparo e cioè quando egli si mette, nella sua corazza, al di sopra delle parti o contro tutte le parti. In questo caso - come dimostra l’evidenza dei fatti - egli si mette fuori dalla lotta, perché partecipandovi può fare il gioco di qualcuno: così egli si mette nella condizione di non esercitare la minima influenza contro l’aggressione. Di fatto, in tal modo, egli non resta neutrale o contro tutti, ma assiste alla vittoria di chi comanda, del più forte. Egli avalla, cioè, lo stato di cose esistente o, peggio, lo stato di cose che si modifica ancor più a favore del predominio imperialista, che si ripresenta in forma coloniale … e l’eterogenesi dei fini, di cui egli si sente sicuro di essersi liberato con l’inazione assoluta, gli si ripresenta proprio in questa subdola modalità.

    Ma dicevamo che la cautela può anche diventare un punto di forza. In altre parole, ci sentiamo di dire che, per superare l’impasse, non è utile e fondato ritornare al vecchio “appoggio incondizionato ai popoli oppressi”. Questo appoggio (a parte ogni considerazione sulla correttezza lessicale dei termini) ovviamente non era inteso, nella sua formulazione originaria, come accettazione anche della “bontà” del movimento appoggiato, e tanto meno come appoggio ai dirigenti di tali movimenti. Esso voleva essere un appoggio alla materialità della lotta (che si sperava, anche per via dell’appoggio, evolvesse in un certa direzione), pur nella critica alle sue illusioni e anche alle sue ideologie reazionarie. Un appoggio che viene dato, insomma, senza la precondizione che si abbandonino subito illusioni e ideologie reazionarie, senza l’ultimatum di doversi disfare immediatamente di dirigenze corrotte o peggio. Un appoggio insomma che tagliava corto sui “se e sui ma” della socialdemocrazia, così come sui difetti dei popoli aggrediti presi a pretesto, per restare indifferenti davanti al loro massacro.

    Furono le successive “interpretazioni” staliniane (della cui “plausibilità” non staremo qui a discutere) che trasformarono l’appoggio suddetto in appoggio anche alle illusioni e alle dirigenze … purché esse fossero pro-Mosca.

    Bisogna comunque ammettere che, al di là delle interpretazioni moscovite, la linea dell’appoggio incondizionato, soprattutto in mancanza di alcuni coefficienti di forza a livello internazionale, va ad urtare contro l’oggettività di molte lotte nazionali che non evolvono tanto facilmente e contro ideologie che, per trovare fertile terreno in una certa oggettività, non sono facili a scardinarsi. Ed è vero anche che molti sostenitori dell’appoggio incondizionato, anche quando hanno una radicale intenzione di non volere appoggiare certe dirigenze, finiscono per trovarsi in situazioni di innegabili “amicizie” con queste ultime. Sappiamo che questi rilievi critici e queste constatazioni in punto di fatto sono da una certa “falsa coscienza” contrastati in modo assoluto: talvolta, siamo stati anche noi taciti complici nella negazione della più palmare evidenza. Al riguardo, facciamo solo appello alla memoria onesta di tanti compagni, che di fatto, in occasione di assemblee, di incontri e di manifestazioni di piazza, si sono trovati a fare stretta comunella anche con attivisti di Milosevic, tanto per dirne una. E si trattava di compagni, che avrebbero giurato di essere fieri avversari di Milosevic e sostenitori accaniti del superamento della lotta nazionale.

    Allora, il primo passo per uscire dalla paralisi, non è quello di appoggiare incondizionatamente la resistenza irakena. Certo, secondo una certa forza di inerzia ideologica, di fronte ad un’occupazione che si presenta feroce, terroristica, neocoloniale, questo appoggio sembra essere l’unica via corretta da praticare. Non si può infatti schierarsi contro questa occupazione, se non si legittima la resistenza irakena. Giustissimo! Solo che questa legittimazione non può diventare sostegno incondizionato, sebbene non dobbiamo abbassare la guardia contro i nuovi “pretesti” socialdemocratici.

