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IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
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L’araba fenice e la vecchia talpa

(12 Gennaio 2004)

La grande ondata planetaria del 15 febbraio contro la guerra, di fronte alla feroce e incondizionabile determinatezza avversaria, nonché la spiazzante insorgenza di un’autodifesa armata da parte di un popolo aggredito, non ha saputo ritrovare nuovi spazi e nuova capacità di mobilitazione. Certo, dopo questa data non sono mancati momenti mobilitativi, ma si è trattato di iniziative che hanno coinvolto soprattutto soggettività individuali o collettive afferenti la galassia di quel ceto politico che ha sin qui costituito di fatto, nel bene e nel male, la struttura portante del “movimento”: fanno eccezione le grandi mobilitazioni di Evian, di Cancun e di Londra. Se così stanno le cose, una domanda sorge spontanea: dove sono finiti quei cento e più milioni di uomini e donne sincronicamente mobilitatisi nelle piazze di tutto il mondo?

Con questo interrogativo non intendiamo inferire capziosamente che tutto ciò che è successo da Seattle in poi sia stato vano, come fa e ha sempre fatto una certa sinistra nostalgica che è rimasta a guardare, in attesa di un riproporsi sempre identico a se stesso delle modalità mobilitative di massa dei passati cicli di lotta. Tutt’altro! Il vento di Seattle ha definitivamente messo alla berlina l’ideologia dominante che magnificava impunemente le virtù salvifiche ed irrinunciabili della cosiddetta globalizzazione e delle sue “autoregolamentate” libertà di mercato. In questo senso, il “movimento no-global” è stato l’espressione soggettiva delle contraddizioni materiali che si andavano accumulando: non certo mero riflesso passivo di esse, ma loro primo (sia pur parziale) disvelamento nella coscienza collettiva, loro prima operante critica di massa.

Riteniamo però che si debba lucidamente prendere atto che la delusione “post 15 febbraio”, di fronte all’irrefrenabile avanzata della macchina bellica di Monsieur le Capital, è stata assai cocente: mai nella storia si era manifestata un’opinione comune così ampia e diffusa per tutto il globo, eppure la politica della morte ha proseguito il suo sporco lavoro.

Approfittando di tale delusione, una parte della sinistra e del pacifismo sta cercando di rilanciare l’autonomia della politica (la politica delle alleanze con i propri avversari, la politica nelle istituzioni). Al contrario, questo senso di frustrazione non può essere rimosso tramite la sua strumentalizzazione politicistica. Se vogliamo contribuire a rilanciare il “movimento”, la fase attuale non può più essere affrontata con l’ingenua fede nella possibilità di costruire immediatamente un altro e alquanto indeterminato mondo, senza fare i conti con la potenza reale dell’avversario. Ed è perciò necessario contribuire alla comprensione del dato di fatto che molti fenomeni, denunciati giustamente dal “movimento no global”, non sono accidenti o distorsioni morali, semplici patologie eliminabili con una “cura culturale” o altrettanto “morale”, ma affondano le loro radici nel sistema di accumulazione capitalistico e nella sua crisi ormai più che trentennale.

Per un verso, non si tratta di spiegare questo dato di fatto o di porlo in modo ultimativo, con il risultato, magari non voluto, di delegittimare la parzialità e l’insufficienza del movimento reale così come di volta in volta si esprime; per un altro verso, nondimeno, esso (di sovente rilevato da una parte del “movimento” stesso) deve in questa fase emergere, nella consapevolezza collettiva, con la massima chiarezza. E ciò, a maggior ragione oggi, a fronte di posizioni che nella loro apparente genericità, pur sembrando più affascinanti o inclusive a livello di massa, si rivelano però assolutamente paralizzanti. In questo senso, va senz’altro inquadrata la posizione di certo pacifismo assoluto ed ideologico (come quello, ad esempio, di Emergency), con il suo appello al “cessate il fuoco”, invitante sul piano morale ma nei fatti assolutamente “disarmante”. E’ incontestabile, del resto, che tale area sia rimasta assente da qualsiasi iniziativa che, nella nuova situazione data, si sarebbe per essa rivelata collusiva con la violenza della resistenza irakena e, in fondo, come un oggettivo invito a scontrarsi con gli apparati repressivi dei paesi aggressori.

D’altronde, un pacifismo siffatto non può che riconoscersi come espressione della “società civile”, intesa nella sua effettiva originaria accezione (marxiana) di agglomerato indistinto di singolarità atomistiche, affatto opacizzante le specifiche antagonistiche determinazioni di classe della “società del capitale”. E cos’altro può fare siffatta “società civile” mondiale se non manifestare l’astratta volontà dei suoi astratti componenti, su di un piano meramente etico ?

Ecco, il punto è proprio questo!

