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BATTISTA, IL “TERZISMO” E LA BANALITA’ DEL BENE

(7 Febbraio 2011)

da Cassandra

Pierluigi Battista è una delle “firme” che maggiormente esemplificano alcuni tratti dell’odierno dibattito pubblico italiano, a prescindere dall’eventuale qualità dei suoi scritti e dei suoi numerosi interventi televisivi.

Invero, mai avremmo pensato di dover dare tanto rilievo ad un autore conosciuto negli anni ’90, sulle colonne de La Stampa, dove scriveva soprattutto pezzi di divertita, ma non sempre divertente, messa in evidenza dei tic della classe politica italiana. Nemmeno le sue esperienze televisive inducevano a prospettargli un futuro tanto roseo. Si pensi alla conduzione, tra il 2003 ed il 2007, del programma Altra Storia su La7. In questo caso, egli ha snaturato una trasmissione interessante, che quando era condotta dallo storico Sergio Luzzatto aggrediva con efficacia i principali nodi della storia contemporanea. Con la guida di Battista, il programma ha progressivamente virato verso l’analisi del costume italiano nella seconda metà del XX° secolo, concentrandosi sull’incidenza dei mezzi di comunicazione di massa. La sua ultima edizione è stata dedicata proprio alla storia della televisione, con particolare attenzione all’avvento del polo privato facente capo a Berlusconi. L’effetto è stato quello di consacrare il Cavaliere anche al di là del ruolo effettivamente da lui svolto nel corso di un trentennio: il nesso tra le trasformazioni del media più potente e quelle della società era reso superficialmente, dando l’idea che le seconde dipendessero sempre dalle prime, e dunque facendo del big della tv privata l’unico agente determinante del cambiamento della mentalità collettiva avvenuto negli ultimi decenni.

La parte giusta

Con credenziali come quelle qui esposte, Battista è diventato, dal 2005 in poi, la “firma” di punta del Corriere della Sera, dove ha subito assunto un ruolo complessivo, affiancando ai commenti faceti sul malcostume politico italiano prese di posizione sui temi generali. Colpisce il suo modo di accostarsi alla “barbarie” che ha segnato il Novecento, nonché di difendere con vigore una cultura liberale che in Italia sarebbe ancora oggi patrimonio di una coraggiosa minoranza.

La rubrica del lunedì, Le particelle elementari, spesso sganciata dalla più stretta attualità, è il veicolo per questa energica battaglia culturale. Lo rivela, il 13 dicembre 2010, il modo in cui parla del libro di memorie (A Mosca, a Mosca ! ) nel quale la slavista Serena Vitale racconta la sua esperienza nella “patria del socialismo reale”. L’articolo (Chi dovrebbe leggere il libro di Serena Vitale) inizia con efficaci frasi ad effetto: “Non c’è pagina che non rimandi il senso claustrofobico di una burocrazia asfissiante, di una dittatura ideologica demenziale”. Ma presto ci si separa dal libro, richiamato solo con lodi sperticate (“splendido libro”,“meravigliosa scrittura”,“straordinaria finezza”). L’impressione è che l’opera della Vitale sia più che altro un pretesto per attaccare chi si è schierato “dalla parte sbagliata della storia” e polemizzare contro quegli scrittori e poeti che “accompagnavano con il loro canto l’ascia del boia che parlava russo, ma anche cinese, cubano, cambogiano”. Come si vede, saltano distinzioni elementari, tanto che Cuba è maliziosamente accostata alla Cambogia. Qualcuno, non necessariamente innamorato dei fratelli Castro, potrebbe far notare che in quell’isola il boia è – anche in proporzione – meno attivo che negli USA. Rispetto ai quali la critica sarebbe collocata in un diverso contesto: quello dei consigli fermi, ma fraterni degli amici europei alla grande democrazia d’oltre Oceano.

L’articolo si chiude con una dura accusa all’intellighenzia di sinistra che non si è pentita (senza fare nomi): tale genericità nulla toglie all’idea che chi è sempre stato nell’”asse del bene”, possa arrogarsi il diritto di giudicare i comportamenti altrui.

