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Ventiquattro ore senza di noi

Ventiquattro ore senza di noi

(1 Marzo 2010) Enzo Apicella
Sciopero generale dei lavoratori migranti

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Sotto la Torre di Imbonati per un mese. Un primo bilancio

(12 Dicembre 2010)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

Dopo oltre un mese di partecipazione alle attività sotto la Torre di via Imbonati, tentiamo di tracciare un primo bilancio.

Lo facciamo senza soffermarsi su quanto tutti hanno già potuto vedere: la lunga, persistente volontà, contro ogni avversità, financo d'uno spietato gelo invernale, d'un folto gruppo di immigrati, di dare un piano di consistenza, dall'alto di 40 metri di una torre, o dai suoi piedi, alla propria protesta verso l'iniquità più palese d'una sanatoria-truffa. Lo facciamo così, dunque, solo ricordandolo, ma considerando questo fatto, l'insostituibile dato di partenza.

Lo facciamo guardando piuttosto a eventuali limiti, errori, o debolezze, perché una prospettiva di comunanza d'intenti genuinamente votata alla lotta contro ricatto e condizione di schiavitù, richiede innanzitutto questo.

Lo facciamo così, dunque, perché ogni processo di avanzamento di una lotta richiede anche di denunciare, senza mezzi termini, come peraltro ha già palesemente fatto l'assemblea del presidio, l’inqualificabile comportamento di chi, dal suo ambito, trovando spazio sui media e autoproclamandosi “portavoce” del Comitato Immigrati, è rapidamente passato (se non lo era sempre stato) dall'altra parte, lavorando costantemente per fiaccare la resistenza, insinuare paura e rassegnazione, operare separazioni tra buoni e cattivi, dando così una mano insostituibile alla repressione, che puntualmente s'è presentata per riscuotere la sua sporca, mortifera parcella.

Fin qui

Che la piazza fosse moderata nei contenuti e nelle forme era evidente fin dall’inizio: un carattere spiccatamente filo-istituzionale di sinistra evocava tavoli permanenti di discussione con la prefettura, insieme con associazioni, quali ARCI e ACLI, e sindacati Confederali, cui intendeva consegnare la vertenza sulla sanatoria-truffa; una conduzione iper-legalista e basata su continui appelli ad accettare 'ogni genere' di diktat della questura in merito alla gestione della piazza determinava una separazione transennata tra la torre e i presidianti, gli orari di chiusura delle serate, la selezione del materiale da inviare sulla torre, fino alla censura sul materiale propagandistico esposto.

Siamo convinti, tuttavia, d'avere fatto bene ad esserne parte, a starci dentro fino in fondo. Abbiamo guardato al grido lanciato nella pubblica piazza e al fatto che stava emergendo un raggruppamento di sans-papiers che, attraverso il presidio permanente, aveva in ogni caso deciso di alzare la testa; un raggruppamento mosso senz'altro dalla voglia di giustizia per la truffa subita, ma anche, più in generale, dalla voglia di riscatto da quella condizione sub-umana, cui la clandestinità forzata costringe.

Fin dall'inizio, però, non solo la nostra presenza, ma anche quella di svariati compagni intervenuti a sostenere il presidio di notte e di giorno, è stata vissuta da alcuni tra i “portavoce del comitato immigrati” (sottolineando “alcuni” perché altri, invece, proprio perché hanno simpatizzato con noi, hanno avuto il medesimo trattamento di seguito descritto) con evidente fastidio; un fastidio crescente quanto più, nelle assemblee del presidio, si costruivano relazioni e sintonie verso una lotta più decisa, autodeterminata e indipendente.

Così, queste stesse “rappresentanze” hanno ripetutamente innalzato fuochi di sbarramento ideologico verso molti, vuoi che si trattasse di gruppi di studenti non sufficientemente 'allineati', come occorso in un paio d'occasioni, vuoi che si trattasse d'altri.

Il gioco era attribuire, ad esempio, una 'natura implicitamente violenta a chi, 'azzardava' semplicemente la proposta d'un allargamento degli orizzonti della protesta, come ad esempio la denuncia del carattere razzista e repressivo dei nuovi-lager di Stato; cioè, si badi, di quegli stessi 'non-luoghi', i CIE, in cui, prima d'essere deportati nei loro Paesi d'origine, erano appena stati rinchiusi dieci compagni che avevano preso parte attiva proprio alla lotta di Brescia.

“Accuse” preventive (come sanno fare bene le polizie d'ogni tipo, di destra e di sinistra, e di tutto il mondo...) e peraltro immotivate (se si pensa che nulla, ma proprio nulla è accaduto...); ma “accuse” che configuravano bene, con sapienza d'anima bella, l'arrovesciamento di pertinenza del carattere violento e, in definitiva, delle sue origini: nel quadro che si dipingeva, a figurare violenti erano i compagni che contestavano quei lager e che volevano diffondere conoscenza, consapevolezza, e 'presa di parte' alle lotte che altri immigrati vi conducono al loro interno... i lager stessi...