La “società civile” ancora una volta ha dimostrato di essere nulla più di una mera rappresentazione ideologica, affatto priva di fondamento materiale. Se il nostro mondo fosse davvero regolato da qualcosa di simile ad una dialettica democratica tra politica e società reale, quei cento milioni di persone avrebbero dovuto riportare una schiacciante ed immediata vittoria. E invece l’appello di alcune componenti del movimento (peraltro enfatizzate ad arte dai media) alle regole della pacifica convivenza tra i popoli e al diritto internazionale, e un’acritica perdurante fiducia nella democrazia rappresentativa borghese si sono rivelati fatalmente impotenti: nell’impossibilità di costruire immediatamente un altro mondo, ci si è così incancreniti nel tentativo di rimescolare gli imputriditi ingredienti di quello vecchio.

La guerra infinita e le aporie dei pacifisti

La guerra infinita non è, dunque, un mero accidente della storia. Per scongiurarla, a poco vale fare appello - a mò della vecchia socialdemocrazia - ad una regolazione statuale dell’accumulazione, in grado di temperare le dinamiche dell’internazionalizzazione selvaggia del capitale. Se esiste, infatti, una capacità di regolazione del sistema economico finalizzata al sostenimento dell’accumulazione da parte dello stato, essa si deve basare su una capacità impositiva nei confronti dei singoli capitali di cui possa beneficiare il “capitale collettivo”. Ma, in assenza di un’autorità politica “al di sopra” degli interessi particolari, nessuno può essere disponibile a rinunciare, nell’immediato, ad una parte dei suoi profitti per poter godere, in un secondo tempo, di un’eventuale ripresa dell’accumulazione. Ed è questa la situazione in cui ci troviamo, dopo anni di internazionalizzazione del capitale, di liberalizzazioni e di privatizzazioni. In realtà ritornare ad una regolazione su scala nazionale dell’accumulazione è assolutamente improponibile per le multinazionali dei paesi avanzati, perché questo significherebbe ripristinare barriere esiziali per il loro sviluppo. Tale esito sarebbe immaginabile solo nell’ambito di un aperto scontro tra entità statuali, tale da preludere, presumibilmente, ad un diretto confronto bellico.

L’alternativa è una regolazione a livello internazionale che però presupporrebbe la definizione di un’esplicita gerarchia tra capitali egemoni e capitali subordinati: proprio ciò che è in gioco nell’attuale fase di guerra economica, con il suo portato di aspri conflitti politici.

Certo, si può ancora persistere nelle illusioni keynesiane di un rilancio statuale della domanda aggregata di cui tutti quanti, lavoratori e singoli capitali, possano beneficiare. Ma bisognerà prima o poi prendere atto del fatto che non è stato l’abbandono delle politiche keynesiane, negli anni Ottanta, a determinare l’attuale crisi, ma è stata quest’ultima, iniziata negli anni Settanta, a provocare l’abbandono di un interventismo statuale oramai inefficace per sostenere l’accumulazione. In realtà, ogni intervento statuale è essenzialmente un intervento redistributivo finalizzato a calmierare il conflitto sociale o ad indirizzare le risorse esistenti verso quelle porzioni di capitale ritenute strategiche, perché minacciate dalla concorrenza internazionale o perché in grado di sostenere il processo accumulativo generale nel medio-lungo periodo.

Insomma, una regolazione internazionale della valorizzazione capitalistica, oggi, richiederebbe l’affermazione incontrastata di un soggetto egemone nell’agone mondiale e, in considerazione degli attuali rapporti di forza, questo soggetto non potrebbe che incarnarsi negli Stati Uniti. E allora ci imbattiamo in un paradosso: coloro che si sono opposti all’impero Usa e al suo bellicismo, in nome di una gestione regolata del capitalismo internazionale, si pongono, volendo essere fino in fondo coerenti, a fare il tifo per l’instaurazione di una sorta di “new-deal imperiale” o, in alternativa, a sostenere l’affermazione di imperialismi nazionali o sovranazionali in competizione tra di loro, fino all’esito estremo della guerra. E qui, al di là della già aspra competizione fra l’area valutaria del dollaro e quella dell’euro, va rilevato l’altro profondo fattore di instabilità conflittuale, ad alto rischio di diretta tracimazione su di un piano definitivamente bellico, rispetto al colosso cinese, senz’altro finanziariamente assai più debole di quello europeo, ma certamente meno malleabile sul piano politico-militare.

Una parte del “movimento no global” sembra aver scartato l’ipotesi suddetta, di regolazione statuale, pensando di premere dal basso per imporre un’altra regolazione, magari attraverso poteri diffusi e municipalismi più o meno conflittuali. Rispetto alla questione del “potere”, essa non si è posta, né in termini di conquista, né in termini di scontro reale: l’ha semplicemente evitata.

