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Falluja

Falluja

(5 Aprile 2010) Enzo Apicella
L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto l'aumento delle malformazioni congenite a Falluja, bombardata con il fosforo nel 2004

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    (Iraq occupato)

    Sangue italiano in iraq

    (20 Novembre 2003)

    In Iraq continua a scorrere sangue e questa volta è stato sangue italiano, quello dei carabinieri e dei militari uccisi da un ennesimo attacco terroristico cinico e spietato. E’ sangue di uomini innocenti del tutto estranei alle responsabilità per le drammatiche vicende che stanno sconvolgendo quel martoriato Paese, è sangue di modesti ed onesti lavoratori che si guadagnavano il pane facendo un lavoro durissimo, è sangue di cittadini meritevoli che avevano messo le proprie energie e le proprie professionalità al servizio delle istituzioni per tutelare l’ordine pubblico interno contro ogni illegalità e la sicurezza nazionale contro il pericolo di aggressioni esterne.

    L’attacco mortale ai nostri militari in terra irachena è dunque una immane tragedia, un terribile evento che il governo aveva previsto e del quale aveva disinvoltamente accettato il rischio, come testimoniano certe preoccupanti dichiarazioni ministeriali che purtroppo non avevano turbato più di tanto questo frastornato e talvolta distratto Paese. Ma è anche una tragedia che si poteva evitare come sono state evitate sciagure del genere da parte di grandi paesi europei che a suo tempo avevano dissentito dalla decisione statunitense di occupare l’Iraq e che oggi coerentemente rifiutano di inviare contingenti armati in quell’area dove si continua a combattere in forme mutate una guerra che in pratica non ha avuto mai termine. Ed allora abbruniamo i pensieri, i sentimenti e le speranze di questa nostra quotidiana vicenda per segnare a lutto, specialmente dentro di noi, questi giorni di afflizione e di mestizia.

    Questo non è certo il momento delle retoriche patriottarde, dei proclami salva-coscienza, delle solenni dichiarazioni piene di nulla, dei logori riti di ufficiale cordoglio e, meno che mai, dello spregiudicato tentativo di convertire l’angoscia per l’eccidio in orgoglio nazionale col recondito intento di utilizzare quel sangue tragicamente versato come titolo redditizio da spendere nei rapporti con gli altri paesi occidentali e soprattutto col “grande fratello” americano. E’ l’ora invece del dolore, della pietà, della solidarietà, della preghiera, della riflessione e di un rinnovato impegno contro tutte le violenze, tutti i terrorismi e tutte le guerre. Ed è anche l’ora dell’unità ma solo per stringersi con sentimenti di solidarietà e di condivisione intorno alle famiglie delle vittime, ai carabinieri, alle forze armate e allo Stato repubblicano come disegnato dalla Costituzione che lo fonda sul lavoro e ripudia la guerra. Non ci si può stringere invece intorno ad un governo che a suo tempo si è schierato a favore della guerra americana in Iraq ed oggi continua a sostenerla con l’invio in quel Paese di contingenti armati. Una guerra condannata dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica mondiale, dalla maggior parte dei popoli e dei governi e dalle più autorevoli cattedre religiose e morali.

    No, con buona pace di chi suona il silenzio per addormentare la nostra democrazia, non è possibile tacere e perciò va detto a chiare lettere che il governo deve rispondere della sua errata politica estera, lontana dallo spirito costituzionale, docile oltre ogni misura ai voleri e agli ordini statunitensi e dannosa per gli interessi nazionali ed europei. L’eccidio di Nassiriya chiama in causa le responsabilità di questo governo e di questa maggioranza ma fa anche carico all’opposizione non solo del dovere di denunciare l’inadeguatezza delle scelte berlusconiane sul versante della politica militare ma anche del dovere di chiedere con ogni determinazione l’immediato ritiro delle nostre truppe dall’Iraq. E a questo riguardo non può sfuggire che solo un esasperato politicismo ed una distorta concezione del prestigio nazionale, hanno potuto far dire a qualche autorevole esponente del centrosinistra che la missione militare in Iraq, ritenuta all’atto dell’invio delle truppe sbagliata ed ingiusta, debba essere oggi, dopo la strage di Nassiriya, mantenuta e portata avanti quasi che l’eccidio l’avesse a posteriori, chissà come, emendata e resa giusta.

    Ma l’auspicio di chi si oppone alle guerre e ai terrorismi è che torni in campo, più forte di prima, quel movimento per la pace che aveva messo a nudo l’iniquità e la pericolosità della guerra irachena. Una guerra motivata in un primo momento con l’indimostrato possesso da parte di Saddam Hussein di armi di distruzione di massa e successivamente giustificata con la lotta al terrorismo, obiettivo questo clamorosamente fallito dal momento che l’intervento armato invece di abbattere o almeno fiaccare i gruppi terroristici, li ha favoriti e rafforzati facendoli incontrare con la guerriglia ed aprendo nuovi spazi alle loro micidiali incursioni. E poi, come non rilevare che la presenza dei militari italiani in Iraq c’entra come i cavoli a merenda con la lotta al terrorismo che in questi giorni viene ossessivamente evocata a copertura degli errori commessi e peraltro teorizzata in termini marcatamente sbagliati perché il terrorismo – come i fatti dimostrano – non si sconfigge con operazioni e missioni belliche ma combattendo la miseria e l’ingiustizia e facendo ricorso non a missili e bombe ma a servizi di investigazione veramente intelligenti e a misure di polizia internazionale adeguatamente coordinate.

    Di fronte a questi terribili scenari di violenza e di terrore, l’unità di coloro che vogliono impedire il ripetersi di eccidi e di disastri va costruita intorno a quella “superpotenza” disarmata che mesi addietro aveva scosso i palazzi del potere politico e le fortezze dei comandi militari, quel movimento che oggi deve tornare a percorrere, sotto le bandiere della non violenza, le vie del nostro Paese e di tutto il mondo per gridare le ragioni della giustizia e della pace contro la disumanità degli sfruttamenti, delle guerre e dei terrorismi le cui vittime predestinate sono sempre i poveri e gli esclusi, siano essi in divisa o in abito civile.

    Brindisi, 14 novembre 2003

    Michele DI SCHIENA

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