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Ricordando Stefano Chiarini

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(6 Febbraio 2007) Enzo Apicella
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Torna "Milano, Corea" la rincorsa alla modernità di Alasia e Montaldi.

(5 Gennaio 2011)

Milano, Corea di Franco Alasia e di Danilo Montaldi fu un libro famoso negli anni sessanta, ripubblicato con aggiunte nel 1975, anno della morte di Montaldi, appena quarantaseienne. Fu, in quei decenni, citatissimo, perché aveva fatto scuola, a sinistra, di storia italiana, di storia del boom alla luce delle sofferenze che ne erano state alla radice, di sociologia nel corpo della società, di una letteratura che dava voce a chi non avrebbe mai avuto la possibilità di dire qualche cosa della propria esistenza. Milano, Corea venne pubblicato la prima volta proprio cinquant’anni fa da Feltrinelli e quella prima edizione viene riproposta dall’editore Donzelli (con una introduzione di Guido Crainz).

Milano, Corea giunse nello stesso anno in cui nei cinema si proiettava Rocco e i suoi fratelli di Visconti, un’altra storia di immigrazione a confronto con la civiltà industriale del Nord, qualche anno prima di un altro “magistrale” (definizione di Guido Crainz) libro sull’Italia della ricostruzione e del boom, L’immigrazione meridionale a Torino di Goffredo Fofi (ripresentato l’anno scorso da Aragno), insieme a inchieste giornalistiche sull’Espresso e sul Giorno o su riviste di cultura come Nuovi argomenti (Inchiesta alla Fiat, del 1958, a firma di Giovanni Carocci).

Milano, Corea fu esempio di ricerca militante: indagare le “coree” milanesi, mentre si intravvedevano tutti i segni della ormai trionfante belle epoque nazionale, contrapporre le rovine delle periferie in una città caposaldo del nuovo benessere, svelare un’altra volta in quel momento i meccanismi di sfruttamento a danno dei più e di arricchimento a vantaggio dei pochi… Un limite di Milano, Corea fu nell’apparire quando le “coree” (corea rimanda alla guerra che si combatteva in quegli anni) non racchiudevano più l’alterità della cultura d’origine, tutti propensi all’assimilazione in una società considerata all’unanimità moderna in nome dei “consumi”. In un certo senso Milano, Corea guarda al passato, ricostruisce una storia, quando già si profila un’altra Italia: dal governo Tambroni, dalla repressione del luglio ’60, alla caduta del primo centro-sinistra organico, ai piani del generale De Lorenzo. Paradossalmente, a leggerlo oggi, appare più vicino, perché i destini di due lontanissime immigrazioni si sovrappongono, nel desiderio comune di abbandonare una condizione miserabile, nei pregiudizi dell’accoglienza, persino nell’arbitrarietà delle leggi.

Milano, Corea nacque grazie al lavoro di Franco Alasia, operaio metalmeccanico della Breda, a Sesto San Giovanni, autodidatta che nel 1947, ventenne, aveva conosciuto Danilo Dolci, studente d’architettura al Politecnico, insegnante allora in una scuola serale e presto animatore di una forte battaglia sociale in Sicilia. Dolci riconobbe il vigore intellettuale e morale del più giovane Franco, che divenne presto suo collaboratore. Quando Dolci fu incarcerato a Partinico, Alasia (come capitò ad altri giovani) scese al Sud e lo aiutò. Dolci, al Sud, aveva intuito l’importanza di una indagine sulla “modernità” del Nord. Alasia, dopo quell’esperienza a Partinico, rientrò a Milano, raccolse l’invito e cominciò il suo vagare nelle nuove periferie milanesi, paesaggio metropolitano di cascine fatiscenti abbandonate dai contadini della provincia diventati operai e di case, “cubi” li definisce Montaldi, cresciute abusivamente in una notte (come capitava in una periferia romana nel modesto film di Vittorio De Sica, Il tetto, del 1956), baracche addossate in un geografia informe, del tutto casuale.