Non sottovalutiamo che uno dei presupposti della diffusione di tale deriva ideologica è stato costituito dalla realtà di una presa di parola diretta da parte di milioni di individui, mobilitatisi fuori (e quindi potenzialmente contro) la mediazione della politica istituzionale. Questo processo di autentica democrazia di base, sinora, non è riuscito però ad esprimersi nella vita quotidiana e nei luoghi di lavoro, ma si è travasato solo nelle grandi manifestazioni di piazza, sia pur con una continuità sicuramente sorprendente. Da tale limite, è nato il vizio di non fare i conti con le radici reali del sistema, riflesso e trasfigurato appunto in virtù, nel suddetto impianto ideologico.

D’altronde, è incontestabile che il più ampio movimento della storia sia, però, anche quello che ancora non ha colto neppure un risultato in termini di cambiamenti del mondo o, se volete in termini più volgari, in termini di riforme. Con un’aggravante: questa mancanza di risultati viene esaltata da più parti come espressione di una lotta post-comunista, come espressione di una fase in cui predominano obiettivi immateriali.

Ma c’è ancora di più. Benché apparentemente conflittuali e incomponibili, la richiesta di più stato e più politica ed il vagheggiamento di un “esodo” dallo stato e dalla politica si pongono, nella concretezza della pratica quotidiana, come imprescindibilmente complementari. L’esodo, infatti, risulta operativamente impraticabile data la permanente e pervasiva vigenza del potere politico ed economico, e si riduce dunque all’occupazione del livello istituzionale più periferico. Tale occupazione, però, necessita sempre e comunque di una sponda al livello più alto, che solo una qualche espressione di governo in salsa “neo-post-cripto-socialdemocratica” può offrire (per un edificante case study, si rimanda alla tragicomica istoria dei rapporti fra Bertinotti e Casarini).

Sovversivi di tutto il mondo in gattabuia!

A fronte di queste indeterminatezze, non può sorprendere che possa prevalere un senso di impotenza tale da portare ad una sorta di afasia del “movimento”, che infatti, da lunghi mesi si è carsicamente reinterrato, quasi a ridefinire gli ambiti della propria stessa capacità di incidenza progettuale. E ciò, tanto più in forza del fatto che lo “stato democratico” non sta certo a guardare, aspettando che i soggetti che hanno dato vita alla grande ondata mobilitativa di questi ultimi anni si riprendano dal loro disorientamento e rialzino la testa.

Se qualcuno nutrisse ancora qualche residua illusione sulla natura super partes dello stato (o tanto più sulla sua permeabilità a pressioni dal basso in tempi, come gli attuali, di crisi radicale della rappresentanza), rispetto al conflitto sociale, è lo stato stesso a smentirlo, dimostrando sempre più chiaramente la sua natura di gendarme disciplinatore, in piena sintonia con la politica della morte attuata sul fronte esterno. Le “amorose attenzioni” della magistratura italiana nei confronti del “movimento” si sono in un primo momento concretizzate nelle accuse, da parte delle procure di Genova e Cosenza, di associazione sovversiva, graziosa eredità del codice fascista, non a caso mai abolito dalla “democratica repubblica fondata sul lavoro”. E vale la pena ricordare che tale tipo di reato è un’aberrazione anche da un punto di vista liberale. Con esso, infatti, si perde la concatenazione temporale immediata tra azione (delitto) e reazione (castigo). Il nuovo reato viene definito “di pericolo”, ma tale situazione di pericolo, appunto, si pretende sia già configurabile in base alla sola intenzione allo stato embrionale: anche due persone organizzate, quindi - dirà la giurisprudenza -, possono realizzare l’ipotesi di reato di sovversione e beccarsi, solo per questo, 15 anni di carcere, come altri 15 anni possono essere rifilati per “devastazione e saccheggio”, anche con il solo “concorso psichico”. In altre parole, si punisce in anticipo, “preventivamente”. A supporto della guerra infinita scatenata su scala planetaria dal capitale imperialistico, è iniziata di fatto la controrivoluzione preventiva sul fronte interno delle sue singole specifiche componenti statuali.

In Italia, la normativa inerente i cosiddetti “reati associativi”, già introdotta in epoca fascista, è rimasta dormiente per molti anni, fino a che l’esplosione dei movimenti sociali dei sessanta/settanta creò il contesto in cui essa fu puntualmente riutilizzata, in innumerevoli occasioni, nell’evidenziazione della sua manifesta natura spudoratamente classista. Per di più, all’art. 270 si aggiunse l’art. bis, il ter e poi il quater, con pesantissime aggravanti di pene e di carcerazioni preventive. Finita la cosiddetta emergenza, l’aberrazione giuridica rimase in vigore, con tutte le aggravanti connesse, pronta per essere riutilizzata in occasione di un qualsivoglia futuro inasprirsi del conflitto sociale; cosa che, come stiamo vedendo, è puntualmente accaduta.

