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(14 Novembre 2010) Enzo Apicella

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La politica della teoria - sulle Tesi di Rifondazione

di Rossana Rossanda (da "La rivista de Il manifesto" del 25 gennaio 2002)

(7 Febbraio 2002)

Ha ragione Bertinotti quando osserva che non si misura un partito sulla lettera di Marx. Ma Rifondazione dichiara una svolta, e la ricava anche dall'esaurimento di «molte categorie marxiste». Vale la pena di riflettervi; non per amore dell'ortodossia ma per intendere le priorità che ne derivano.

A me le Tesi appaiono anzitutto la vera reazione al voto del 13 maggio, quando Bertinotti fece sussultare mezza Italia dicendosi soddisfatto dei risultati, che pure consegnavano il paese a Berlusconi. Quel sollievo rivelava quanto Rc si fosse sentita in pericolo, dopo che la corsa al centro dei Ds aveva impedito un'alleanza elettorale decente. Ma il 'siamo vivi' non cancellava il fatto che Rc non era riuscita ad attrarre neanche due o tre punti dei molti che i Democratici di sinistra sono venuti perdendo. Quali che ne siano le responsabilità - umori ed errori sia di Rifondazione sia dei Ds - non c'è stata neanche una modesta tendenza del voto a rafforzare Rc, cosa che avrebbe forse modificato i termini del congresso Ds. Le Tesi di novembre ne derivano che una sinistra proveniente dalla tradizione comunista - nella cui continuità, rifondata quanto si vuole, quel partito si era presentato ed era recepito - era esaurita.

E proprio mentre fuori di essa si alzava in varie parti del mondo un vasto movimento contro gli effetti devastanti della globalizzazione.

Poco dopo il 13 maggio esso aveva dato a Genova una dimostrazione della sua ampiezza, e a fine estate la marcia della pace di Perugia aveva una dimensione senza pari in Europa. Esisteva dunque una sensibilità militante che non si formava più sotto la bandiera rossa, ma alla chiamata dei no-global e dei pacifisti. Insomma era fra i no- global che la politica riprendeva respiro. Non si doveva concludere che una fase storica era davvero chiusa e sentirsi interpellati da quei movimenti non come aggiunta ma come una cesura con i parametri e gli orizzonti del movimento operaio comunista? E cambiare rotta? Questa è la scelta delle Tesi.

Il documento preliminare dava ai no-global una valenza epocale: «è possibile che nel mondo si stiano determinando le condizioni per un nuovo inizio del processo rivoluzionario» sino «al superamento della società capitalistica». Nelle Tesi il giudizio è stato moderato. Ma si riconferma la natura rivoluzionaria di quel formarsi di diverse culture militanti su obiettivi alti, non più immediati e sulla porta di casa, bensì a dimensione mondiale; e capaci di darsi continuità, consolidare saperi, autogestirsi, andare in piazza, suscitare una grande eco mediatica, custodendo ciascuno un'autonomia (Attac, Commercio equo e solidale, Lilliput, Nigrizia, Confédération Paysanne, Sem Terra, una eco della radicalità degli anni '70 nei Social Forum, altri), e muoversi su obiettivi comuni. E infine, nelle riunioni di Porto Alegre, non solo sfidare il 'pensiero unico' ma tentare un altro mondo possibile.

Rifondazione li aveva sempre appoggiati. Ma ora le Tesi ne deducono che la coscienza rivoluzionaria non fa più centro sul 'lavoro', ma nasce da molteplici soggettività, delle quali quella operaia è una; e così supera la dicotomia fatale del movimento operaio comunista, fra la navigazione entro i limiti del sistema politico ed economico, e il perpetuo rinvio a un domani socialista. Rc ne deriva una riflessione su di sé come partito, che deve assumere i movimenti quale riferimento senza proporsi di diventarne la classica avanguardia, e a questo fine deve rinnovarsi, aprirsi, mutare metodo di decisione.

Questa ridefinizione del soggetto, anzi dei soggetti di rivoluzione, che non fa più asse sul lavoro - cioè sulla lotta al capitale come modo di produzione e ordinamento sociale - si distacca da Marx? Sì.

In Marx la classe operaia è il soggetto rivoluzionario non perché gli operai pensino meglio ma perché è sul lavoro che il denaro diventa capitale, si forma il valore (la vexata quæstio resta la principale), si reifica l'umano in merce; la classe dei salariati è la sola che dall'abbattimento del modo di produzione capitalistico «non ha da perdere che le proprie catene». Inversamente non c'è rivoluzionamento finché questo rapporto di produzione permane (ed è qui che andrebbe cercata sul serio la radice dell'involuzione dell'Ottobre).