    Infatti, mai come in questo caso ci troviamo alle prese con una resistenza alquanto sconosciuta, per i suoi programmi, per la sua ideologia, per i soggetti. Anzi, in questo caso dovremmo parlare di più resistenze, di più programmi e di diverse ideologie. L’unica cosa sicura è che questa occupazione supera nella sua ferocia terroristica perfino quella di tipo nazista. Mentre quest’ultima si poteva avvalere di consensi all’interno del paese occupato, sui quali si costruivano governi di ispirazione più o meno nazista, con la possibilità quindi di mantenere poche truppe per la repressione civile (la maggior parte dei militari nazisti serviva per continuare la guerra oltre il paese occupato), l’occupazione americana non riesce a mettere su neppure un governo fantoccio con il minimo di credibilità, sicché deve mantenere permanentemente un esercito di 160 mila unità. Questa occupazione è odiata dal 99,9% della popolazione (un record nella storia mondiale!) e scatena - per la sua odiosità - una resistenza disposta fino al limite del suicidio.

    In tale quadro, affermare un’opposizione (questa sì) incondizionata all’occupazione occidentale può e deve portare a sostenere che la resistenza irakena è legittima, ma ciò non implica anche il sostegno alle posizioni programmatiche e ideologiche di questa resistenza e neppure il rischio che tale sostegno diventi oggettivo. Tuttavia, il riconoscimento della legittimità della resistenza irakena è un passaggio ineludibile, a meno che non si voglia mettere in dubbio il carattere, prima indicato, dell’occupazione. Sappiamo anche, a questo proposito, che la “falsa coscienza” di chi è riluttante a fare questo passo protesterà vivacemente contro la nostra “insinuazione”. Ci si concederà, però, che la cultura primo-mondista, sia nella versione pacifista sia in quella marxista, si compone ancora di sottofondi inconfessabili che finiscono per affiorare non nella forma, di cui ci si vergognerebbe, ma in ideologie di tipo rivoluzionario “estremistissimo e purissimo”. O pensiamo che sia scomparsa del tutto quella concezione, chiamiamola secondo-internazionalista per non offendere nessuno, secondo cui l’espansione imperialista nel mondo portava comunque capitalismo, quindi portava insieme a sfruttamento e dolori anche il progresso per poi poter realisticamente passare alla lotta per il socialismo? Noi pensiamo di no, e potremmo farvi un lungo elenco di citazioni che ancora ripresentano, con acrobatiche contorsioni, questa concezione perfino in riviste marxiste che odiano in sommo grado il capitalismo. Il concetto viene espresso più o meno così: è vero che ci troviamo di fronte ad aggressioni imperialiste, ma gli aggrediti si oppongono per difendere società arretrate. Non vogliamo ingaggiare qui la discussione sulla plausibilità del termine “arretrato”. Al riguardo, vogliamo segnalare l’impudenza di siffatto concetto, anche quando è evidentissimo che è proprio l’aggressione imperialista che distrugge quel poco di capitalismo raggiunto dagli aggrediti (in Irak ciò è indiscutibile).

    Dunque, ripetiamo che non dobbiamo farci angosciare dal problema del sostegno alla resistenza irakena (che significherebbe anche adesione diretta e/o indiretta a certi valori e programmi contro cui noi siamo in lotta in questa fase). Il passo che dobbiamo fare è quello di riconoscere la legittimità di questa resistenza.

    Non a caso, gli opinionisti pro-occupazione stanno lavorando alacremente non certo per convincere gli oppositori che i contenuti programmatici e le ideologie della resistenza irakena non hanno il minimo punto di contatto con loro. Su questo sfonderebbero una porta aperta. Tutta la partita in questa fase, che non va saltata, viene giocata sulla legittimità.