Tanto che abbiamo successivamente avuto un nuovo salto di qualità nella spirale repressiva: le procure di Napoli e Roma hanno avuto addirittura la faccia tosta di contestare i reati di “associazione per delinquere”, rispettivamente finalizzata all’”estorsione di posti di lavoro” e all’occupazione di edifici pubblici !?!

Tali episodi repressivi costituiscono una limpida esemplificazione di quella linea di condotta che si va affermando nella magistratura, tendente a ridurre il conflitto sociale a pura fenomenologia criminale. Non si riconosce più alle lotte neppure la loro “legittimità” sociale, dovuta alla soddisfazione di bisogni elementari come la casa o il lavoro, ma le si declassa ad azione criminosa, sia per aggravarne lo statuto di illegalità e poterle colpire con maggiore gravità, sia per creare consenso verso l’azione repressiva, equiparando tout court le lotte sociali alla criminalità organizzata.

Come se tutto ciò non bastasse, un ulteriore colpo di scena è stato pianificato sul terreno del più drastico disciplinamento sociale: l’azione antiterrorismo attuata in concomitanza con la manifestazione sindacale contro la riforma delle pensioni del novembre scorso. Non può sfuggire la strumentalità di questa operazione. A parte la più immediata impressione che se ne poteva trarre - della serie: “c’è chi lavora per la sicurezza dei cittadini, mentre altri perdono tempo in irresponsabili sfilate” -, la sua più subdola finalità era quella di creare una sorta di automatica omologante sovrapposizione tra conflitto sociale e “lottarmatismo”. Potrà sorprendere che in questa operazione sia stato reiteramente coinvolto anche lo stesso sindacalismo “triconfederale”, considerando le sue posizioni tutt’altro che radicali. Ma il fatto è che nel contesto attuale appare totalmente intollerabile anche la stessa esistenza di una rappresentanza sociale, qual è quella sindacale. Essa, infatti, pur rientrando nel ciclo strutturalmente astrattizzante della rappresentanza, mantiene comunque una più stretta relazione con la materialità dei soggetti rappresentati. Ed è proprio per questo suo connaturato statuto che la Cgil, per bocca del malcapitato Cofferati, fu costretta a sterzare a sinistra sotto la spinta dell’incazzatura di tre milioni di proletari scesi in piazza per difendere l’articolo 18. La stessa dinamica che ha spinto la Fiom ad organizzare una lunga ondata di scioperi, tuttora ininterrotta, che sta ormai di fatto invalidando la riforma Biagi, in ampi comparti del settore metalmeccanico, e sta frenando un trend di caduta dei salari monetari che vede oramai l’Italia come uno dei paesi europei con il più basso costo del lavoro.

A conferma del fatto che è il conflitto in quanto tale ad essere ormai considerato criminale, le associazioni padronali dell’Emilia Romagna hanno accusato di incostituzionalità i precontratti fatti firmare dalla Fiom, invocando l’intervento della magistratura e del legislatore, per mettere fine alla “scandalosa” prassi degli scioperi. E soltanto “ieri”, di fronte alla vera e propria rivolta dei lavoratori dei trasporti pubblici, l’iniziativa antisindacale è infine passata direttamente nelle mani del governo, con le scontate, immediate ricadute: precettazioni a raffica, invocazioni del pugno duro da parte della magistratura, progetti di inasprimento della già castratoria legislazione che regola/ingabbia lo sciopero.

Sotto la spinta di tale pressione e approfittando della scusa offerta dalla presunta violazione del diritto alla mobilità dei cittadini (quello stesso diritto quotidianamente negato dal dissesto del servizio pubblico e non certo dagli scioperi selvaggi), la Cgil, dal suo canto, ha già iniziato ad archiviare la breve stagione del suo “radicalismo coatto”, assumendo atteggiamenti più consoni alla sua costitutiva vocazione concertativa: con la firma del contratto, il maggiore sindacato italiano ha svolto il solito ruolo di pompieraggio a mezzo del consueto accordo al ribasso, dopo che nei giorni precedenti aveva più volte preso le distanze dalle “poco opportune” forme della lotta e, in alcuni casi, aveva addirittura boicottato attivamente gli scioperi, spargendo false voci di defezione da parte di alcuni comparti di lavoratori.

Ma il fiorire di iniziative repressive non è certo una prerogativa italiana. Una costante produzione di “politiche securitarie” - all’insegna della “Tolleranza Zero” - suggella il moderno comando del capitale mondializzato, a conferma del fatto che la politica di guerra non riguarda più, esclusivamente, i paesi ed i popoli dipendenti dall’imperialismo, ma diventa, progressivamente, la strategia politica prevalente (sia pure ancora su di un piano di netta diversificazione) anche nei confronti del proletariato metropolitano.