Le Tesi disegnano invece una soggettività rivoluzionaria che emerge anche in assenza d'una coscienza operaia e delle sue lotte all'interno del meccanismo capitalistico di produzione. Sembra una constatazione: le fiammate degli scioperi in Corea, cioè nell'enorme bacino salariato dell'Asia, o dell'Ups negli Stati Uniti, o di Vilvoorde in Europa, non hanno avuto né continuità né allargamento.

In Italia la conflittualità della Fiom non si estende ad altre categorie. Chi mette in difficoltà le 'sue' multinazionali è José Bové, non Cofferati né Thibault; e neppure la Fiom è in grado di mobilitare assieme contro una multinazionale i dipendenti negli altri paesi. È come se soltanto da una certa esternità si riuscisse a vedere la strategia del capitale, i suoi istituti, come il Wto, il Fondo monetario, le riunioni dei G8; come se soltanto fuori dalla immediatezza della propria collocazione sociale si desse, in Occidente, la capacità di astrazione necessaria a cogliere il meccanismo disuguagliante dell'attuale sviluppo e la devastazione della natura che ne consegue.

Bertinotti ammetterà che è un ben curioso scardinamento della coscienza dal sociale, e proprio nel momento in cui le Tesi si prefiggono di tornare essenzialmente a esso; una sorta di nuova autonomia del politico, neppur più mediata dal partito ma fiorente di molteplici fiori su un terreno soprattutto etico. Non è poco; non c'è rivoluzionamento senza passione morale. Ma - si direbbe - a condizione di restar alle soglie del modo di produzione, fissando lo sguardo sulle sue conseguenze macroeconomiche nella distribuzione. Il marxista perplesso obietta anche dell'altro. Non tutta la contestazione no-global è limpidissima: nell'adesione dell'Afl-Cio a Seattle un riflesso protezionista c'era, come sempre quando una categoria si vede minacciata nella concorrenza da altra manodopera (cosa che Marx ben conosce); così come nella difesa delle civiltà sconquassate dall'irruzione del mercato globale si esprime un discutibile tentativo di salvare forme di produzione arcaiche.

(Quando Cavallaro lo notava quest'estate ha suscitato una tempesta.) Sennonché - questa è l'obiezione - per non essere riconducibili al paradigma marxiano i popoli di Seattle non sarebbero né sostanza né accidente, nulla? «Tenetevi il vostro Marx - rispondono - e continuate a non far niente mentre noi contestiamo i potenti in faccia al mondo». Già, ma la loro non sarebbe una delle molte lotte che si risolvono, sempre marxianamente, in modifiche tutte interne alla borghesia? Si poteva dire lo stesso, e qualcuno lo ha fatto, del secondo confitto mondiale. Se riflettessimo, invece che su quel che non sono, su quel che sono, e comprendessimo che il loro impatto e la loro trasversalità sta proprio nel non mettere in questione il modo di produzione capitalistico in sé, ma la sua versione più belluina, reaganiana-thatcheriana, oggi diventata dominante? Sono insomma una grande protesta antiliberista, il rifiuto che l'accumulazione del capitale sia l'unico metro e motore della società? Manterremmo una diffidente distanza? Ci offriremmo a ogni passo di educarlo? E soprattutto, come spieghiamo, noi marxisti, che la classe operaia mondiale nel momento della sua maggiore estensione non ne sia all'avanguardia, anzi, spesso neppure alla retroguardia? E non perché li giudichi troppo poco radicali?

A queste domande occorre dare una risposta da parte di noi marxisti inveterati. Per Marx andava da sé che l'estensione del capitale produceva l'estensione del proletariato come soggetto antagonista, anzi suo affossatore, Perché esso è composto dagli spossessati di quell'essenzialmente umano che è la forza di lavoro (e il rapporto non muta, anzi, quando diventa forza di lavoro intellettuale). Un uomo è un uomo - avrebbe detto un secolo dopo Bertolt Brecht - non è una merce e non può accettare di esserlo. È figlio della Rivoluzione francese, Marx, e vede la libertà impressa nell'uomo per natura: basta disvelare l'arcano del denaro e dell'appropriazione del lavoro eccedente.

Ma non è andata così. Perché? La riposta può essere quella di Huberman e Sweezy sulla complicità della classe operaia occidentale nei bottini dell'imperialismo. Possono esserne causa le modifiche tecnologiche dell'organizzazione del lavoro, o del vissuto soggettivo del lavoro detto impropriamente 'atipico' (o ancora più impropriamente 'i lavori'), oppure la paura di perderlo in tempi di precarizzazione e riduzione della manodopera in seguito a ristrutturazioni, concentrazioni, esternalizzazioni, o l'ambiguità concreta del lavoratore quando diventa azionista dei suoi fondi pensione, e non solo di quelli. Può essere l'effetto a lungo termine dell'implosione dei socialismi reali, che per settant'anni parvero garantire che un altro modo di produzione poteva esistere.