Il fatto che fosse già drammaticamente emersa, dal seno stesso della lotta contro la sanatoria-truffa, la brutale realtà dei CIE, non sfiorava nemmeno la mente di questi amanti, non già della non-violenza attiva, che, scevra d'ogni ideologismo manicheo, ha pure una sua nobiltà e altezza etica, ma del peggiore e più codino legalismo statalista; questo sì, davvero violento.

Insomma, andavamo assistendo ad una sequenza di episodi francamente preoccupanti, che dire disdicevoli sarebbe troppo poco, cui sostanzialmente ci siamo opposti in maniera pacata, per evitare divisioni e fratture premature e dannose; senza quindi sconfessare né attaccare nessuno, ma solo insistendo sul merito e sul metodo, invitando tutti a riflettere sull'indebolimento della lotta, cui tutto ciò avrebbe portato.

La situazione è precipitata quando, in seguito al previsto incontro in prefettura, una parte del Comitato Immigrati dichiarandosi soddisfatta del risultato (in sintesi, il tavolo in quanto tale e le intese con le varie associazioni di centro-sinistra), ha proposto la smobilitazione completa, del presidio e della torre, per “continuare la battaglia sotto altre forme, e in altri luoghi”; in poche parole: "è stato bello avervi qui in piazza, ma adesso è meglio che ci pensiamo noi al vostro futuro!”.

La reazione della piazza è stata immediata e senza appelli, sostenuta dagli occupanti della torre che, all’unisono, dichiaravano di voler proseguire la lotta, perché il tavolo istituzionale era una magra conquista (se non dannosa, aggiungemmo noi) e che le possibilità di arrivare ad una soluzione concreta per gli immigrati truffati erano fumose, lontane nel tempo e, soprattutto, non per tutti.

A quel punto una parte del Comitato Immigrati, organizzata sostanzialmente nell’associazione “Todo cambia” (collegata all’ARCI-Milano), decideva di abbandonare il presidio, arrivando a sottrargli fisicamente parte dell’indispensabile infrastruttura, quali l’impianto, la cucina, l’elenco dei contatti e, addirittura, parte della cassa di resistenza. Sì, abbandonava il presidio, ma non rinunciava a continuare, per capannelli qua e là, la sua opera di dissociazione, dissuasione sommersa, e denigrazione 'alle spalle' di chi, in attesa che la torre, non altri, definisse il proprio limite di resistenza fisica, s'era schierato per il proseguimento della lotta, indipendentemente da quell'occupazione. Così, con 'scomuniche' interne al Comitato Immigrati stesso, alcuni erano accusati di essere “agenti al servizio dei provocatori del comitato antirazzista”, altri di “giocare sulla pelle di coloro che stavano sulla torre, costringendoli a restarvi”, e si tentava di spargere il credo che il semplice “continuare il presidio avrebbe significato esporre gli immigrati alla repressione poliziesca”.

Un atteggiamento inqualificabile, che non ha impedito al resto del presidio di continuare a sostenere gli occupanti della torre, nonostante fosse evidente che la spaccatura stava provocando dei contraccolpi. Infatti, la sottrazione di forza numerica al presidio, rendeva, almeno quantitativamente, più difficile il conseguimento dell'unico vero obbiettivo: la costruzione cioè d'un rapporto di forza, determinato, duraturo, cosciente, indipendentemente dal mantenimento dell'occupazione della torre. Così, indirettamente, gli occupanti della torre venivano spinti nel vicolo cieco di pensare alla propria discesa solo con l’ottenimento di risultati concreti in tema di permessi di soggiorno: ciò, senza rendersi conto che eventuali risultati del genere avrebbero potuto essere solo il prodotto d'un movimento in fase d'espansione, non di restringimento, e che i relativi tempi, in ogni caso, sarebbero stati incompatibili con una tenuta ad oltranza sulla torre, fisicamente insostenibile.

Da quel momento s'è vissuta una sorta di stallo, di attesa. Nessuno voleva mollare, ma non si sapeva bene quale mossa si potesse fare per 'schiodare' la situazione. La stessa consegna delle pratiche dei sans-papiers truffati, come previsto, non otteneva altro effetto, presso questura e prefettura, se non quello d'un ulteriore perdita di tempo.

A sbloccare la situazione è stata la notizia del rigetto della sanatoria, da parte della prefettura di Brescia, anche per l’ultimo dei sans-papier rimasto sulla torre; questo ha fatto comprendere quasi a tutti che la questura di Milano non ne avrebbe garantito in alcun modo la libertà.