Quel pasticciaccio brutto di via dell’Anima (de li mortacci sua!)

L’Italia dunque si inserisce pienamente in un trend internazionale, per questo aspetto, ma anche per molti altri. Occorre però aggiungere che il nostro paese rappresenta un caso estremo delle dinamiche che si stanno affermando a livello internazionale. In Italia, in luogo dell’aziendalizzazione dello stato, riscontrabile a livello internazionale, abbiamo una singola azienda che si è fatta direttamente stato. L’aspetto eversivo del governo Berlusconi non deriva dunque da una sua “cultura fascista”, ma da una ben specifica logica imprenditoriale, ferocemente aliena da ogni preoccupazione di mediazione sociale, applicata alla gestione dello stato.

A parte un minor rispetto per le “formalità” democratiche (che comunque non è poca cosa), i due processi tendono ad un medesimo risultato: appassisce la democrazia rappresentativa e germoglia la rappresentazione democratico-spettacolare, in cui il citoyen si appiattisce tendenzialmente sul bourgeois.

In tutto ciò non bisogna mai dimenticare che il crinale del rapporto di forza tra le classi costituisce la vera posta in gioco: ciò cui si tende in questa fase è la negazione di qualsivoglia forma di riconoscimento politico dei bisogni proletari, fossero anche quelli più immediati ed elementari. Le istituzioni, infatti, costituiscono la concretizzazione, relativamente stabile, di un punto di equilibrio tra i diversi interessi di cui sono portatrici le classi sociali e le molteplici fazioni in cui ciascuna di esse si può dividere.

In altri termini, le istituzioni non sono altro che espressione delle regole pattiziamente adottate dalla classe dominante e dal mondo politico per risolvere/dissolvere, mediandolo o reprimendolo, il conflitto di classe.

Quando gli interessi fino ad un certo punto ritenuti legittimi, per il mutato contesto interno e internazionale, non possono più essere conciliati, è fatale che siano le stesse istituzioni a diventare terreno di scontro politico.

Il “senso comune di sinistra” che, dopo il Social Forum di Firenze, ha cercato in Italia, pure tramite il “girotondismo” (e in Francia tramite Attac), di contaminare anche il “movimento”, ha invece riportato l’opera eversiva del governo di destra alla specifica personalità e ai privati interessi del presidente del consiglio e della losca Corte dei miracoli che lo contorna. In tal modo, in Italia, la lotta contro il neoliberismo, già di per sé fuorviante rispetto al vero nemico rappresentato dal capitalismo tout court, si è andata a sovrapporre confusamente con la battaglia contro Berlusconi, identificato quale causa prima di tutte le dinamiche implosive della cosiddetta dialettica democratica, che si stanno affermando nel nostro paese con irrefutabile plateale evidenza. La personificazione delle aberrazioni del sistema, nella figura di Berlusconi, assunto come “male assoluto” ed inteso come eccezionalità deviante, ha contribuito ulteriormente a far dimenticare che ad essere aberrante è il sistema in se stesso. La necessità di disarcionare il cavaliere, obiettivo ovviamente condivisibile e certamente non irrilevante, ha finito per appiattire/colonizzare una parte del “movimento” sul versante di un asfittico “fronte democratico” e per emarginarne, costringendola di fatto all’attuale “interramento”, la parte restante che non voleva farsi stritolare da questo abbraccio. Purtroppo, basta leggere le innumerevoli dichiarazioni degli esponenti del centrosinistra, a proposito delle berlusconiane riforme delle pensioni, del mercato del lavoro, dell’università ecc., per capire che l’Ulivo sta rassicurando il capitale circa le sue intenzioni di non intaccare sostanzialmente le “conquiste” del centro-destra nel caso di un prossimo cambio di governo.

Riposino in pace le ceneri dell’araba fenice

Tirando le somme, dobbiamo constatare che, da diversi punti di vista, ci troviamo in un impasse abbastanza pesante, perché non si è riuscito ancora a fare i conti fino in fondo con le dure circostanze dell’odierna fase del capitale. L’evocazione di “altro mondo possibile” non uscendo ancora dalla sua genericità, si è incrociata con il lavorio di chi evoca un “altro capitale”, ormai impossibile. Non si può dunque uscire da tale difficoltà radicalizzando i concetti di società civile, democrazia formale, stato di diritto, keynesismo, cioè di tutte quelle rappresentazioni ideologiche prese a prestito dal pensiero borghese sedicente “progressista”. Tant’è che la stessa disobbedienza civile, in fin dei conti (sebbene ci sia una parte di coloro che ad essa si ispirano, che si propone di caratterizzarla come “disubbidienza sociale”), non è che la versione più radicaleggiante di tale pensiero, in quanto essa si limita a contestare specifiche norme in nome di una norma più alta, sia essa una costituzione nazionale o la “dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino” dell’Onu.