Quella che meno persuade è l'affermazione delle Tesi per cui sarebbe insito nel movimento operaio comunista - quello decisivo nel Novecento - la propensione al compromesso; le Tesi dicono «togliattismo», forse per salvare Gramsci prima e Berlinguer dopo, forse per necessità polemiche interne, poco tenendo conto di come e perché si sia formato il più grande e conflittuale partito operaio d'Occidente. Converrebbe far meno torto a se stessi.

Ma questo è secondario; un documento di tesi non è un saggio di storia, conta quel che ne deriva per l'azione politica. Qui Rifondazione si contraddice: il discorso sul lavoro resta la parte teoricamente più debole delle Tesi e, a me sembra, anche della replica di Bertinotti a Cavallaro. Con una separazione fra materialità e soggettività, sociale e politico, che viene da una parte degli anni '70 e '80, e - se si vuole dare i nomi - più da Revelli o «Carta» che dal Negri evocato da Cavallaro: il sulfureo professore non scardina la soggettività antagonista dalla materialità sociale, insiste sulla messa al lavoro da parte del capitale odierno non solo di molte più figure che cinquanta anni fa, ma sulla complessificazione della prestazione operaia, l'operaio o salariato essendo diventato portatore di un general intellect che viene dall'esperienza relazionale moderna (comunicazione, saperi rapporti, senso delle connessioni). Va letto in questo senso Il famoso passo dei Grundrisse sul diventare non 'il lavoro' ma 'il tempo di lavoro' una ben misera base della ricchezza 1. È il sempre più diffuso sapere della multilateralità dei rapporti la forza produttiva che diventa decisiva. Ma mentre la moltitudine negriana resta connotata dal processo produttivo, nelle Tesi si insiste su un pluralismo di soggetti e culture e sensibilità 2.

Nella replica a Cavallaro, Fausto Bertinotti tenta di chiudere questo iato rimandando alle nuove condizioni della soggettività operaia che si verificherebbero con i mutamenti attuali 'nel' capitalismo, e non 'del' capitalismo. Grazie al mutamento delle sue caratteristiche interne. Ora, dando per ovvio e noto che il capitale si rivoluziona di continuo e precisando, cosa ugualmente ovvia, che il modo di produzione è più vasto del rapporto di produzione, comprendendo le forme di società e relazioni e ideologie che formano una 'civilisation', e chiamate su questo la testimonianza di Gramsci e quella, meno inerente alla nostra parte, di Hannah Arendt (che al marxismo non si rifà), resta la domanda che Cavallaro, e ora anche io, avanziamo: bene, l'attuale fase capitalistica produce una moltitudine di soggetti parzialmente lesi, impoveriti, o critici ma tocca o no le figure 'del' rapporto di produzione? Oppure rispetto alla moltitudine delle altre figure quella del lavoro, intellettuale o no, diventa secondaria perché è proprio il rapporto di salariato o la sua proiezione che è modificata? La riposta di Bertinotti mi lascia sulla mia fame. Se lo intendo bene, egli parte dall'ipotesi che, siccome la valorizzazione del capitale si farebbe più che sul lavoro su altri passaggi (che Marx definirebbe inerenti alla circolazione) 'obiettivamente' lo sfruttamento diventa ai fini del capitale meno importante. La premessa è addirittura (credo assieme alla pauperizzazione) il più venerando casus belli fra marxologi. Ma, anche se fosse vero che il lavoro conta sempre meno per il capitale, sarebbe perciò meno sfruttato, alienato, mercificato? Da un lato la furia con la quale il padronato ne persegue costi, normativa, diritti acquisiti, stabilità e autorganizzazione dice d'un ben bizzarro 'contare meno', dall'altro quel 'meno' resta sempre la classe più reificata. O no? Lo resta. La riapproriazione di sé passa sempre dalla lotta nel e al processo di produzione. E sorprende che le Tesi la secondarizzino, quando Rc è la sola forza politica che in questi anni ha ripreso tenacemente il conflitto di lavoro. E che oggi appoggia intelligentemente la Fiom. A essere maliziosi, la svolta potrebbe fin essere interpretata come un estremo bisogno di alleanza tra la faticosa resistenza operaia italiana e un movimento etico-culturale che mette in causa la crudeltà della logica globale del capitale. Ma non è luogo di malizie: le Tesi non si avventurano a sostenere che si può dare una rivoluzione senza l'antagonismo operaio: ma cessano di qualificare l'antagonismo con questo non casuale aggettivo. E ne spostano il protagonista principale.