Ma questo è niente rispetto all’exploit in cui Battista si produce partecipando al dibattito sviluppatosi attorno alla scarsa distribuzione ed al conseguente insuccesso commerciale del film sull’eccidio di Katyn realizzato dal polacco Andrzej Wajda. Battista spiega il fatto in questi termini: “A vent’anni dalla caduta del muro di Berlino, del comunismo e delle decine e decine di milioni di vittime di cui è costellato il suo cammino ovunque (sì, ovunque) oppressivo e cruento, non importa granché a nessuno (…) di non smarrire il ricordo di quelle mattanze. Si è imposta (…) per spontanea adesione a un luogo comune, l’idea secondo la quale, a comunismo morto, l’anticomunismo non è che ossessione minoritaria di passatisti risentiti e nostalgici della guerra fredda. Immaginate lo scalpore che susciterebbe l’idea secondo la quale, a fascismo morto, anche l’antifascismo fosse una patetica sopravvivenza del passato. Ma sul comunismo, nessuno scalpore. Nel mondo della cultura. Nel dibattito pubblico. Al botteghino in cui l’anticomunismo fa flop”. (Perché a nessuno interessa Katyn, Corriere della Sera, 23 marzo 2009).

L’articolo esclude l’ipotesi della censura politica, cui è stato fatto riferimento da altri. Sarebbe stato assurdo, del resto, riprendere un argomento seccamente smentito finanche dal critico cinematografico del Corriere, Paolo Mereghetti, per il quale il film di Wajda “presentato in Italia da un piccolo distributore che non ha quasi trovato sale per farlo uscire, è stato al centro di roventi e pretestuose polemiche, stando alle quali sarebbe stato vittima di una censura ‘politica’ anziché puramente di mercato” [1] .

La questione centrale è proprio quella della censura di mercato, che Battista evita di sviscerare. Mai come oggi, il mercato cinematografico italiano penalizza tutto ciò che non viene da Hollywood, tanto che diverse opere dello stesso Wajda, che è tra i più importanti registi viventi, non sono state distribuite da noi. Ma questo poco interessa a Battista, la cui veemenza rimanda ad altro, ad una vera e propria chiamata alle armi, ad una mobilitazione permanente contro il comunismo che non ammette diserzioni.

E’ curioso, inoltre, l’argomento dello scandalo che susciterebbe l’abbandono dell’antifascismo. Perché viene da un intellettuale che ha sempre parlato con circospezione del ventennio nero, non esitando a dare il suo contributo all’abbattimento del “mito resistenziale”. Si pensi al libro Cancellare le tracce. Il caso Grass e il silenzio degli intellettuali italiani dopo il fascismo (Rizzoli, 2007), un’espressione “mite” della spinta revisionista dominante nell’ultimo ventennio, in cui ci si diffonde su diversi casi di intellettuali italiani – forzatamente assimilati a Gunter Grass - protagonisti di adesioni giovanili al fascismo. La prosa è misurata, senza toni inquisitori e, in linea di massima, ci si distacca dalle più pesanti strumentalizzazioni che hanno colpito Fo, Bocca, Bobbio, etc. Ma comunque s’indugia su varie vicende individuali, anche rispetto a persone come Bocca che, partecipando alle azioni armate della Resistenza, hanno compiuto una rottura totale con i trascorsi fascisti di gioventù. Il libro, ampiamente corredato di note, per sfuggire alle critiche che gli studiosi hanno riservato ai centoni di Pansa contro i “partigiani rossi” [2] , non approda alla conclusione estrema per cui, poiché tutti erano fascisti, allora il regime doveva essere una bella cosa. Ponendosi però sull’onda del discorso dominante l’autore conclude riferendo le parole di Rosario Romeo, per il quale “la Resistenza, opera di una minoranza, è stata usata dalla maggioranza degli italiani per sentirsi esonerati dal dovere di fare fino in fondo i conti con il proprio passato”.

Qui ci si richiama all’autorità dello storico liberale per ribadire il carattere elitario della Resistenza, ignorando quegli studi recenti che - fuori da ogni oleografia - si sono soffermati sugli aspetti non militari della guerra di liberazione, descrivendo una partecipazione che non sarà stata del 50% più uno degli italiani, ma ha avuto comunque un carattere di massa. La citazione di Romeo è inoltre preceduta dall’affermazione della complessità del fascismo, che non può essere ridotto solo ad “epoca di barbarie”. Osservazione giusta, se non serve a mitigare il giudizio su un regime che, guarda caso, raramente è preso a riferimento negativo negli articoli di Battista. D’altronde, sorge spontanea una domanda: cosa risponderebbe l’opinionista del Corsera all’obiezione che anche i comunismi (meglio, i “socialismi realizzati”) del XX° secolo sono stati esperienze complesse?