Ma oggi ciò che è in gioco (come mostrano nel modo più limpido la fetenzia del caso italiano, per un verso, e l’esautoramento bellicistico dell’Onu, per un altro), sono proprio quelle impalcature istituzionali, sia nazionali che sovranazionali, in nome delle quali alcuni tardivi neofiti della disobbedienza civile pretenderebbero contestare le concrete articolazioni dell’ordine esistente.

Oggi è il capitale che, costretto a presentarsi con la sua faccia più feroce, fa implodere il castello ideologico da lui stesso creato, facendo riemergere l’ostinata durezza delle contraddizioni di classe.

A fronte di ciò, il cittadino, già svilito e omologato al borghese, deve finalmente riconoscersi nuovamente all’interno delle proprie determinazioni materiali, come proletario. Ma è proprio questo auto-riconoscimento che risulta difficile nell’attuale configurazione dello spazio produttivo, caratterizzato da un’altissima frammentazione e da un intenso processo di precarizzazione. In questo contesto è plausibile ipotizzare che ampi settori di classe potranno organizzarsi ed esprimere una propria vertenzialità anche sul piano sindacale, soprattutto se troveranno momenti di espressione che travalichino la ristrettezza e la limitatezza del proprio rapporto di lavoro immediato, in cui è oggettivamente assai difficile spezzare le gabbie di un isolamento paralizzante, nonché l’eventuale ideologia “partecipazionistica” tipica di certe microaziende a gestione “familiare”. Questo salto mortale, dal proprio malessere personale al tentativo di risolvere al livello più alto le contraddizioni materiali che lo ingenerano, è potenzialmente foriero di una forte radicalità, a patto che le figure proletarie si riconoscano in quanto tali nel loro aderire al “movimento”. Fin qui, invece, è stata ancora diffusa, nonostante il positivo risveglio iniziato a Seattle, la percezione di se stessi quali individui astratti, come cittadini eticamente motivati.

Dovendo fare i conti con questa percezione, certo non eliminabile tramite colpi di scopa propagandistici, siamo convinti, insomma, che il “movimento” - quel fenomeno di ampia mobilitazione partecipativa deflagrato col vento di Seattle e da noi interpretato come il primo segnale di un nuovo soggetto collettivo in gestazione, il primo suo manifestarsi sul terreno di un processo di ricomposizione necessariamente lungo e complesso - difficilmente risorgerà dalle sue ceneri come l’araba fenice, sempre identica a se stessa.

Con ciò non si vuole minimamente negare la sua importanza, neppure quando ha saputo articolarsi sul terreno dell’opposizione alla guerra, mobilitandovi immense maree umane. Oggi che la “quarta guerra mondiale contro l’umanità” (per dirla insieme a Marcos) è definitivamente passata dalle armi dell’economia all’economia delle armi, è più che mai necessario cimentarsi su questo piano e, nel caso specifico dell’Iraq, ribadire le nostre discriminanti fondamentali in faccia a tutti coloro che, dietro esitanti equidistanze fra aggressori ed aggrediti, nascondono il desiderio di tornare ai loro sporchi business, as usual. E queste discriminanti non possono che essere il ritiro immediato delle “truppe alleate” e la piena legittimità di qualsivoglia forma di effettiva autodeterminazione (compresa la resistenza armata) contro l’occupazione neo-colonialistica, soprattutto, se si tiene conto che il rilancio di un movimento mondiale dovrà necessariamente coinvolgere la più grande maggioranza degli esseri umani, tutti potenzialmente destinati a condividere l’attuale sorte degli irakeni. Obiettivi questi che senz’altro - prima lo sappiamo meglio è - scandalizzerà molti soggetti protagonisti della fase conclusasi il 15 febbraio, scatenando una dura polemica.

Ma tutto ciò non basta. Non è sufficiente fare professione di un internazionalismo che, in questi termini, potrebbe risultare troppo astratto. Oggi più che mai è necessario porre in primo piano, con forza, la succitata connessione tra fronte esterno e fronte interno della guerra permanente preventiva, ufficialmente scatenatasi dopo le Twin Towers! La guerra non è infatti mero scontro di soli capitali, ma anche iniziativa contro i lavoratori, contro i proletari: sicuramente nella fase della sua esplicazione, con immani stragi tra i civili, non meno sicuramente nella fase della sua preparazione.

