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(14 Novembre 2010) Enzo Apicella

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Ricostruire un Partito Comunista, ma ripartendo da una linea di classe e di autonomia politica

(12 Febbraio 2011)

Nei giorni scorsi i compagni dell’Ernesto hanno pubblicato un appello che invita ad unirsi per «ricostruire il Partito Comunista». Il fatto che i principali promotori di questo testo avessero già sottoscritto anche l’appello “Comuniste e comunisti cominciamo da noi”, pubblicato il 17 aprile 2008, ha suscitato inizialmente qualche equivoco. Anche su sollecitazione di numerosi compagni, dobbiamo perciò chiarire che si tratta di un’operazione molto diversa da quella promossa in quella circostanza e dalla quale è nata l’esperienza di Comunisti Uniti. E dobbiamo anche spiegare le ragioni per le quali, pur osservando con grande attenzione quanto accade nel rapporto tra l’area dell’Ernesto e il PdCI e facendo ai compagni i migliori auguri affinché quanto c’è di buono nella loro proposta possa realizzarsi, non è per noi possibile in questo momento aderire.

Le ragioni della nostra distanza, del resto, sono quelle che alcuni di noi hanno cercato più e più volte di esporre ai compagni dell’Ernesto nei mesi scorsi, proprio per provare a dare un contributo ad un processo di ricomposizione che speravamo fosse reale ed aperto e per scongiurare esattamente quelle insufficienze che il nuovo appello a nostro avviso avrebbe scontato ed in effetti sconta.

Il primo appello per la riunificazione dei comunisti, uscito all’indomani della debacle della Sinistra Arcobaleno alle elezioni politiche e anch’esso massicciamente promosso dall’Ernesto e dal PdCI, muoveva da una spietata analisi della crisi della cultura politica comunista in Italia e della deriva moderata e governista che questo indebolimento aveva favorito, sino alla catastrofe del governo Prodi. Anche per questo, l’appello pensava alla ricostruzione dell’unità comunista attraverso un percorso costituente che rivendicasse questo nome e fosse largo e partecipato. Un percorso che guardasse sì ai due principali partiti comunisti, PRC e PdCI, ma che coinvolgesse con pari dignità l’ampia diaspora dei comunisti in Italia, il cui recupero appariva indispensabile per dare nuova linfa a strutture ormai in declino e per favorire la nascita di un soggetto comunista realmente autonomo nei confronti del Centrosinistra. Tutto ciò in un processo di ricostruzione che evitasse il mero luddismo e le recriminazioni impolitiche contro i dirigenti corrotti e traditori ma fosse capace di tenere in equilibrio l’indispensabile spinta di rinnovamento dal basso e la salvaguardia di quanto delle forme di organizzazione ancora presenti era utile conservare.

L’aprile 2008 era il momento più giusto per lanciare quel genere di appello e per mobilitare le forze comuniste, ancora sotto choc per la sconfitta e la conseguente cancellazione dal Parlamento. Aver rinviato sine die l’avvio del processo, però, si sarebbe rivelato esiziale per le sorti dell’appello. Dopo i congressi dei due partiti comunisti e il fallimento della “gestione unitaria” del PRC, proprio sulle modalità concreta della riaggregazione dei comunisti i sostenitori di quell’appello si sono divisi, perché fortissime erano divenute le spinte di coloro che immaginavano la ricostruzione comunista non come un processo costituente largo ed aperto, come era scritto nel testo dell’appello originario, ma sempre più come una semplice sommatoria del PRC e del PdCI. Proprio questa è stata la ragione principale per la quale, nel 2010, è stato per noi necessario pubblicare una nuova versione dell’appello e dar vita a Comunisti Uniti 2.0, esperienza alla quale la maggior parte dei compagni dell’Ernesto e del PdCI non hanno voluto contribuire. Era chiaro per noi, infatti, che se l’obiettivo dell’unità comunista fosse stato derubricato alla semplice riunificazione di PRC e PdCI, tagliando fuori qualsiasi coinvolgimento attivo della diaspora, allora questo tipo di riunificazione parziale era di fatto già in corso e lo era nella forma della Federazione della Sinistra. E in tal senso aveva ragione questa volta il compagno Grassi, il quale aveva già in quei mesi indicato esattamente questo percorso.

