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(Lotte operaie nella crisi)

Verso il 28 gennaio, per un vero sciopero generale

Marchionne e i suoi servi non vincono il referendum farsa: ora devono essere sconfitti sull’unico terreno congeniale alla classe operaia, quello della lotta

(27 Gennaio 2011)

Come e più che a Pomigliano, gli operai Fiat hanno sferrato a Mirafiori il secondo, sonoro schiaffo a Marchionne ai sindacati gialli e neocorporativi Fim, Uilm, Fismic e Ugl.
Il referendum-farsa, messo in piedi con la solita arroganza padronale, con la pistola puntata alla tempia dei lavoratori e dietro l’eterno ultimatum del “prendere o lasciare”, ha consegnato alla Fiat una maggioranza striminzita, resa tale solo grazie al voto plebiscitario di quegli impiegati portati a votare in massa dall’azienda pur non essendo minimamente coinvolti dalle nuove norme schiavistiche introdotte con la “New-Co”. Nonostante il terrorismo mediatico orchestrato da Marchionne con l’ausilio di quasi tutti i mass-media e gli organi di stampa teso a dipingere qualsiasi opposizione come estremista, brigatista o nella migliore delle ipotesi disfattista, nonostante le minacce e le rappresaglie compiute in questi mesi dalla Fiat nei confronti di chiunque si sia opposto ai piani padronali, nonostante l’appoggio pressoché unanime del parlamento e di tutti i principali partiti del tripolarismo borghese, nonostante i ricatti e lo spettro della chiusura e della disoccupazione paventato nel caso i SI non passassero, gli operai hanno respinto quest’infame accordo esprimendosi a maggioranza per i NO in tutti i reparti: e non è un caso se il No è prevalso in maniera tanto più netta proprio in reparti come il montaggio, dove i ritmi di lavoro sono già insostenibili e dove provvedimenti come le misure antisciopero e la riduzione delle pause vengono resi ancor più intollerabili.
Il referendum, per il contesto in cui è stato indetto, per le sue modalità di svolgimento e per il clima terroristico cui abbiamo accennato, non era né sarebbe mai potuto essere il terreno congeniale per una classe operaia oggi frammentata, disorientata e disarmata per opera di quei sindacati, ivi compresa la Cgil, che per decenni ne hanno sancito la resa senza condizioni attraverso migliaia di accordi-bidone e leggi precarizzanti: il fatto che neanche in un tale contesto Marchionne abbia conseguito il plebiscito a cui ambiva, e che senza i trucchi della Fiat esso sarebbe stato sonoramente bocciato anche nell’urna, è il segno inequivocabile di come, a Mirafiori come a Pomigliano, a Cassino come a Melfi, i lavoratori siano ancora disponibili a riprendere a parlare l’unico linguaggio che il padrone è capace di capire: il conflitto, la lotta, lo scontro di classe faccia a faccia, libero da falsi democraticismi, ipocriti appelli all’”unità delle forze produttivi”, sterili mediazioni al ribasso.

L’illusione, coltivata da molti operai che per disperazione sono andati a votare SI, che i nuovi sacrifici derivanti da tale accordo e la cancellazione dei più elementari diritti saranno compensati dalla continuità delle produzioni di autoveicoli e quindi dalla garanzia del posto di lavoro, è una chimera che si sgonfierà molto presto.
La Fiat, che nella sua storia oramai centenaria ha saputo riempirsi le tasche, salvare i profitti e i gioielli di famiglia Agnelli nonostante gestioni fallimentari e garantire stipendi faraonici ai suoi manager grazie ai fiumi di denaro pubblico (ovvero sempre dei lavoratori) elargiti dallo Stato in ogni forma, quando si è trattato di tutelare gli interessi operai non ha mai mantenuto un solo impegno.
Oggi, nel pieno di una profonda crisi internazionale sia del mercato dell’auto, sia del capitalismo stesso come modo di produzione, Marchionne sbandiera agli operai di Mirafiori un Piano di rilancio basato sulla produzione di 6 milioni di SUV targati Chrysler, senza uno straccio di piano produttivo, ma soprattutto senza chiedersi chi potrà permettersi, nel contesto attuale, l’acquisto di tale autoveicolo di lusso.

La verità, ovviamente, stà da tutt’altra parte: come già affermammo in occasione dell’accordo-capestro su Pomigliano, i disegni della Fiat puntano a smantellare, non certo a rilanciare la produzione di autoveicoli, spostando il baricentro delle attività del gruppo nel campo della speculazione finanziaria (cui Marchionne e i suoi soci sono già legati mani e piedi) e soprattutto ad utilizzare le nuove norme come testa da ariete al fine di generalizzare il modello-Fiat a tutte le fabbriche e all’intero mondo del lavoro italiano. La farsa dell’uscita da Confindustria, in quest’ottica, è solo un passaggio tattico per aver mano libera su licenziamenti, norme antisciopero e supersfruttamento operaio, nell’attesa che per legge, o attraverso un altro patto neocorporativo con i sindacati gialli, si metta mano al definitivo smantellamento del contratto collettivo nazionale di lavoro. Fim- Uilm- Ugl e zerbini del padrone vari, che intendevano “rassicurare” gli operai sul fatto che Pomigliano era solo un’eccezione dettata dalla particolarità meridionale, ora sono serviti: se questi signori avessero solo un minimo di dignità e pudore dovrebbero tenersi ben alla larga dai cancelli di qualsiasi fabbrica, ma sappiamo bene di chiedere troppo a degli sciacalli prezzolati, che in quanto tali non possono conoscere il senso della parola vergogna.

