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Dilibertismo, fase senile del togliattismo

(12 Febbraio 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

E’ stato pubblicato un documento dal titolo “Ricostruire il Partito Comunista”, corredato da mille e più firme, tra cui quelle di Fausto Sorini, Vladimiro Giacchè, Manlio Dinucci e Domenico Losurdo.

Toccherò solo alcuni punti essenziali.

Propone “una radicale inversione di rotta nel nostro Paese, facendo della difesa e rilancio integrale della Costituzione la base del programma politico, con la ripresa dell’intervento pubblico in economia e della programmazione democratica sotto controllo operaio e popolare.”

Per il comunismo, la base del programma politico è l’emancipazione dei lavoratori, la rivoluzione socialista, la demolizione della struttura dello stato borghese, l’instaurazione di una repubblica dei lavoratori. Non a caso, uno dei primi provvedimenti preso dai bolscevichi fu lo scioglimento della borghese Assemblea Costituente. La proposta del documento va nel senso esattamente opposto, ridare vitalità alla repubblica borghese, la cui crisi è sotto gli occhi di tutti, come dimostra il clima da basso impero che ci circonda.

“ Nella repubblica democratica – ricorda Lenin in “Stato e rivoluzione”, citando Engels – “la ricchezza esercita il suo potere indirettamente, ma in maniera tanto più sicura”, in primo luogo “con la corruzione diretta dei funzionari” (America), in secondo luogo “con l’alleanza tra governo e Borsa” (Francia e America) ”. Perciò, è una pura chimera pensare che si possa fare una politica di programmazione a favore dei lavoratori in una repubblica borghese decotta, dove la corruzione si tocca con mano, dove l’evasione fiscale è uno sport nazionale più seguito del calcio, dove sono evidenti le infiltrazioni mafiose, le ingerenze clericali, le scorribande dei servizi segreti americani e israeliani, le truffe finanziarie. Le gesta del guitto di Arcore sono sintomi e non causa della crisi della repubblica.

La proposta politica di Marx, di Engels e di Lenin era la dittatura del proletariato. Nella prefazione a una nuova edizione tedesca del “Manifesto del Partito comunista” del 24 giugno 1872, Marx ed Engels scrissero: La Comune, specialmente, ha fornito la prova che “la classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi propri fini”. Questi passi, nei testi originali o nelle citazioni di Lenin, dimostrano che elogiare una forma di stato come quello repubblicana borghese significa tornare a concezioni premarxiste. La repubblica dei comunisti è quella dei consigli, che potrà avere ovviamente una forma diversa da quella della Russia di Lenin, ma non potrà ricalcare le orme del costituzionalismo borghese.

Non a caso, il programma della frazione comunista a Livorno nel 1921 diceva: “Dopo l’abbattimento del potere borghese, il proletariato non può organizzarsi in classe dominante che con la distruzione dell’apparato statale borghese e con l’instaurazione della propria dittatura, ossia basando le rappresentanze elettive dello stato sulla sola classe produttiva ed escludendo da ogni diritto la classe borghese”. Dello stesso tenore i discorsi a Livorno di Bordiga e Terracini. E Gramsci, su “L’Ordine Nuovo” del 13 gennaio 1921, scriveva: “L’emancipazione dei lavoratori può avvenire solo attraverso l’alleanza degli operai industriali del nord e dei contadini poveri del sud per abbattere lo stato borghese, per fondare lo stato degli operai e dei contadini...”.