Da subito avevamo spiegato come tale operazione non fosse per noi convincente né sufficiente. Tuttavia, sin dall’inizio ci risultavano incomprensibili le critiche dei compagni dell’Ernesto all’impostazione di Grassi, perché effettivamente quest’ultimo aveva delineato le condizioni più realistiche per il riassorbimento della scissione del 1998. Se invece - come noi ritenevamo e ancora riteniamo - l’obiettivo da perseguire è quello più ambizioso e complesso di un percorso costituente che conduca ad un reale rinnovamento della soggettività politica comunista organizzata, ecco che non è certamente sufficiente né la Federazione (la quale a nostro avviso rappresenta sin dall’inizio un depotenziamento programmatico dei due partiti comunisti e l’embrione di una generica sinistra alternativa), né la fusione fredda di PRC e PdCI (che avrebbe costituito soltanto la somma di due debolezze). Ancor meno lo è oggi, dobbiamo aggiungere, quella che appare come la cooptazione di un pezzo del PRC all’interno del PdCI.

Non c’è dubbio sul fatto che l’appello dei compagni dell’Ernesto colga alcuni elementi di contraddizione reale all’interno del PRC e nemmeno sul fatto che esso ponga un problema altrettanto reale, quello dell’urgenza di un partito comunista degno di questo nome. E’ inoltre condivisibile la parte analitica sulla crisi economica, sul pericolo reazionario, sul modello organizzativo del partito comunista di quadri con concezione leninista e gramsciana, del suo radicamento di massa, così come l’accenno alla necessità di un sindacato di classe e di un rilancio della lotta alla NATO.

Riteniamo però che nel loro documento ci siano delle lacune, sulle quali vogliamo svolgere un ragionamento.

1) L’appello dell’Ernesto sembra concepire il partito non come un’avanguardia ma come una sorta di “sponda”. Quello che appare configurarsi non è un partito di quadri formato principalmente da lavoratori, attivisti dei movimenti e intellettuali organici ma un apparato separato, il quale chiede la “delega” perché pretende di rappresentare le classi lavoratrici “meglio di altri”. A nostro avviso, questo atteggiamento pone le basi per la riproduzione permanente di un problema sinora sempre irrisolto, quello della separatezza tra interessi istituzionali e interessi di classe. Una separatezza che diventa spesso antagonismo tra partito e classe quando il partito dovesse arrivare a sostenere un qualsiasi governo in condizioni di rapporti di forza e dinamiche politiche e socio-economiche sfavorevoli.

2) Certamente il partito comunista e una “generica forza di sinistra anti-capitalistica” non sono sovrapponibili e la seconda senza il primo non dà prospettive di alternativa di sistema. All’inverso, però, è difficile pensare come un partito comunista che non “navighi” come un pesce nell’acqua in un movimento di resistenza sociale tendenzialmente classista e anticapitalista (che anzi alimenta e possibilmente orienta) possa concepire delle alleanze larghe utili a combattere il capitalismo, con la conseguente formazione di un nuovo blocco sociale di riferimento. E’ curioso che nel documento si dia molto peso e attenzione alle convergenze dentro la FdS e con SeL ma si trascuri o si attacchi contemporaneamente la prospettiva della costruzione di un fronte anticapitalista di resistenza popolare alla crisi. A meno che, ovviamente, non si guardi in via programmatica in primo luogo alle alleanze utili ad andare solo in Parlamento, magari per essere poi costretti ad appoggiare nuove nefaste esperienze governiste, e non a quelle utili ad inceppare l’ingranaggio del capitale.

Il metodo dei “due tempi” - la convinzione cioè che occorra prioritariamente risolvere il problema organizzativo e assicurare la sopravvivenza materiale del partito, per poi occuparsi con calma e a tempo debito della sua linea politica e definirne obiettivi e programmi - ci sembra però replicare quel crampo mentale che da molti anni inficia l’azione della sinistra italiana. Poiché i processi storici e materiali sono molto più forti di noi, non c’è infatti nessuna garanzia che, una volta costruito il partito, ci siano poi il tempo e le condizioni per fare ciò che non si è fatto sin dall’inizio. Temiamo che a quel punto sarebbe troppo tardi, perché i condizionamenti oggettivi della politica e dell’economia avrebbero già portato questa nuova organizzazione politica a giocare la partita interamente nel campo dell’avversario, e cioè delle compatibilità politiche sistemiche e del Centrosinistra.