E però le Tesi non si compromettono nel riconoscere che la fase non consente di metter all'ordine del giorno la rivoluzione proletaria, e l'alternativa politica a tempi riconoscibili che si può perseguire è contro il liberismo. Questo passaggio le Tesi non lo enunciano. È più limpido nelle obiezioni di Bertinotti a Cavallaro. Forse è sembrata una tappa modesta? Ma l'antagonismo diffuso rischia di stare dovunque e da nessuna parte, raggrumandosi solo in grandi manifestazioni.

Seattle ha bloccato quella riunione del Wto, ma il Wto oggi è più forte. Certo, a ben guardare, l'altro mondo possibile per cui i no- global si sono battuti finora appare più vicino a una intelligente regolamentazione del capitale che alla sua eversione, più affine a un keynesismo aggiornato, per una redistribuzione delle risorse e un vincolo al mercato in vista di un accrescimento della domanda, che a un ribaltamento del sistema di proprietà e di produzione. Nello scorso numero della «rivista» Mario Pianta dimostrava per Sbilanciamoci come sarebbe possibile spostare le voci, per esempio della Finanziaria, ai fini d'una protezione più equa delle fasce deboli senza assaltare il Palazzo d'Inverno.

Su questo insiste Bertinotti nella replica a Cavallaro, ed è un chiarimento. E ha ragione di precisare che, se il capitalismo resta la forza dominante e si tratta d'una modifica 'nel', il metterne in causa le attuali forme di dispiegamento e conseguenti iniquità non è un riproporre la lotta in due tempi; anche se si tratta, e quali che ne sia la radicalità, d'una 'guerra di posizione', essa muta lo scenario e i rapporti di forza.

Nel 2002 questo conflitto si presenta singolarmente aperto in Europa: sulla difesa delle conquiste sociali e della spesa pubblica, messa in causa dal Patto di stabilità, nonché dall'andamento fascistoide che assume in Italia l'attacco ai salariati e ai diritti non solo sociali, ma elementarmente civili conquistati nel 1948 (giustizia e non solo). Difenderli, recuperarli, andare oltre nella contrattualità e nella conflittualità - riconfermando e aggiornando il dualismo che era evidente nel modello fordista e si rifletteva nelle politiche keynesiane - non è una partita chiusa. E se prendesse forza un'Europa dei lavoratori e dei no-global, essa diventerebbe il vero interlocutore per quel mondo trasversalmente percorso da omogeneizzazioni imperiali o imperialistiche che, come rilevano le Tesi, sono diventati oggi i paesi terzi.

Ma proprio se si assume questo punto, non si spiega la sottovalutazione dell'azione politica nelle istituzioni, che nelle Tesi paiono condannate all'insignificanza o al puro compromesso, pratica cui è ridotta la 'mediazione politica'. E in verità, come negare che non si capisce che cosa distingua in Europa i centro- sinistra dalla linea monetarista dei governi e delle Banche centrali.

Ma una proposta economicamente compatibile e politicamente esplosiva come quella di Attac non si realizza che in sede istituzionale, va imposta ai governi, almeno quelli europei. L'azione politico- istituzionale, non riducibile alla democrazia diretta, resta ineludibile; fare a meno della rappresentanza è un flatus vocis.

Tanto più se si dichiara la compatta totalità socio-politica del sistema, fino a spostarne i comandi nell'astrazione di un non-luogo (dove c'è molto di vero): come affidarne la contestazione a movimenti esterni, per lo più molecolari o soltanto di protesta, non a caso scanditi dal calendario degli incontri in cui si fanno visibili, Fmi, Wto, G8 eccetera? I no-global costruiscono relazioni parallele di notevole significato, ma non sono in grado di modificare i meccanismi di comando. Poco che contino le dimensioni istituzionali o del superstato europeo, è in esse che si impediscono o si avanzano soluzioni. Mai come nella globalizzazione, che non si misura in quantità economiche ma soprattutto di ristrutturazione politico- sociale, è obsoleta l'oscillazione fra tutto politico-tutto sociale che è propria da oltre un secolo della sinistra europea.

