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    Perche' non possiamo non odiare il carcere

    volantino diffuso davanti al carcere di Rebibbia il 31 dicembre

    (1 Gennaio 2004)

    Il movimento che mette in discussione lo stato delle cose, s'è dato appuntamento davanti a Rebibbia e ad altre prigioni sparse nel paese.
    Si vuole rompere con un silenzio dovuto al fatto che di carcere i media parlano poco.
    Solo un messaggio papale alle camere e qualche allarmato rapporto sul sovraffollamento hanno spinto, di recente, a soffermarsi su questa realtà.
    Facendo peraltro emergere una cultura più "avanzata" di quella dominante.
    Infatti, se di norma poco si considerano le condizioni dei detenuti, perché l'unica preoccupazione è quella di assicurare alla sua pena il "delinquente", quando si riparla di carcere, riaffiora un discorso meno feroce.
    Un discorso più attento alla situazione interna ai penitenziari, intesi come luoghi di riabilitazione.
    Ora, tale verbo è veramente alternativo a quello, spietato, cui si è abituati? Un'analisi seria porterebbe a negarlo.
    Entrambi gli approcci, infatti, riconoscono la necessità del carcere, cui attribuiscono, però, compiti diversi.
    Ancora una volta, quindi, stiamo parlando dell'alternanza tra i due principi che ben descrisse Michel Foucault: sorvegliare e punire.
    Anche se, mentre nella elaborazione del pensatore francese, la netta predominanza dell'uno o dell'altro segnava diverse fasi storiche, nel momento attuale essi coesistono.
    Lo dimostra, al di là del carcere, l'intero vivere sociale.
    Facciamo degli esempi, legati al quotidiano.
    Nei confronti delle lotte nei trasporti, fuori dalle compatibilità date, il governo pratica la tolleranza zero: minaccia di limitare ulteriormente la possibilità di scioperare e invoca la precettazione.
    La sinistra ufficiale, invece, non va allo scontro frontale.
    Le rivendicazioni, dice, possono essere ricondotte nell'alveo delle regole condivise rilanciando il ruolo del sindacato confederale, unico argine alle esplosioni di conflittualità.
    E questo è un caso.
    Ma si pensi pure alla politica dei flussi programmati per gli/le immigrati/e.
    Essa ha diversi risvolti.
    Per alcuni, può significare l'abbattimento in mare o la segregazione nei CPT (Centri di permanenza temporanea), i lager creati per i rei di clandestinità.
    Per altri, invece, può tradursi in regolarizzazione e lenta acquisizione di diritti.
    L'essenziale è che si produca per il sistema-paese e che se ne accettino le norme ed i valori.
    Ora, questi sono esempi estremi, ma nella realtà sono in pochi a non essere raggiunti dall'azione dei principi del sorvegliare e del punire.
    Molti sono colpiti, in fasi diverse da tutt'e due ed altri da una sola di queste modalità di gestione della vita collettiva.
    Il che, a ben vedere, rende più chiaro cos'è il carcere, cos'è questo universo a parte che ti scinde da ogni nesso sociale.
    Lo si definisce istituzione totale, come il manicomio, perché in esso la logica che permea di sé l'intera società risulta radicalizzata, rivelandosi in tutta la sua inumanità.
    Il disciplinamento, quello che incontriamo nelle scuole per preparci a diventare, nel posto di lavoro e altrove, pronti all'ubbidienza, lo ritroviamo rinvigorito, perché, nel bene o nel male, ci si è già sottratti ai comandi ed ora si deve essere rieducati.
    Ma l'idea del recupero non impedisce che, per reati ritenuti gravi, si sia estromessi per sempre dalla vita civile.
    Ciò perché la prigione assolve pure una funzione simbolica.
    Sì, certo, essa consiste in primo luogo in una condizione materiale di deprivazione: di sé, del proprio tempo.
    Ma la sua stessa esistenza è anche un monito, un richiamo a ciò che spetta a chiunque non rispetti la legge.
    Già, la legge.
    Sulla carta si dice che è uguale per tutte/i, ma spesso non è così e allora ci arrabbiamo, ci mobilitiamo.
    Ma è questa la nostra lotta? Se anche la legge fosse veramente uguale per tutte/i, non si sarebbe tutte/i uguali davanti ad essa! Perché, in questa società, c'è chi produce ricchezza e chi se ne appropria.
    C'è chi, ancora, detiene il sapere ufficiale ed è ritenuto colto, e chi è portatore di un sapere non riconosciuto ed è considerato ignorante.
    La legge astrae dalle differenze, dice soltanto che ognuno deve stare al suo posto, tutelando una realtà di cui pochi si avvantaggiano.
    Per questo non è ad essa che possiamo fare riferimento noi che leviamo la nostra voce contro l'esistente, così come non possiamo considerare nostre le campagne per rendere "migliore" la prigionia.
    Un movimento che vuole rovesciare il mondo non può che rilanciare l'istanza dell'abbattimento di ogni carcere, di ogni luogo dove si esprima con forza quella spinta all'espropriazione delle facoltà umane che è il principale connotato dell'ordine vigente.

    Roma, 31 dicembre

    CORRISPONDENZE METROPOLITANE - Collettivo di controinformazione e di inchiesta

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