3) Mentre è corretta la critica al PRC e al fallimento della svolta di Chianciano, si accenna soltanto ai «limiti ed errori» dell’esperienza del PdCI, «limiti ed errori» che sarebbero oggetto di un ripensamento, come nel caso della «riflessione autocritica sulla partecipazione al governo della guerra contro la Jugoslavia». A parte il fatto che sull’esperienza del governo D’Alema e della guerra dei Balcani - soprattutto dopo le dichiarazioni rilasciate a suo tempo dal defunto Cossiga e dall’ex presidente del Senato Scognamiglio - è ancora necessario fare piena luce, cosa vuol dire tutto ciò? Vuol dire che le altre esperienze di governo vanno invece bene? Dove è finito il ripensamento sull’ultimo governo Prodi, che pure era alla base del primo appello del 17 aprile 2008? Questa è a nostro avviso la parte più carente del documento dell’Ernesto, che con queste premesse rischia di tenere a distanza le centinaia di migliaia di militanti che sono stati disillusi dalla prassi politica dei comunisti. Anche rispetto al primo appello di CU, è completamente sparita la critica al governismo strutturale e alla subalternità al centrosinistra, che all’epoca tutti noi ritenevamo, e ancor oggi continuiamo ritenere, essere stato uno degli elementi centrali della nostra sconfitta e marginalizzazione.

Nel testo, certamente, si dice che anche il PdCI valuta «che non esistano oggi le condizioni e i rapporti di forza per governare col centrosinistra». Tuttavia, alcune recenti interviste del compagno Diliberto sembrano declinare diversamente questa posizione. Nell’intervista rilasciata al sito dell’Ernesto, Diliberto riferisce che al PD «abbiamo proposto un patto politico-elettorale che tenga il tema della democrazia, della Costituzione, del conflitto degli interessi, contro le leggi ad-personam etc., al centro del proprio orizzonte politico, per cacciare Berlusconi. Dopo di che, se vincerà il centrosinistra, quindi Pd, Idv, Sel una volta che avremo visto cosa deciderà di fare Vendola, a quel punto noi dovremo essere i garanti per i lavoratori, per i precari, per gli studenti, di alcuni punti».

Da un lato viene detto, dunque, che mancano le condizioni «per un patto programmatico complessivo»; dall’altro vengono però esposte le «tre cose» che vanno contratte con il PD. Sono «tre cose» - «Primo: una politica sul lavoro più decente, con il ristabilimento delle regole del contratto collettivo nazionale valevoli per tutti e un abbassamento progressivo del precariato… Secondo:… un investimento massiccio di risorse sulla scuola pubblica… Terzo: il fisco… io credo che si possa riparlare in Italia di una patrimoniale» - che costituiscono già di per sé un impegnativo programma di lungo periodo. Un programma che per l’Italia - soprattutto per quanto riguarda la parte fiscale, la quale tocca direttamente la redistribuzione delle risorse - sarebbe inaudito e che appare piuttosto improbabile in questa fase. Le «tre cose», inoltre, lasciano intendere un voto di fiducia a favore del governo di Centrosinistra e un sostegno parlamentare che probabilmente sarà indispensabile sul piano dei numeri.

Nell’intervista ad Andrea Fabozzi, alle obiezioni del giornalista - il quale faceva notare come le contraddizioni politiche dell’eventuale accordo rimanessero intatte anche senza la presenza al governo di ministri comunisti -, Diliberto rispondeva del resto, con molta onestà, che «la logica di questo accordo vuole che noi saremo leali complessivamente ma che porteremo a casa almeno questi risultati». Ora, mentre la prima osservazione esprime una volontà politica chiara, la seconda, quella relativa ai risultati, è del tutto inverificabile. Cosa accadrebbe qualora i voti comunisti in Parlamento fossero decisivi per mantenere in piedi un eventuale governo, nel caso in cui fossero in discussione provvedimenti economici di natura antipopolare oppure, per fare un altro esempio, i rifinanziamenti alle missioni di guerra? Non si determinerebbero nuove contraddizioni tra i comunisti? E’ realistico fondare un progetto politico sull’imprevedibilità di un risultato elettorale che dovrebbe portare i comunisti in Parlamento ma anche determinare le condizioni per un governo di unità nazionale che in seconda istanza lascerebbe ai comunisti mani libere?