Alasia intervistò ex braccianti divenuti muratori, manovali, qualcuno operaio nelle grandi fabbriche metalmeccaniche, disoccupati, venditori ambulanti tartassati dai vigili (come gli odierni vu’ cumprà), prostitute. Erano meridionali, terroni, e veneti (moltissimi dal Polesine, sommerso dalle piene del Po del 1951), ma anche lombardi delle province povere. Alasia li ascoltò e trascrisse, senza servirsi di un magnetofono, alla lettera, parola per parola, lasciando intatta la lingua dei suoi interlocutori. Danilo Dolci presentò quelle interviste all’editore Feltrinelli, il quale decise di pubblicarle affidando la presentazione a un giovane sociologo, Danilo Montaldi, che percorse in lungo e in largo la città per annotarne i “comportamenti” e compose il proprio quadro elencando numeri e illustrando tabelle, ma soprattutto descrivendo e confrontando la recente memoria della miseria che si sognava di lasciare, l’illusione del benessere, l’incontro con la modernità, l’esperienza di una nuova miseria. Il saggio di Montaldi comincia raccontando una condizione che sembra immutabile: «Il lavoratore industriale che arriva al mattino in Città dal Bergamasco tra viaggio e lavoro spende dalle 15 alle 18 ore quotidiane. Non diversamente dal tessitore del 1830, l’operaio che abita a Codogno si alza alle 4 e mezzo del mattino... L’alba della Città comincia a tanti chilometri di distanza con un risveglio di massa».

Un secolo dopo, dopo la Liberazione, la storia si ripete e si ripetono le regole imposte dal capitalismo di ogni epoca, promuovendo o escludendo. Un’infinità di quegli immigrati resta ai margini, afflitta dai costi, anche imprevisti, della città («In Sicilia – dice un immigrato – il quaranta per cento della classe operaia se ne vanno scalzi, qui non è possibile»). Il “randa”, il randagio, la prostituta diventano protagonisti di quelle “coree” e la riflessione è subito sui guasti che la società d’arrivo provoca. Chi impara a usare quelle “regole”, progredisce e arricchisce: il “cubo”, cioè la casa, cresce ad esempio su una cantina che verrà subito subaffittata, crescerà di un piano e a quel punto verrà subaffittato il primo piano, il pezzo di terra acquistato dal contadino verrà rivenduto raddoppiando il prezzo all’ultimo arrivato dal sud. Il lavoro è una ricerca disperata, che impone a chi cerca le condizioni più dure: ecco il “sommerso”, il “nero”. Il “posto” da operaio è un sogno: «Sono arrivato a vivere nella nazionalità operaia», dirà orgogliosamente Vito.

Una casa e un lavoro a qualunque costo: comandava ancora la legge fascista, che per frenare le migrazioni interne pretendeva casa e lavoro certi per concedere la residenza, cioè la possibilità di risiedere in un determinato comune, la libertà di circolare non era garantita. La maggior parte degli immigrati dal Sud e dal Veneto rimasero per molti anni clandestini in Italia. Come oggi tanti filippini o senegalesi o sudanesi, costretti nelle baraccopoli, occultate dentro vecchie capannoni industriali abbandonati. Ecco l’attualità.

Danilo Montaldi (scrittore e scienziato di grande passione, capace d’essere vicino alle persone che animano la sua ricerca) e Franco Alasia documentano la fine di un’epoca, che lascerà molto in eredità, tutte le malattie di un capitalismo italiano perennemente arretrato, malattie che si sono cronicizzate: speculazione, sfruttamento, ricorso al lavoro nero, contratti elusi, malgrado la pagina successiva, quella del decennio dei Sessanta, si apra sui grandi scioperi, che vedranno in prima fila tanti giovani, nuovi operai e studenti. In jeans e maglietta a righe.

4 gennaio 2011

Oreste Pivetta - L'Unità

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