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La fine del diritto del lavoro costituzionalmente orientato si profila nel nostro presente e nel futuro immediato

Considerazioni a margine del lavoro contemporaneo

(3 Dicembre 2010)

Una analisi di genere del Collegato Lavoro e del progetto di sostituzione dello Statuto dei Lavoratori con uno "Statuto dei Lavori".

Non pare sufficiente l’obiettivo già raggiunto di un’estrema frammentazione del lavoro nell’impresa, conseguita attraverso una pluralità di trattamenti contrattuali applicabili a categorie di lavoratori spesso dotati dei medesimi requisiti professionali e addetti a lavori simili o persino identici, occorre livellare alla loro precarietà anche i lavoratori definiti “stabili”...

Il “Collegato lavoro” è stato definitivamente approvato dal Parlamento il 22 ottobre 2010 e in stretta successione temporale, ai primi di novembre, il Ministro del Lavoro ha avanzato la proposta alle parti sociali di prestare collaborazione operosa a un disegno di legge delega, lo “Statuto dei Lavori”, destinato a sostituire lo “Statuto dei Diritti dei Lavoratori” del 1970, considerato obsoleto non diversamente dalla Costituzione repubblicana.
Torneremo su questa proposta, complessa e poco chiara, anche a causa della scelta di operare con legge delega da implementare con vari decreti delegati.
Premettiamo alcune considerazioni sul quadro d’insieme che si prospetta.

Il “Collegato lavoro”, riproposto e approvato dopo il rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica, contiene varie disposizioni relative a numerose tipologie di rapporti di lavoro (pubblico, privato, di apprendistato, femminile, usurante, certificato ecc), ma le più rilevanti sono senza dubbio quelle che comprimono il diritto di agire in giudizio da parte di lavoratrici e lavoratori, a tutela di diritti sostanziali lesi da disposizioni padronali illegittime.

Le modifiche apportate al precedente disegno di legge lasciano intatta la potenzialità distruttrice dei diritti del contraente debole nel rapporto di lavoro, se è vero (e lo è) che il godimento di quei diritti per essere effettivo richiede l’intervento del giudice in tutti i casi in cui esso è contrastato dalla controparte padronale, titolare, lei sì, della possibilità di rendere immediatamente operante, in autotutela, la propria volontà contrattuale, in quanto proprietaria dei mezzi di produzione e titolare della potestà organizzativa d’impresa.
Il processo del lavoro costituisce, quindi, l’indispensabile presidio del diritto del lavoro.

In seguito alla legge in esame, ogni aspetto di diritto sarà inevitabilmente affievolito, per la maggior gloria della flessibilità, grazie ad un reticolo di disposizioni dai connotati assai negativi.

Per i dipendenti della pubblica amministrazione, ad esempio, è prevista una parità fra sessi, razze, abili e disabili ecc. nelle opportunità di lavoro, qual mezzo al fine della maggiore produttività (!) che dovrebbe essere presidiata da un “Comitato unico di garanzia” a composizione paritetica fra organizzazioni sindacali e rappresentanti dell’amministrazione, organismo che, in realtà, potrà garantire assai poco per la vastità e genericità dei compiti assegnati, la pari presenza (ma non il pari peso) di controllori e controllati, l’assenza d’indipendenza nelle valutazioni, la mancata partecipazione degli interessati diretti, la mancanza di autonomia persino nella regolazione del funzionamento interno (delegato alle direttive di ben due dipartimenti), la previsione di disposizioni di merito della Presidenza del Consiglio dei Ministri, cui fa da contrappunto la totale mancanza di previsione di finanziamenti a sostegno.

Una parità, a ben vedere, di pura facciata, una enunciazione di problematiche dolenti, destinate a rimanere tali perché assai poco aggredite da interventi efficaci.

Nel settore privato un complesso di previsioni legislative tende a eliminare sia i diritti connessi alla prestazione, sia la possibilità di un loro accertamento giudiziale.

Solo qualche esempio: i contratti certificati hanno lo scopo di sottrarre all’indagine giudiziale il merito del rapporto attraverso esclusioni di valutazione di merito e presunzioni di legittimità o d’illegittimità di comportamenti, rimesse alla deliberazione preventiva delle parti, in evidente situazione di squilibrio di potere contrattuale e reale. Un possibile e auspicabile diverso avviso del magistrato giudicante richiederà quantomeno sforzi interpretativi, orientati ai principi cardine dell’ordinamento giuridico e ai valori costituzionali.

Sempre nell’ambito della certificazione contrattuale, è prevista la possibilità che le parti, trascorso il periodo di prova, concordemente adottino una clausola compromissoria che sostituisce al giudice del lavoro un arbitro privato, chiamato a decidere secondo equità qualsiasi controversia attinente il rapporto. Una negazione del diritto di agire nell’ambito di un giusto processo connotato da evidente incostituzionalità, anche per la già richiamata disparità di potere fra le parti sia nella stipulazione dell’accordo, sia nella gestione di questa non equa giustizia privata.

L’arbitrato, evidentemente, va escluso in linea di principio quando si tratti di diritti indisponibili, non passibili di affievolimento per via contrattuale, come quelli del contraente lavoratore.

Un altro deciso passo sulla via della cancellazione di diritti sta nella previsione di un doppio e breve termine di decadenza rispetto alla possibilità di agire in giudizio: tutti i lavoratori per quanto precari, a termine, interinali, a progetto, coordinati o estromessi con false cessioni aziendali devono contestare la legittimità del contratto e della sua cessazione nel termine di sessanta giorni, essendo, per di più, vincolati a introdurre la causa d’impugnativa nel termine di duecentosettanta giorni. Un’estinzione di diritti soggettivi attraverso una sanatoria d’illegittimità che non trova riscontro in alcun’altra disposizione di legge.