In sostanza, ci sembra i compagni dell’Ernesto non sviluppino nessuna analisi di quel «monopartitismo competitivo» che pure era stato segnalato loro da Domenico Losurdo in una recente intervista, e che assimila tendenzialmente i due principali poli della politica nazionale nell’ambito delle dinamiche bonapartiste e delle politiche neoliberiste. «Vediamo all’opera», spiega Losurdo, «un unico partito che, con modalità diverse, rinvia alla stessa classe dominante, alla borghesia monopolistica. Certo, non manca il momento della competizione elettorale, ma si tratta di una competizione tra ceti politici ognuno dei quali cerca di realizzare le sue ambizioni di corto respiro, senza mettere in alcun modo in discussione il quadro strategico, l’orientamento culturale di fondo e la classe sociale di riferimento, e cioè la borghesia monopolistica».

Sono riflessioni che in realtà risalgono nel loro nucleo già agli inizi degli anni Novanta e che sono state confermate dagli sviluppi politici successivi. A questo proposito, andrebbe adeguatamente studiata la tragedia storica del PCI-PDS-DS, un partito che dopo la caduta del campo socialista ha avuto il compito di gestire la sconfitta della propria classe di riferimento. Dapprima con dolore, in base alla teoria del “governo dei processi” e della “riduzione del danno”, ma poi in maniera sempre più convinta e persino appassionata, questo partito ha cancellato la proporzionale, ha personalizzato le dinamiche politiche degli enti locali con l’elezione diretta, ha modificato la Costituzione, ha svenduto i monopoli statali trasformandoli in monopoli privati, ha introdotto i contratti a tempo determinato aprendo alla precarizzazione del lavoro e abbassandone il costo, ha fatto una guerra che ha portato alla fine della Repubblica jugoslava ecc. ecc. Confermando in tal modo la nota tesi di Gianni Agnelli secondo la quale in Italia solo la sinistra, che controlla il maggiore sindacato, può praticare realmente una politica di destra e aprendo le porte all’affermazione del berlusconismo.

4) Nel documento dell’Ernesto, la prospettiva di una costituente comunista aperta alla diaspora sui territori e che, a partire da un solido impianto culturale, coinvolga tutti i compagni disponibili ponendo le fondamenta per un soggetto unitario – tutte cose che erano alla base del primo appello del 2008 – viene evocata a parole ma di fatto esclusa. Il percorso suggerito dai compagni dell’Ernesto sembra essere piuttosto quello di una sorta di annessione o di un ingresso più o meno diretto nel PdCI a partire dal congresso 2011.

Sotto questo aspetto, anche un eventuale cambiamento di nome di questo partito significherebbe poco, perché i soggetti costituenti rimarrebbero comunque quelli: Ernesto e PdCI. Il limite di questa proposta è ovviamente quello di parlare esclusivamente a queste due realtà. Inoltre, il percorso delineato, che è un percorso di cooptazione sostanziale, non potrebbe in alcun modo essere in grado di incidere sulla linea politica e i programmi di questo partito, che resterebbero inalterati.

A conferma di ciò, ricordiamo che nella relazione introduttiva alla direzione del PdCI del 18 luglio, precisamente al minuto 32, il compagno Diliberto aveva sconfessato esplicitamente ogni ipotesi di percorso costituente e aveva ribadito che il partito comunista c'è già e che ha le porte aperte per chi vorrà aderirvi. «Il nostro primo obiettivo» - spiegava Diliberto - «è dunque il consolidamento e l’allargamento del Pdci, senza volontà egemonica, mettendo laicamente a disposizione l’unica forza comunista che esiste in Italia». E aggiungeva, a proposito della costituente comunista: «Ultimamente, tra le nostre fila, è ripartita una sorta di tormentone. “Facciamo la costituente dei comunisti”, propongono alcuni compagni. Rispondo a quei compagni, senza alcuna volontà polemica, fotografando la realtà per quella che è: ma con chi la vogliamo fare la costituente? La costituente si fa se pezzi consistenti si mettono insieme e individuano un percorso comune. Sarebbe stato possibile se tutta Rifondazione comunista avesse accettato la nostra proposta. Avremmo dato avvio alla costituente dei comunisti in maniera seria e credibile».