Toh! Ci è parso di vedere una vecchia talpa

Siamo infatti convinti che il grande movimento di massa espressosi fino al 15 febbraio, non solo non si trasformerà nel suo contrario, come accadde invece alla vigilia della I guerra mondiale, ma, pur attraverso le sue difficoltà e il suo attuale interramento, potrà consentire alla vecchia talpa di scavare altri cunicoli e di riemergere da altri buchi. Le contraddizioni materiali si stanno approfondendo e generalizzando. Limitandoci alla situazione italiana, le mobilitazioni per l’art. 18 e per le pensioni, la lunghissima serie di scioperi dei metalmeccanici per invalidare la riforma Biagi e conquistare un contratto decente potrebbero essere le prime manifestazioni di un diffuso scontro di classe. Una prima manifestazione di questo scenario si è certamente concretizzata con lo sciopero dei lavoratori dei trasporti pubblici che hanno di fatto invalidato la direzione sindacale della loro lotta, hanno infranto la legislazione repressiva del (non più) diritto di sciopero e sono infine giunti a rigettare gli ordini prefettizi di precettazione, proseguendo tuttora nel loro cammino di autoricomposizione diretta, dentro la materialità del conflitto capitale/lavoro.

Non può sfuggire il profondo significato di questo evento.

Lo sciopero selvaggio è la negazione, anche se in forma immediata, della regolazione giuridica del conflitto di classe: l’opposizione tra il diritto del compratore della forza lavoro e il diritto del suo venditore non trova più una conciliazione nei termini delle regole codificate, ma si manifesta quale vera è propria antinomia tra due poli che si fronteggiano, facendo affidamento sui meri diretti rapporti di forza.

Certo, questa lotta è stata determinata in primo luogo dall’esasperazione dei lavoratori che hanno agito - si potrebbe dire - a livello quasi istintivo. Ma, a ben vedere, è proprio il suo carattere assolutamente spontaneo che la rende particolarmente significativa: date le condizioni oggettive che oggi prevalgono, l’unica possibilità per i lavoratori di difendere i propri diritti e interessi è stata quella di agire con estrema radicalità. E in questa loro azione i lavoratori hanno dovuto riscoprire il valore irrinunciabile dell’autorganizzazione, essendo in questo facilitati dalla possibilità di utilizzare i reticoli organizzativi preesistenti, messi su grazie ad anni di paziente lavorio da parte dei sindacati di base. Questi ultimi, da parte loro, hanno assecondato l’autorganizzazione dal basso dei lavoratori, rinunciando a qualsivoglia logica di parrocchia, senza cioè considerare la mobilitazione quale occasione per estendere la propria influenza e rappresentatività. Nel farsi strumento e nell’immergersi nel magma della composizione di classe, afferente anche alla base confederale, i sindacati di base hanno certo risposto pure alla sacrosanta esigenza di non offrire pretesti alla criminalizzazione delle loro organizzazioni, ma resta il fatto che la risultante di tale comportamento è stata un essenziale contributo ad un processo di ricomposizione dell’autonomia di un comparto di lavoratori, manifestatosi in una mobilitazione di massa assolutamente unitaria.

E’ sicuramente presto per dire se questo sarà solo un episodio isolato o se le contraddizioni di cui questa insorgenza è espressione esploderanno in modo diffuso. Quello che sappiamo è che nessuna lotta può sviluppare tutte le sue potenzialità nell’isolamento. E siamo anche convinti che, dal suo canto, il “movimento”, per superare la fase di re/interramento (in cui, a nostro avviso, ha comunque espresso il proprio rifiuto, rispetto alle derive e agli approdi su cui lo si pretendeva recuperare alla logica dell’esistente), dovrà consapevolmente ancorarsi a queste contraddizioni, per riconoscersi in forza di esse quale proletariato universale, e come tale comprendere quindi fino in fondo che la sua non è né può limitarsi ad essere una lotta di ordine solamente etico, ma deve sapersi riconfigurare come lotta di classe, cimentandosi dunque sull’impervio crinale della contraddizione capitale/lavoro.

Se vogliamo aiutare la vecchia talpa a riemergere di nuovo, non possiamo dunque che ripartire dal senso strategico progettuale dell’opzione comunista e, contemporaneamente, da una ricerca collettiva di nuovi ambiti e forme per la ricomposizione che si riconferma come fortemente ostacolata dall’attuale configurazione materiale del ciclo di produzione/valorizzazione.

Il movimento di tutti i bisogni e il bisogno di un solo movimento

Proprio in questo senso risulta necessario ridefinire un visibile ambito anticapitalistico all’interno del “movimento”, se vogliamo cercare, collettivamente, di dare una risposta all’enorme domanda politica che dal “movimento” stesso nasce. Fin qui, l’esigenza di una ridefinizione politico-strategica ha ricevuto soltanto pseudo-soluzioni, da parte della multiforme paccottiglia delle ideologie progressiste, più o meno verniciate a nuovo, e delle suggestioni di assai vecchio stampo evocanti grandi e soffocanti apparati di “massa”. Il vuoto lasciato dalla debacle di queste “dottrine” può rappresentare un salutare shock soltanto se non si tradurrà in smarrimento e senso di impotenza.