    In questa direzione, Bush ha ottenuto un risultato notevole con il voto favorevole dell’Onu. Gli effetti si sono visti subito. In Italia, questo voto ha dato ingresso in gran parte dell’Ulivo ad una posizione di resa all’invio di altre truppe e dei soliti “aiuti”. Su questo è anche probabile che poi si giocherà per controbilanciare la presenza americana e per poter dire che l’Onu non è morta. Dal punto di vista del paese occupato ciò non cambia assolutamente niente per quanto riguarda l’oppressione, che resta tale anche con la divina benedizione. Cambia però la situazione sotto il profilo della (il)legittimità della presenza delle forze occupanti. E da qui il passaggio della seguente domanda ai pacifisti: “non bisogna aiutare la diversa occupazione - cioè quella controbilanciata o comunque avallata dall’Onu - anche con la presenza di un diffuso volontariato?”.

    E’ chiaro che, su questo nuovo terreno, diventa più facile spingere il pacifismo a prendere le distanze dalla resistenza, non dai suoi contenuti, ma dalla sua legittimità. In tal senso, non bisogna sottovalutare il lavorio dei soliti Lerner - apparentemente limitato a schermaglie semantiche -, volti a far accettare il termine di terroristi per i resistenti irakeni. Come dire: “per carità, non vogliamo convincervi che i resistenti irakeni non lottino per il socialismo o per la democrazia assoluta - questo sappiamo che lo sapete -, vogliamo solo che voi li definiate terroristi. In fondo, come pacifisti non dovreste avere difficoltà”.

    Bene, noi sappiamo che i resistenti irakeni lottano per una società contro cui noi ci troveremmo all’opposizione, tuttavia essi non sono terroristi e legittimamente lottano contro la più feroce occupazione della storia. Peraltro, non ci sfiora neppure il dubbio di essere strumentalizzati da loro, proprio perché non si presentano con bandiere rosse e simili. Paradossalmente (o provocatoriamente?), questo dubbio sarebbe stato più fondato all’epoca della lotta contro l’aggressione al Vietnam, e non tanto per la forza (ideologica e pratica) dei “comunisti” vietnamiti, ma per la presenza dell’Urss, di ben altra efficacia e pervasività.

    Avere oggi paura di essere manipolati in Occidente da qualche Saddam o da qualcosa di peggio è semplicemente ridicolo. Le sue quotazioni ideologiche sono a zero; quelle di potere sotto zero. Forse, egli ha acquistato solo un po’ di fascinazione, dopo essere entrato in una pericolosissima clandestinità, con perdita di ricchezze e figli. Ben diversi sono i “mostri” che ci divorano e ci possono anche etero-dirigere.

    Ma quale è l’efficacia operativa del concetto della “legittimità della resistenza irakena” (diverso dall’appoggio incondizionato)?

    Una prima conseguenza pratica l’abbiamo sopra evidenziata: contrasta la “delicata” operazione dei vari Lerner.

    Ma può risolversi anche in appoggio materiale (sia pure nel senso limitato della raccolta di fondi)? Se infatti si ritiene legittima una lotta, per quale motivo non la dovresti quanto meno finanziare? E se sì, non si finisce per sostenerla in tutti i sensi?

    Questa seconda conseguenza non è affatto inevitabile, per quanto ad essa ci si vorrebbe spingere da parti opposte, secondo le logiche semplicistiche del “e dunque”. La conseguenza pratica, che invece noi ne deriviamo, è che eliminiamo ogni perplessità alla lotta, qui in Occidente, contro l’occupazione neo-coloniale e contro le altre aggressioni che seguiranno. Abbiamo visto nel passato quanta gente se ne è rimasta a casa o ha profuso poco impegno, in occasioni in cui c’era il “soggetto scabroso”. Con questo passaggio, cioè con il riconoscimento della legittimità della resistenza irakena, noi:
    - da una parte rintuzziamo le strumentalizzazione degli aggressori,
    - dall’altra togliamo ogni dubbio che si possa finire per appoggiare altri “nemici”.