E’ possibile ed auspicabile che questa posizione sia nel frattempo cambiata, anche se la frattura che ha portato Ernesto e PdCI a prendere le distanze da Comunisti Uniti 2.0 non depone a favore di questa ipotesi. Solo il decorso degli eventi potrà però chiarire se il percorso indicato dai compagni sarà realmente un percorso aperto oppure se, come abbiamo detto, si tratta di una sorta di cooptazione. D’altro canto, rimangono ancora del tutto indefiniti i rapporti tra il nuovo soggetto dei comunisti e la Federazione della Sinistra. Questo soggetto – che sia il PdCI o che abbia un nuovo nome – farà ancora parte della FdS? In tal caso, che senso ha transitare da un partito all’altro per rimanere comunque all’interno di un’entità federativa che assorbe sovranità dai due partiti e che dovrebbe essere il nucleo della loro riunificazione? Sarebbe in effetti come guardare lo stesso cortile dalla finestra di fronte…

In sostanza, come abbiamo cercato di spiegare, questo appello è nelle sue linee-guida molto differente in analisi e prospettive da quello di CU 2.0, ma ci sembra che faccia un passo indietro anche rispetto al primo appello del 2008. Ne apprezziamo certamente l’intento di fondo e numerosi passaggi ma ancora sono troppi e troppo importanti i nodi che rimangono irrisolti. Certo, la prospettiva della Federazione della Sinistra ci sembra non solo insufficiente ma anche sbagliata, perché tutta interna alla logica dell’appoggio ad un nuovo Centrosinistra e aliena da ogni interlocuzione alla propria sinistra e non solo alla propria destra. E’ dunque giustissima l’esigenza del partito comunista posta dai compagni dell’Ernesto, ragione per cui la loro iniziativa va certamente seguita con attenzione. Come d’altro canto dobbiamo augurarci e lavorare per la costruzione di un polo autonomo anticapitalista alternativo all’intero quadro politico bipolare, dentro il quale tutte le opzioni comuniste (interne e esterne alla FdS) possano ritrovare livelli superiori di unità utili alla classe di riferimento. Riteniamo però che l’unità dei comunisti non sia una questione nominalistica o un feticcio, ma vada costruita attorno a dei contenuti concreti: unità sì, ma per fare cosa? Per praticare quale linea politica? In caso contrario, temiamo, la declamazione dell’unità e il richiamo al comunismo rischiano di ridursi all’occupazione preventiva di uno spazio simbolico. Ad un atto di auto-attribuzione che lascia però un’ampia divaricazione tra la retorica e l’azione politica effettiva.

Per concludere questa nostra riflessione, a quanto suggeriscono i compagni dell’Ernesto, noi rispondiamo che siamo da sempre dell’opinione che vada valutata seriamente ogni proposta sul tema della riunificazione della diaspora comunista in un Partito utile alla classe di riferimento. Proprio per questo non ci possiamo limitare ad affrontarle criticamente, ma rilanciamo la posta in gioco.

Per non esaurirsi nell’enunciato di una buona intenzione, ogni proposta di ricostruzione di un partito comunista degno di questo nome dovrebbe trovare momenti di convergenza a partire da contenuti che siano chiari e che abbiano un riscontro unitario coerente nelle battaglie politiche e sociali. Su questo punto e sulla costruzione di un programma minimo di fase, noi siamo da sempre disponibili alle più ampie collaborazioni con tutte le forze comuniste in ogni territorio e a livello nazionale. Chiediamo allora ai compagni dell’Ernesto perché, a partire da un certo momento, rifiutano ogni interlocuzione in questa direzione. Chiediamo loro perché, invece di scindersi dal PRC ed entrare frettolosamente nel PdCI, non si mettono a disposizione – con il PdCI se è disponibile, ovviamente, ma anche con altre soggettività politiche comuniste ovunque collocate, dentro e fuori la FdS – ad un processo costituente reale. Chi è disponibile ad avviare un processo che sia realmente aperto e, sin dalle sue regole, non precostituito? Chi è disponibile ad un percorso che, a partire dai territori, abbia davvero la possibilità di rimettere in discussione la linea politica sulla quale unirsi, con un dibattito franco e alla pari? Chi è disponibile a scegliere i dirigenti più adeguati e le alleanze necessarie solo in conseguenza della sintesi di questa linea?

Se davvero la proposta fosse quella di una costituente comunista larga, aperta e partecipata, se davvero si trattasse di ricostruire il partito comunista e non di un semplice ingresso nel PdCI, i compagni dell’Ernesto, e chiunque si dichiarasse per questa prospettiva, non dovrebbero avere difficoltà a rispondere positivamente alle nostre domande. Con il vantaggio supplementare di rivolgersi in tal modo anche al vastissimo mondo della diaspora comunista e al di fuori del recinto precostituito al quale, per come è stato formulato, il loro appello sinora parla.

10 febbraio 2011

Comunisti Uniti

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