Con ciò non vogliamo assolutamente perorare la causa di sconsiderate strette organizzative in salsa più o meno avanguardistica. Dove porti la logica “da apparato” lo conferma ancora una volta la vicenda di Rifondazione, che ha cercato di cavalcare le mobilitazioni di questi ultimi anni, esaltandole strumentalmente in modo sostanzialmente acritico, per poi abbandonare repentinamente il suo opportunistico “movimentismo”, in vista dell’ingresso nel futuro governo Prodi. E altrettanto evidente è l’esito assolutamente annichilente - oltre che troppo spesso assurdamente “suicida” -, cui conduce qualsivoglia minoritarismo autoreferenzialistico ed incentrato su di un “comportamentalismo” formalisticamente assunto quale unica “discriminante” di una qualche presunta purezza rivoluzionaria.

Al contrario, l’esempio da seguire e da generalizzare, è semmai quello sin qui offerto dai sindacati di base nella vertenza degli autoferrotranvieri: essi hanno utilizzato le loro organizzazioni come strumento per far crescere il “movimento reale”, piuttosto che strumentalizzare quest’ultimo cercando di sussumerlo sotto la direzione di una struttura ipostatizzata. Bisogna essere comunque consapevoli che la logica di apparato può in ogni momento riproporsi e interrompere la prassi virtuosa sin qui seguita. Se questo accadesse la conquista di qualche tessera in più sarebbe ben misera vittoria a fronte del danno inferto alla lotta in corso che, nella giornata del 9 gennaio, ha segnato un’ulteriore grande successo e un ancor più netto smarcamento nei confronti dei sindacati triconfederali.

Occorre insomma tenere insieme la necessaria affermazione di una forte identità e un’altrettanto importante apertura nei confronti delle differenti soggettività che in questi anni hanno dato vita al “movimento”. Se sapremo collocarci nelle potenzialità della lotta anticapitalista in questo modo trasparente ed orizzontale, potremo ritrovare al nostro fianco anche una parte consistente di quelle “sensibilità autenticamente democratiche” che nel “movimento” hanno ripetutamente deciso di mobilitarsi a favore dei diritti e dei bisogni basilari degli esseri umani. Oggi, infatti, questi diritti e bisogni non sono più riconosciuti né riconoscibili da parte di un capitale che è divenuto oramai “incapace di sfamare i suoi stessi schiavi”.

Se si riconoscerà finalmente che il vero nemico di tutte le lotte è un capitale oramai fattosi totale e sempre più necrogeno ed affamato di sangue, si dovranno anche comprendere e superare le debilitanti ingenuità che hanno contraddistinto questi anni di pur smisurate mobilitazioni. Si dovrà cioè capire che la prospettiva politica da costruire non può essere quella di tanti movimenti particolari, che si sommano meccanicamente per creare momenti di unità astratta, in occasione di singole scadenze, per tornare subito dopo nella loro sostanziale separazione e nell’isolamento dei luoghi di lavoro.

La capacità di incidere nei reali rapporti di forza si darà soltanto se le determinazioni concrete specifiche - sin qui troppo spesso astrattizzate nel cielo dell’etica e della cittadinanza - dei soggetti che hanno dato vita al “movimento” potranno infine riconoscersi in un’universalità concreta capace di trovare fondamento materiale nella comune condizione proletaria e di costruire un’unità politico-progettuale in forza di un irriducibile anticapitalismo, collettivamente e consapevolmente vissuto.

Non si tratta certo qui di una forzosa e astratta reductio ad unum che lasci fuori di sé le particolarità delle diverse soggettività. Il punto da capire è che le lotte per l’affermazione dei più differenti bisogni, con tutto il portato delle loro specifiche ricchezze propositive, possono e devono essere esplicitamente vissute per quello che già materialmente sono, in potenza: le molteplici e concrete articolazioni, cioè, di un unico radicale scontro, lo scontro di classe contro il dominio, di Monsieur le Capital, contro il suo processo di valorizzazione imprescindibilmente incentrato sullo sfruttamento e articolato sul ciclo spettacolare dell’astrattizzazione universale della merce.

Né si tratta di uno scontro che evita per altra via la questione del potere, che è diffuso, articolato, ma anche centrale. In tutti i casi, non contaminabile, né deperibile. Per il resto, anche la vita concreta, la viva esperienza delle masse in lotta, insegnerà molte cose, come è sempre successo.

11 gennaio 2004

I/le compagni/e di Red Link - email: redlink@Virgilio.it
La redazione di Vis-à-Vis - email: karletto@rm.ats.it

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