Persino nel 1926, quando le lotte interne al partito bolscevico tra internazionalisti e fautori del “socialismo in un solo paese” si riflettevano drammaticamente sul partito italiano con lo scontro definitivo tra Bordiga e Gramsci, la parola d’ordine della dittatura proletaria rimase. Non è qui possibile affrontare il tema delle divergenze a Lione tra i fondatori del PCdI, e dei successivi sviluppi, basterà ricordare che Gramsci, nelle Tesi di Lione, pose tra i compiti fondamentali del Partito comunista: “Porre al proletariato e ai suoi alleati il problema dell’insurrezione contro lo stato borghese e della lotta per la dittatura proletaria e guidarli politicamente e materialmente alla soluzione di esso attraverso una serie di lotte parziali”. E che nelle tesi della sinistra di Bordiga si ribadiva che “la sola libertà per il proletariato è nella sua dittatura”. Bordiga, a differenza di Togliatti, Scoccimarro, Terracini, ecc, non si smuoverà mai da tali posizioni. Gramsci nelle carceri fasciste sarà costretto ad usare, nei Quaderni e nelle Lettere, il “linguaggio di Esopo”, il che permetterà a esegeti stalinisti, borghesi e socialdemocratici di interpretare a piacere il suo pensiero, e di trasformarlo in un’icona inoffensiva.

Altro punto fondamentale del documento. Nel corso di una sviolinata a favore del PdCI ( l’ombra di Diliberto aleggia su ogni riga!) si legge: “Limiti ed errori hanno segnato pure l’esperienza del PdCI, ma essi sono oggetto di un ripensamento, come nel caso della riflessione autocritica sulla partecipazione al governo della guerra contro la Jugoslavia.” Altro che ripensamento! Hanno votato, insieme con Rifondazione e col governo Prodi, il rifinanziamento di tutte le spedizioni militari, a cominciare da quella in Afghanistan. Sono recidivi! Ricordiamoci che la frattura storica tra comunisti e socialdemocratici è cominciata col voto dei crediti di guerra da parte della Socialdemocrazia tedesca e degli altri partiti della II Internazionale, e che l’appoggio alla guerra costituisce la forma più estrema di collaborazione di classe. I bigotti possono reiterare il peccato, confessarsi e sentirsi puri come colombe, Diliberto, Bertinotti, Ferrero e compagni possono confessarsi, ma niente potrà cancellare la loro corresponsabilità politica in un’avventura militare e imperialista che dura tuttora, e continua a provocare morti e disastri immani, non solo in Afghanistan, ma anche in Pakistan. Un partito comunista autentico deve per statuto escludere i socialsciovinisti, a cominciare da chi ha votato il rifinanziamento delle spedizioni militari, in altre parole i famigerati “crediti di guerra”.

Da Livorno, e anche dal II dopoguerra, sono passate generazioni e generazioni, e non ha senso polemizzare con i trapassati, ma bisogna comprendere il processo storico. Terracini a Livorno diceva: “...il riformismo ...ha sempre voluto dire, in Italia, la collaborazione al potere... ma allora che nome dobbiamo dare a questa mentalità di quella parte che non vuole collaborare al potere, ma vuole andarci con l’attuale forma del potere? Noi la chiamiamo socialdemocratica...”. Dal Terracini di Livorno al Terracini padre costituente c’è un totale capovolgimento di posizioni politiche. Non si tratta di problemi di biografia politica, di coerenza personale o di critica moralistica, si tratta di problema storico, del fatto che una parte significativa degli uomini di Livorno 1921, da eversori del sistema si trasformarono in restauratori del sistema borghese, sia pure in una forma più evoluta e repubblicana. E con ciò, per usare la terminologia del primo Terracini, si trasformarono in riformisti, in socialdemocratici. Nonostante il nome, riformista e socialdemocratico fu il “partito nuovo”, il PCI di Togliatti, Longo, Berlinguer, una delle colonne portanti dell’ordine repubblicano, il garante della democrazia borghese. Sarebbe ora di prenderne atto.

Chi vuole costruire un partito che “faccia della difesa e rilancio integrale della Costituzione la base del programma politico”, non deve richiamarsi a Marx, a Lenin, al congresso di Livorno – perché ogni riga di quegli scritti, mozioni, documenti smentisce senza appello tale posizione ultrariformista, ma deve richiamarsi a Togliatti, e a tutti il revisionisti del marxismo del novecento. E, per eliminare qualsiasi illusione su presunti “uomini nuovi”, questo partito proposto dai mille firmatari – ammesso che nasca - avrà come leader naturale - in forma ufficiale o no - una vecchia conoscenza, l’ultimo erede spirituale di Togliatti, Oliviero Diliberto.

8 febbraio 2011

Michele Basso

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