La decisione della piazza è stata, allora, quella di produrre una “dichiarazione di discesa” contenente un bilancio dei risultati raggiunti (seppure molto parziali), la pretesa di incolumità e libertà per Abdel, e un appello per la continuazione e il rilancio della battaglia per un permesso di soggiorno per tutti. Si riteneva inoltre necessario tenere una trattativa direttamente in piazza, dopo una convocazione generale per le 18 di giovedì 2 dicembre, e, in caso di esito negativo, di rinviare il momento della discesa al giorno della manifestazione già convocata per sabato 4, con rapporti di forza, quindi di pressione, più favorevoli.

Questa possibilità però, in ragione proprio del nodo irrisolto di cui s'è detto, è stata vanificata da un’accelerazione della trattativa sotto la torre, che ha indotto gli occupanti a scendere non nelle migliori condizioni di numero di presenze. Un'ingenuità, basata forse sul pensiero di poter utilizzare le stesse modalità seguite da Amjad, che, colto da malore, era sceso qualche giorno prima, e a cui, in ospedale, era stato comunicato un semplice invito a presentarsi in questura.

Così, però, non è andata per Abdel, e si doveva prevedere, per ogni circostanza intercorsa, o quanto meno per sana diffidenza, che 'qualcuno' avrebbe voluto avere una qualche rivincita. Dunque, un errore grave questo, cui non è seguita la prontezza, (altro errore, questo pienamente a nostro demerito), di tentare il possibile, già all’ospedale Niguarda, per evitare il suo trasbordo prima in questura, poi in Corelli.

Il resto è cronaca che tutti conoscono: il giudice di pace ha confermato il trattenimento nel CIE, dopodiché Abdel è stato trasferito nel CIE di Modena e infine rimpatriato in Marocco. Almeno una riflessione, per imparare dagli errori, appare imperativa.

In ogni caso, nonostante quanto accaduto, il presidio di Imbonati non mostra di voler abbandonare il campo: una campagna per il rientro di Abdel, insieme con quello di Mimmo e degli altri deportati, è già stata annunciata a partire dalla manifestazione del 4 dicembre e dall’assemblea del giorno successivo. Mentre nei giorni seguenti, e in particolar modo proprio nella riunione di stasera, si è manifestata apertamente l’intenzione di dare continuità all’azione e di far nascere il ”comitato di lotta – Torre Imbonati”

D'ora in avanti

L'assemblea tenutasi domenica 5 dicembre ha avviato punti di riflessione sui quali tornare e dai quali, crediamo, non si potrà prescindere oltre:

· La conduzione, caso per caso, di una battaglia sulla questione immigrazione, favorisce illusioni e sconfitte. È l'intera questione dei dispositivi del permesso di soggiorno connesso al lavoro, della clandestinità, dei centri di identificazione ed espulsione, che va aggredita. Ogni azione che si sceglie di portare avanti necessita della consapevolezza che questa è un’esigenza ineludibile, pena la frammentazione e l’indebolimento della lotta stessa.

· Ciò che può valorizzare al meglio l'esperienza di lotta fatta, è il fatto che non si perda il percorso di progressiva chiarificazione interna fin qui avvenuto, si incentivi e approfondisca un percorso d'autorganizzazione, ancora ai primissimi passi, si individuino le modalità per la continuità dei rapporti intessuti sotto le tende e per la prosecuzione della battaglia. A tale proposito la preparazione di nuove ondate di protesta, attraverso l’estensione della campagna nei quartieri, sembra essere un valido indirizzo di lavoro.

· L'autorganizzazione e l'autonomia dei movimenti, degli immigrati e non, non sono mai un dato acquisito per sempre. Si fondano sulla capacità di individuare, di volta in volta, i loro nemici, le rappresentanze che le attorniano, le blandiscono, le insidiano. Un compito quotidiano. L’indipendenza dallo Stato, e da qualsivoglia mediatore più o meno istituzionale, con tutto ciò che comporta in termini di pratica politica, è prerogativa e condizione indispensabile per puntare ad un qualsiasi esito positivo delle lotte intraprese.

· L'idea di dare continuità a ciò che abbiamo appena abbozzato e iniziato a chiamare 'Comitato della Torre', pone tuttavia in prima evidenza la necessità che ciascuna delle componenti, a partire da quelle più organizzate, accetti di mettere dietro le spalle la propria singola rappresentazione, in favore dell'azione di lotta comune. In questo sta un'idea critica della rappresentanza, rispondente ai principi d'autorganizzazione, in base alla quale ogni eventuale, ipotetico, spiraglio di 'trattativa' potrebbe essere utilizzato unicamente da 'avvocati' delegati ad informare il comitato di lotta, non dal comitato stesso, tanto meno da singole sue componenti.

Fare tesoro dell'esperienza, dare nuova linfa alla battaglia.

9 dicembre 2010

Comitato antirazzista milanese

Fonte

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