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Morti bianche

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    6.12.2010 - Gli ultimi due immigrati sono scesi dalla torre, ma la lotta non finisce qui.

    (6 Dicembre 2010)

    anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.rete28aprile.it

    Lunedì 06 Dicembre 2010 15:44

    Dopo 27 notti passate all'addiaccio sulla Torre di via Imbonati a Milano, si è conclusa l'impresa di Marcelo (italo argentino) e Abdelrajat (marocchino). (...)

    Sono scesi perché Abdel si è sentito male, una colica renale e la disidratazione. Complicazioni che potevano costargli care. Se non fosse stato per ciò avrebbero proseguito la loro protesta.
    Ovviamente non è stata solo la loro lotta, anzi, senza le decine e decine di immigrati e italiani che li hanno sostenuti giorno e notte mantenendo il presidio giorno e notte per quasi un interminabile mese tra tanta pioggia, gelo e negli ultimi giorni anche neve, probabilmente non si sarebbe fatto nulla.
    Purtroppo la lotta si è conclusa con un amaro epilogo, Abdelrajat dopo le prime cure mediche al pronto soccorso è stato dimesso, identificato dalla questura e portato al CIE di Via Corelli, vero e proprio lager di stato.
    Mentre scriviamo è in viaggio verso Modena, in un altro CIE dove le condizioni sono ancora più dure. Ovviamente è in isolamento perché chi l’ha voluto rinchiudere non vuole che racconti ai suoi fratelli e compagni segregati con lui di quello che ha fatto, perché l’ha fatto e dei tanti che l’hanno sostenuto.
    La mobilitazione contro la sanatoria truffa è iniziata più di un anno fa, è però nel corso di quest’anno che lentamente ma inesorabilmente con sempre più determinazione abbiamo visto gli immigrati prendere nuovamente l’iniziativa. C’è stata la lotta di Rosarno, gli immigrati della provincia di Caserta, poi Brescia, dove la salita sulla gru è stato solo l’ultimo atto di una mobilitazione che durava da mesi. Salita della gru va ricordato obbligata dalla ripetuta violenza con cui in piazza la polizia ha più volte devastato il presidio e caricato i manifestanti. In fine Milano.
    Inutile nascondersi che quando tra Brescia e Milano si sono occupate la gru e la torre, l’aspettativa di molti era che qualcuno raccogliesse il testimone proseguendo la staffetta in altre città. Così non è stato, almeno per ora, e se salire sulle torri ha sicuramente contribuito a squarciare il muro di silenzio che da troppo tempo serrava come una morsa questa ignobile ingiustizia, probabilmente in prospettiva altri dovranno essere i metodi di lotta con cui continuare. La Torre, a prescindere dall’opinione che ogni uno di noi può avere, ha fatto molto di più di tante manifestazioni che non hanno portato a nulla. Certo è vero che neanche le torri hanno portato nulla, anzi il bilancio di dodici e forse più compagni immigrati espulsi è negativo. Ma il problema sta proprio qui. È nei tentativi, nelle approssimazioni con cui i lavoratori tentano di difendere i loro interessi che si creano le condizioni per il futuro per nuove, più incisive e partecipate mobilitazioni. Oggi questo non c’è o se c’è è ancora insufficiente, e riguarda i lavoratori immigrati e i lavoratori italiani, con la differenza che l’immigrato che lotta (e al presidio erano tutti muratori, facchini e operai) lo sbattono in un centro di detenzione e poi al paese da cui era scappato per non morire di fame.
    Presto o tardi le strade dei lavoratori italiani e non si incontreranno, i pregiudizi, le paure, l’ignoranza lasceranno il posto all’interesse di classe, della classe operaia. Perché lì sta la forza che può cambiare questo paese.
    Un piccolo spaccato si è visto sia a Brescia che a Milano quando il 20 novembre le strade del quartiere si sono riempite di gente, italiani e immigrati, tanti proprio di quella via, alla faccia di De Corato vicesindaco di Milano che è già in campagna elettorale e ha chiesto il pugno di ferro contro chi ha lottato.
    Chi ha lottato in questi mesi non indica solo la strada da seguire, ma lascia anche un seme che non tarderà a germogliare.
    Perché gli immigrati hanno ragione, chiedono di poter lavorare alla luce del sole e avere una vita dignitosa.

    Paolo Grassi

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