Essenza del “terzismo”

Se nel vivo della battaglia ideale Battista non lesina asprezze, quando interviene sui fatti della cronaca politica si atteggia come un osservatore che, pur nella severità dei giudizi, rifugge da ogni animosità.

Nell’articolo Il Paese del Grande Beneficio (29 novembre 2010), si affronta il caso di un’opera cinematografica “che non ha ancora visto nessuno”, per la quale è stato inventato, “ex novo (…) un premio di cui nessuno sa nulla”, assegnato a Venezia e patrocinato dal Ministero della Cultura, che forse ha pure sostenuto le spese per il soggiorno della regista bulgara e della sua troupe (circa 400.000 euro). Bene, nel riassumere la vicenda ci si riferisce a persone e luoghi imprecisati (“per evitare disavventure giudiziarie, non si farà il nome di quel Paese, nemmeno del ministro, delle persone che hanno beneficiato di un trattamento di favore”), adottando una forma prossima all’apologo.

Il discorso indiretto ha il duplice effetto di diluire la portata della denuncia dando al tempo stesso la sensazione di leggere un fustigatore dei costumi. Il quale però si limita a lamentare che dalla storia in questione “sortisca solo una querela invece che un briciolo, solo una parvenza, di vergogna”. In concreto, ci si pone al di sotto dello stesso dibattito parlamentare dove, a partire da ragioni solide e drammatiche (i crolli di Pompei) per il ministro Bondi si è parlato di dimissioni.

La moderazione del giornalista quando lancia le sue frecciatine contro l’esecutivo di turno non gli impedisce di autopromuoversi come voce al di fuori dal coro. Nella sua Ode alla irregolarità (culturale e politica) richiama uno scritto di Keynes del 1925 [3] , in cui l’economista inglese esprime disagio per la sua condizione di intellettuale senza partito.

Si parla di un contesto lontano, che non ha niente a che vedere con la nostra situazione attuale. Ma ciò che interessa, qui, è il riferimento all’”incremento vertiginoso dei potenziali astensionisti, rilevati in tutti i sondaggi recenti”, testimonianza della “crescita notevole, in Italia, del ‘partito degli irregolari’”. Battista esorta: chi, di fronte del degrado della politica italiana, “non intende più ‘appartenere’ non sia divorato dai sensi di colpa”. E così, il Corsera vuole dialogare anche con questa fetta di società, partendo da una sorta di appropriazione, sforzandosi di ricondurre l’”irregolarità” alla propria collocazione al di fuori dell’aspro scontro tra i partiti o, come si usa dire oggi, “terzista”.

Il tentativo è corredato di riferimenti culturali, riallacciandosi ad una tradizione italiana sganciata dagli schieramenti che comprenderebbe Flaiano (“solo per citare il migliore di tutti”) e persino il fondatore de La Voce, quel Giuseppe Prezzolini che si proclamava fieramente contrario al suffragio universale [4] .

Naturalmente, il processo che ha portato al distacco dalla politica non è realmente indagato. Lo svuotamento del dibattito, la sua riduzione a scontro fra opzioni simili, ha avuto il suo strumento “tecnico” nel bipolarismo ed il suo fondamento culturale nell’impoverimento delle prospettive, legato al cosiddetto “superamento delle ideologie”, in realtà affermazione, a partire dagli anni ’90, dell’ideologia vincitrice, quella liberal-liberista. Di entrambi gli aspetti, il quotidiano milanese è stato un alfiere. Ma di ciò non si parla: non si possono ammettere le proprie responsabilità “rispetto alla politica che ci ha fatto precipitare fino a questo punto”. Verrebbe meno, per il giornale e le sue “firme”, il ruolo di “guida morale” del paese.

Tuttavia, la posizione di comodo nella quale l’autorevole commentatore si è posto, a costo di letture omissive delle realtà politica italiana, può diventare una trappola e l’idea di giocare un ruolo a parte in un dibattito in cui si è liberi di dispensare consigli e critiche a tutti incidere sulla qualità dei propri scritti, particolarmente di quelli più legati all’attualità. Lo evidenzia l’articolo Urlare, tradire, sospettare: la sindrome che dilaga e porta al conformismo (10 gennaio 2011), dove vengono elencati casi di “sindrome del tradimento” nei partiti e nei quotidiani italiani: “Il Giornale denuncia l’incipiente ‘tradimento’ del suo ex direttore Vittorio Feltri appena passato nell’impresa di Libero diretta da Maurizio Belpietro”, “Di Pietro accusa Flores d’Arcais di portare lo scompiglio nell’Idv”, “nel Partito Democratico (…) le obiezioni di Walter Veltroni vengono liquidate come sintomi di un inestinguibile narcisismo individuale, ovviamente nocivo per la compattezza del Partito”. A parte il tipico dosaggio dei riferimenti alle forze politiche, leggendo un articolo come questo capita di domandarsi: “ma di cosa si sta parlando”? Perché si insiste su epifenomeni tipici della politica senza evidenziare da dove nascono, a parte il generico richiamo conclusivo ai “partiti leggeri” ed alla ” personalizzazione della politica”?