    Ma facciamo ancora di più. Iniziamo un dialogo a distanza con altre potenzialità insite nella resistenza irakena soffocate attualmente dall’islamismo o da posizioni nazionaliste (sebbene queste ultime sempre più improbabili).

    Ci si concederà che, senza questo dialogo ed anzi assimilando anche noi quella lotta a terrorismo o qualcosa di simile, si contribuisce a rafforzare proprio le posizioni dell’islamismo. Su che cosa si basa quest’ultimo? Sul fatto che tutto l’Occidente, compresi gli sfruttati dell’Occidente, è ostile al mondo arabo e musulmano: tutt’al più, quando si levano voci “amiche”, queste si limiterebbero ad invitarlo ad essere pacifico e arrendevole, a non essere “terrorista”. Orbene, con la nostra chiusura totale, noi, grandi avversari delle società integraliste e reazionarie, finiremmo per esserne i migliori alleati.

    “La vostra resistenza è legittima”, significando una lotta intransigente alle aggressioni, toglie invece all’islamismo la possibilità di compattarsi e di reprimere quelli (oggi pochi) che possono far riferimento ad alternative che vanno oltre l’islamismo. Non ottiene lo stesso effetto l’appoggio incondizionato, che sembra acritico e tanto più finisce sul serio per esserlo, se si considera che questa parola d’ordine non è oggi sostenuta da un’“internazionale” autorevole e potente.

    Il nostro messaggio suonerà nel senso che lottiamo contro l’imperialismo, con alternative esplicitamente diverse da quelle islamiche e nel contempo pronte a discutere anche con gli oppressi di quelle regioni, di queste alternative. Al momento, anche se la loro alternativa non è la nostra, la loro resistenza agli aggressori e occupanti, nostri avversari, è (solo) legittima.

    Sui finanziamenti, invece, si dovrebbe aprire un’altra discussione. Chi crede che, per essere conseguenti, bisogna anche finanziare, non è conseguente ma solo stupido. Noi finanziamo movimenti disposti ad aprire un dialogo con noi e a trovare punti programmatici comuni. Non ci pare che attualmente ci siano queste possibilità, e non solo perché gli islamici si proclamano anticomunisti (questo potrebbe alludere al “comunismo” dell’ex Urss, da noi sempre rifiutato). Quando ci saranno, ne discuteremo.

    Coerentemente con quanto sopra esposto, raccogliamo la proposta fatta dal Forum Palestina di tenere un incontro per Sabato 29 novembre a Roma. Alla luce dei fatti di Nassiriya e dell'assordante quanto ipocrita campagna lanciata da governo ed istituzioni, al fine di creare un rinnovato clima di unità nazionale, cercando di legittimare l'occupazione militare dell'Iraq, risulta ancora più urgente la necessità di costruire al più presto una ASSEMBLEA NAZIONALE di tutto il "movimento no-war", per discutere come dare continuità all'opposizione contro la guerra permanente preventiva, per rafforzare i segnali di ripresa mobilitativa già in atto e per costruire le necessarie iniziative, in previsione della grande manifestazione internazionale sancita dal Forum di Parigi. Invitiamo pertanto tutte le soggettività collettive ed individuali a rilanciare tale proposta, per farla diventare una vitale occasione di confronto tra le varie sensibilità che hanno partecipato alla lotta contro la guerra, con lo scopo di superare in avanti l’oggettiva fase di difficoltà che il “movimento di Seattle” ha attraversato dopo le grandiose manifestazioni del 15 Febbraio scorso.

    16 - 11 - 2003

    I/le compagni/e di Red Link
    redlink@virgilio.it
    La redazione di Vis-à-Vis
    karletto@rm.ats.it

    Condividi questo articolo su Facebook

    Condividi

     

    Ultime notizie del dossier «Go home! Via dell'Iraq, dall'Afghanistan, dal Libano...»

    Ultime notizie dell'autore «Vis-à-Vis - Quaderni per l'autonomia di classe»

    12383