In questo clima di offensiva generalizzata da parte padronale, va salutata positivamente la chiara, seppur tardiva, presa di posizione della Fiom, non a caso bersaglio in queste settimane di un opera di linciaggio e di isolamento sindacale e politico analoga a quella compiuta per tutti questi decenni nei confronti del sindacalismo di base e di ogni lavoratore combattivo.
Anche chi, come noi, in questi anni non ha certo fatto sconti alla Fiom in occasione degli innumerevoli accordi al ribasso siglati in nome della concertazione e delle logiche di compatibilità col capitale, non può negare come il peso di questo sindacato, e in primo luogo dei suoi operai, sia oggi determinante per inaugurare un nuovo ciclo di lotta capace di contrapporsi con forza ai disegni padronali.
D’altra parte, non si può non vedere come la Fiom si trovi di fronte a un bivio senza precedenti: il venir meno del quadro della concertazione, e il prosciugamento di ogni opzione socialdemocratica e riformista nell’attuale fase del capitalismo italiano ed europeo, rendendo i suoi vertici orfani di quel sistema di prebende, favoritismi e collateralismi (vedi il famoso 33% finora assicurato nelle Rsu) che hanno fatto felici le burocrazie sindacali e affossato anni di lotte operaie, può in prospettiva liberare nuove forze disponibili al conflitto e sottrarle alla gabbia del sindacalismo confederale, solo se il movimento di classe sarà in grado di mobilitarsi in maniera autonoma e in difesa solo e soltanto dei propri interessi.
Per dirla in breve: o si lavora alla ricostruzione di veri comitati di lotta autoconvocati capaci di imporre a tutte le sigle in campo, in primis alla Fiom stessa, una piattaforma e un percorso di mobilitazione che si opponga frontalmente ai piani di Marchionne, Governo, Confindustria e false opposizioni parlamentari, oppure anche questa lotta si ridurrà a una disputa avente come unico oggetto il se e il come la Fiom dovrà sedersi al tavolo delle trattative e/o nominare i suoi rappresentanti in organismi sotto il completo controllo padronale.

Le migliaia di No emersi a Pomigliano e Mirafiori vincolano chiunque intenda rappresentarli ad essere conseguente, poichè nessuno tra coloro che si è opposto all’accordo potrà mai sedersi al tavolo con Marchionne o con la Fiat senza barattare, sull’altare di logiche di convenienza ed autoconservazione, la dignità, il coraggio e la disponibilità alla lotta che quei no hanno espresso: i sono mezzucci e gli stratagemmi servono solo a chi, come la Cgil nazionale, ha a cuore solo la propria sopravvivenza come apparato e in nessun conto la dignità dei lavoratori.

Che i padroni vedano Mirafiori e Pomigliano solo come l’inizio di una guerra di lunga durata contro la classe operaia e l’insieme dei proletari si è reso evidente già dalle dichiarazioni dello stesso Marchionne, che a poche ore dal referendum ha chiarito che la stessa sorte toccherà presto anche a Melfi e Cassino. D’altra parte, il piano Fiat oggi è solo la punta dell’iceberg: la perdita di circa 8.000 euro annui per ogni operaio a causa dell’ondata di casse integrazioni, e il cosiddetto “collegato lavoro” (approvato qualche settimana fa nel totale silenzio dei mass media e con l’assenso di PD e finte opposizioni) col quale, tra l’altro, viene di fatto reso impossibile qualsiasi ricorso legale per le violazioni più palesi delle norme sui contratti a tempo determinato, sono solo gli esempi più lampanti della portata generale dell’attacco ai salari che è in corso.

Mentre su tutto il mediterraneo (Tunisia, Algeria, Egitto, Albania, Grecia, ecc.) divampa l’incendio delle rivolte contro la fame e la miseria prodotta dalla crisi mondiale del capitalismo, nel nostro paese il fronte proletario si presenta allo scontro in maniera ancora troppo disorganica e frammentata, con lotte a macchia di leopardo, spesso limitate a un singolo settore, vertenza o categoria e prive di un adeguata forma di coordinamento a livello almeno nazionale. Ciò è il frutto da un lato della persistente, nefasta influenza del sindacalismo confederale e dei rottami della sinistra istituzionale (spesso camuffata dietro presunte sigle di “movimento”), dall’altro dall’assenza di un organizzazione autonoma di classe capace di avere un peso e un influenza significativa in queste lotte.
Per colmare queste lacune, il primo passo può e deve essere il lancio di una campagna di mobilitazione dal basso al fine di arrivare a un vero sciopero generale continuato, capace di convogliare attorno agli operai a ai lavoratori delle fabbriche in crisi tutte quelle forze sociali (studenti, precari, disoccupati, ecc.) che in questi mesi sono scesi in lotta contro le politiche di fame e di rapina imposte dai padroni e dai loro governi.

Contro Marchionne, i suoi governi e i suoi sindacati amici
Per un blocco autonomo di classe

Napoli, 26-01-2011

Associazione Marxista Unità Comunista

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