Inoltre, il diritto del lavoratore, anche se riconosciuto in sentenza, non gli da titolo a ricevere l’integrale risarcimento del danno effettivamente subito (tutte le retribuzioni perdute dalla cessazione del rapporto fino alla sua ricostituzione): esso viene forfetizzato in misura predeterminata fra le 2,5 e le 12 mensilità anche se la causa, permanendo lo stato di inoccupazione, dura parecchi anni.

In questa situazione da notte dei diritti, assai modestamente contrastata dall’opposizione parlamentare, il sollecito Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali ha pensato bene di interpellare le organizzazioni sindacali dei lavoratori e delle imprese e chiederne il fattivo contributo per il varo di un disegno di legge delega che consenta l’accantonamento dello Statuto dei diritti dei lavoratori (legge 300/1970), in favore di un testo unico denominato “Statuto dei lavori” destinato a svecchiare la materia dei diritti, considerati obsoleti e inadeguati alla “competitività delle imprese”.
Trattasi proprio della competitività che ha prodotto milioni di disoccupati e di sospesi in cassa integrazione guadagni.

L’impostazione della relazione al disegno di legge è illuminante: si enuncia il medesimo intento “riformatore” che già aveva ispirato il pacchetto Treu, la successiva legge Biagi e il recente Collegato Lavoro. _ Infatti, l’impianto teorico presenta la cancellazione di diritti e garanzie certe, perché stabilite per legge inderogabile e universalmente valida, in favore di regole derivanti da contratti specifici per settori produttivi (anche territorialmente diversificati) e per aziende, avendosi particolare riguardo a eventuali crisi aziendali.

Evidente il richiamo a una impostazione tipica di un federalismo iniquo e a parametri di giudizio completamente al di fuori dalla portata, anche cognitiva, dei lavoratori e degli stessi sindacati, soprattutto in un periodo in cui la finanziarizzazione fa premio sui reinvestimenti produttivi degli utili.
L’aspetto secondo me più interessante nella relazione ministeriale è quello che riguarda la motivazione principe a sostegno dell’addotta obsolescenza dello Statuto dei Lavoratori del 1970: i vantati “enormi progressi compiuti a tutela della persona che lavora”, l’enorme “distanza che separa l’impianto di questa legge dai nuovi modelli di produzione e di organizzazione del lavoro e dalla recente evoluzione di un mercato del lavoro sempre più terziarizzato e plurale… con nuove istanze di conciliazione tra i tempi di vita e di lavoro dettati dal massiccio ingresso delle donne nel mercato del lavoro”. (p. 1 della relazione ministeriale)

Sorge spontanea la considerazione: non pare sufficiente l’obiettivo già raggiunto di un’estrema frammentazione del lavoro nell’impresa, conseguita attraverso una pluralità di trattamenti contrattuali applicabili a categorie di lavoratori spesso dotati dei medesimi requisiti professionali e addetti a lavori simili o persino identici, occorre livellare alla loro precarietà anche i lavoratori definiti “stabili” perché tutelati da leggi promulgate nel breve periodo di adeguamento ai principi costituzionale della legislazione italiana, gli anni Sessanta e Settanta del Novecento (tale è lo Statuto del 1970).

Non cessa la deprecazione più o meno esplicita dei diritti dei cosiddetti “garantiti” opposti ad altri detti “flessibili”, i secondi presentati come vittime dei primi e dei loro privilegi, senza che mai i privilegi proprietari e persino le determinazioni antinazionali (delocalizzazioni) trovino analoghi severi censori: importante è conseguire un’eguaglianza al ribasso fra i lavoratori.

Nelle considerazioni sopra riferite si trova un altro aspetto che rappresenta la cifra del mercato capitalista non solo contemporaneo, ma risalente nel tempo alla prima crisi degli anni ottanta del secolo scorso, i cui doni malefici sono giunti ai giorni nostri, opportunamente aggiornati.

Il (modesto) ingresso delle donne nel mercato del lavoro offre lo spunto per giustificare la flexicurity, cioè il livellamento di tutti alla flessibilità precaria, in nome della conciliazione fra lavori formali e informali, produttivi e di cura famigliare.
Il problema della conciliazione è visto, nell’ottica patriarcale, come esclusivamente femminile, ma gli esiti perversi della precarietà si espandono a macchia d’olio sull’intero complesso della mano d’opera maschile e femminile variamente impiegata.
Indubbiamente un buon argomento per contrastare la conciliazione e i suoi cantori bipartisan.

L’impostazione del disegno di legge, teso a identificare e soddisfare le esigenze d’impresa anche ai loro livelli più minuti conformando su di esse le tutele (molto residuali) dei lavoratori, si pone apertamente l’obiettivo di tutelarne la concorrenza e porterà inevitabilmente, per arginare competizioni asseritamente fondate su forme di dumping sociale, anche alla obliterazione dell’articolo 18 dello Statuto del 1970, già ripetutamente aggredito da referendum abrogativi e proposte di modifica altrettanto radicali.

La fine del diritto del lavoro costituzionalmente orientato si profila nel nostro presente e nel futuro immediato.
A mio parere il rimedio è uno solo, quello dismesso dal mondo del lavoro almeno a far tempo dai primi anni Novanta del secolo scorso, auspice il famoso patto fra produttori: è la riattivazione del conflitto di classe, finalmente intrecciato e rivitalizzato dal conflitto di sesso, per dare voce, rappresentanza e dignità di soggetti autonomi alle persone in carne e ossa, guidate nel mondo dall’autenticità dei loro bisogni e desideri.



1 dicembre 2010

Mariagrazia Campari - Il Paese delle donne on line

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