Del resto, uno dei tratti del “terzismo” è proprio questo: farsi largo nel mare di parole vuote del confronto politico, ponendosi al di fuori della contesa quando essa dà segno di inasprirsi troppo. In questo modo, sembra che si evitino le cadute dei giornali più interni allo scontro (da Libero a Il Fatto Quotidiano ), ma il contrappasso risulta pesante. Perché anche da arbitri il gioco lo si legittima, non meno che da parti in causa. E dunque si rischia di rimanervi impigliati, di ingigantire ciò che è irrilevante.

Segno dei tempi

Certe cadute non impediscono a Battista di essere, oggi, il più celebrato fra gli opinionisti del Corsera, come dimostra il giornale del 18 gennaio 2011, dove egli è autentico protagonista. Non tanto per una noterella, nella pagina dei commenti, canzonatoria nei confronti dell’Idv (Il noviziato mistico di Di Pietro contro la sindrome Scilipoti) e del suo tentativo di evitare nuovi tradimenti sottoponendo gli aspiranti dirigenti ad un periodo di apprendistato. C’è dell’altro: nell’editoriale di Massimo Franco sul Rubygate (In un vicolo cieco) Battista è una delle due autorità a cui si attinge, assieme a Piero Ostellino. In più, nella sezione culturale del giornale vi è una recensione a tutta pagina, a firma di Alessandro Piperno (Contro Israele, prigionieri di un’ossessione), di un volume dello stesso Battista, rivolto contro gli intellettuali che si permettono di criticare Israele, baluardo della civiltà occidentale [5] .

Dunque si consacra un autore che, intervenendo sul contingente come su questioni di ampio respiro, ha il pregio di restituire i nessi tra aspetti in apparenza diversi. Battista coniuga una vera e propria apologia del liberalismo con un anticomunismo, spesso sguaiato, che non è tanto memoria di un passato da non dimenticare, bensì vigilanza contro il possibile riaffacciarsi di qualsiasi messa in discussione dei valori della parte vincente della storia. La difesa a spada tratta dell’ordine sociale vigente come l’unico possibile contribuisce ad un ulteriore impoverimento del confronto politico e culturale, in Italia già segnato dai contraccolpi della sconfitta del più forte movimento operaio d’Europa. In un contesto come l’attuale, segnato da un dibattito pubblico che anche quando assume le parvenze dello scontro mai mette in questione l’esistente, nasce il “terzismo”, regalando agli intellettuali che ne sono interpreti un’autorevolezza sproporzionata.



1) Paolo Mereghetti, Il Mereghetti. Dizionario dei film 2011, Baldini Dalai.

2) Un rimprovero sul piano del rigore storiografico l’A. se lo è comunque guadagnato: Gianpasquale Santomassimo (cfr. Su intellettuali e fascismo il rischio delle chiacchiere, il manifesto, 7 febbraio 2007) non gli ha perdonato di avere accreditato la “fola” dell’adesione dello storico Ernesto Ragionieri alla RSI.

3) John Maynard Keynes, Sono un liberale?, a cura di Giorgio La Malfa, Biblioteca Adelphi, 2010.

4) Si veda il suo Manifesto dei conservatori del 1972.

5) Il volume, edito da Rizzoli, si intitola Lettera ad un amico antisionista. Già nel titolo si coglie il riferimento – garbatamente polemico – al testo di un’altra “firma” importante del Corsera, Sergio Romano (Lettera a un amico ebreo, Longanesi, 2002). Il punto è che l’ex ambasciatore , pur godendo di grande prestigio nel quotidiano milanese, porta avanti un discorso critico verso la politica estera israeliana, segnata dall’aggressività e dalla continua violazione del diritto internazionale. La linea del quotidiano, invece, è caratterizzata proprio da quello schieramento filoisraeliano “senza se e senza ma” che Battista ha espresso più volte nel corso degli anni.

Stefano Macera

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