Ma forse nelle Tesi certi accenti polemici mirano a raddrizzare energicamente il battello, proprio e altrui. Anche su questo punto la replica di Bertinotti a Cavallaro segna una differenza. Ma a che giovano, anche in essa, alcune impuntature nominalistiche? Confesso che mi sfugge l'enfasi nel negare che oggi non siamo più all'imperialismo di Lenin. Buon dio, è passato un secolo, l'imperialismo non è un paradigma del modo di produzione, è una strategia delle grandi potenze. Come sarebbe la stessa dopo il 1917 e il 1989, a panorama mondiale totalmente mutato? E non è che in mezzo ci sia una parentesi, che la storia sia stata sospesa e riprenda tale e quale. Il fatto è che su questo punto effettivamente si riprende una tesi di Negri e Hardt secondo la quale il dominio capitalistico avverrebbe interamente attraverso il meccanismo di omologazione/inclusione del processo economico, rendendo inutile l'imposizione d'un potere territoriale e militare, e ancor più la rapina, con guerre, commerciali e non, attuate dalle potenze dominanti. In particolare dagli States, per una loro connaturata tendenza all'insularità e un gene antifascista (dove Tocqueville, poveretto, incontra l'I love NY). C'è sicuramente una verità nella straordinaria capacità di inclusione del mercato, ma com'è che ci troviamo in una guerra potenzialmente illimitata, la terza condotta dagli Stati Uniti con la cosiddetta 'comunità internazionale' al traino? Perché gli Usa impiegano per il proprio armamento, nel 2002, 344 miliardi di dollari (più che la Russia, la Cina, la Francia, la Germania e la Gran Bretagna messe assieme 3). Con il risultato che stanno riarmando anche le potenze di seconda fila, Cina, Russia, India e, si dice, Europa? Messi in pallottole di zucchero, osserverebbe ogni no-global, quegli investimenti produrrebbero un mondo diverso. Il liberismo si ferma alle porte dell'industria militare, osserverebbe invece un keynesiano. Gli Stati nazionali non sono così estinti. Forse non ha torto Immanuel Wallerstein quando pensa che fra processi economici e politici non c'è immediata corrispondenza, e prevede che la Cina diventerà la massima potenza asiatica e contenderà agli Usa di mettere ulteriori zampe nel continente. E che neanche i rapporti fra capitale anglosassone tedesco e americano andranno lisci, non sono animali tendenzialmente comunitari. È piuttosto da pensare che le guerre, commerciali e territoriali, potrebbero riavviarsi con grande asprezza proprio perché non ci sono più due idee di società a contrapporsi con un bilanciamento delle forze a mo' di deterrente.

Insomma, mala tempora currunt. Se Rifondazione fosse il mio partito, mentre ne sono soltanto amica, la vorrei con la medesima passione ma con la cintura più saldamente allacciata nelle svolte.

note: 1 K.Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica (Grundrisse), Quaderno VII, 593, Einaudi, Torino, 1976. Il passo più citato è: «in questa situazione modificata non è né il lavoro immediato, eseguito dall'uomo stesso, né il tempo che egli lavora, bensì l'appropriazione della sua forza produttiva generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale - in breve, lo sviluppo dell'individuo sociale che si presenta come il grande pilastro della produzione e della ricchezza. Il furto di tempo di lavoro altrui, sulla quale si basa la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile in confronto a questa nuova base creata dalla grande industria stessa». Nella letteralità e nel contesto questa frase, come spesso nei Grundrisse aggrovigliata e non agevolata dalla traduzione, precisa l'impossibilità, meglio la mistificazione, nel misurare in quantità di tempo l'atto lavorativo arricchito dai saperi dell'individuo sociale, rispetto alla forza bruta erogata in passato. Cesare Romiti lo ha detto al meglio parlando della 'qualità totale'. Impossibile dedurne che fonte del valore diventerebbe altro dal lavoro; tanto meno la produzione del denaro da se stesso come bella finanziariazzione, che Marx ricondurrebbe ancora oggi ai processi di circolazione. Più evocativa potrebbe essere la frase di poco successiva: «...il processo produttivo materiale immediato viene a perdere esso stesso la forma della miseria e dell'antagonismo», ma alla condizione di dare al «processo produttivo materiale» un significato diverso dalla prestazione lavorativa complessificata dal sapere sociale, interpretazione poco difendibile.

2 È vero che questo passaggio non avviene solo nelle tesi di Rifondazione. Se si concede troppo alla tendenza, non si spiega perché, ancora una volta, le nuove figure del lavoro siano così singolarmente assenti dalla contestazione concreta al capitale, liberista o no. Quando non sedotte da alcune liberalità che gli consentono/impongono e la tecnologia e l'organizzazione del lavoro, fino a teorizzare quel che Berlinguer avrebbe chiamato 'elementi di comunismo già esistenti'.

Rossana Rossanda

Fonte

  • (da "La rivista de Il manifesto" del 25 gennaio 2002)

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