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(14 Novembre 2010) Enzo Apicella

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Questo regime è una camera a gas

(27 Febbraio 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

Cremaschi scrive: “Dobbiamo scendere in piazza come in Tunisia e in Egitto e non venir più via sino a che Berlusconi non si è dimesso. Dopo il rinvio a giudizio per reati così gravi e infamanti, il Presidente del Consiglio non può restare in carica un minuto di più. Ne va della dignità democratica dell’Italia. Non è una questione di maggioranze o minoranze, di politica economica o istituzionale, è una questione costituzionale.”(1) Non parla in termini di classe, ma in quelli dell’orgoglio ferito della democrazia italiana. Sente questa repubblica borghese come la sua, una repubblica di cui sono concittadini De Benedetti e Fini, Camusso e Casini, Marcegaglia e Saviano, in cui, per finzione giuridica, il miliardario e l’operaio, il finanziere e il disoccupato sono uguali, perché nel segreto dell’urna “decidono le sorti della nazione”.

“Datemi la lista della lavanderia e io ve la metterò in musica”, soleva dire Rossini. Oggi, invece, si trasforma la musica rivoluzionaria che viene dalle masse africane nella lista della lavanderia della restaurazione delle costituzione, verginella violata dal satiro di Arcore.

Noi non crediamo più alle favole. Questa repubblica è l’involucro necessario del più bestiale sfruttamento di classe, è matrigna con i suoi operai – non passa giorno senza incidenti mortali sul posto di lavoro – è spietata con gli immigrati, e non ha esitato ad allearsi con i dittatori dell’Africa per deviarne il flusso, o verso la morte nel deserto o verso i lager di Gheddafi.

Nel 1960, quando la repubblica era ancora giovane, contro il governo Tambroni, alleato dei neofascisti, c’erano forze in grado di opporsi sul piano costituzionale. C’era il PCI, che non preparava rivoluzioni, ma era il difensore della repubblica borghese, pronto a sostenerla, sia contro i fascisti, sia contro i lavoratori in rivolta, come accadde due anni dopo, quando definì teppisti i salariati che in piazza Statuto diedero una lezione alla UIL filopadronale. Oggi, la cosiddetta sinistra è parte integrante della decadenza, fa dichiarazioni d’amore alla Lega, e vede con preoccupazione la liquefazione in corso dei “futuristi” (l’eterogenesi dei Fini?).

Capitale, mercato, speculazione finanziaria, come potentissimi acidi, corrompono in breve tempo qualsiasi baluardo giuridico costituzionale. Non solo noi comunisti, ma anche giornalisti borghesi, parlano di “mercato delle vacche” a proposito della compravendita di parlamentari. Nell’era del dio capitale finanziario, tutto è regolato a sua immagine e somiglianza, e il parlamento è diventato una borsa dove i parlamentari sono quotati. Ci fu persino chi – per burla, ma non troppo – ha suggerito: “perché non facciamo una colletta e compriamo un bel po’ di deputati e senatori?”.

I sintomi della decadenza sono avvertiti dovunque, e sono scritti a chiare lettere persino nelle “rivelazioni” di Wikileaks, a proposito dei giudizi di diplomatici o governanti americani sui politici italiani. In tutti i carnevali del mondo sono ricordate certe recenti vicende del premier. D’altra parte, se Caligola fece senatore un cavallo, l’Italia odierna ha fatto cavaliere (e molto di più) un porcello. Ma tutto questo è solo un sintomo, uno spettacolo di teatrino con cui i media distraggono le masse da problemi ben più importanti.

In “Questi fantasmi”, il principe, impersonato magistralmente da Eduardo De Filippo, volle a tutti i costi aggiustare l’impianto di riscaldamento antiquato, e saltò in aria con esso. Questo regime non si può aggiustare, occorre buttarlo nella discarica della storia. Non si tratta solo di Berlusconi, ma anche delle opposizioni. Bersani non si dà alle orge, al massimo si concede qualche ballo liscio, la Bindi è la morigeratezza in persona, ma sulle questioni politiche fondamentali non rappresentano un’alternativa a Berlusconi. A parte qualche distinguo, accettano integralmente le soluzioni di Marchionne e sono contro il ritiro delle truppe dall’Afghanistan in una guerra imperialista, che oltretutto rappresenta per l’Italia un salasso di oltre 2 milioni di euro al giorno. “I nostri politici – ha detto Gino Strada – non sanno niente dei talebani, non sanno di cosa parlano. Non saprebbero nemmeno indicare l’Afghanistan su una cartina muta. Purtroppo, questa è la gente che prende decisioni che costano la vita a tanti afgani. E che costa una quantità di soldi impressionanti agli italiani. Siamo un paese dove si perdono centinaia di migliaia di posti di lavoro e si buttano via centinaia di milioni in una guerra per sostenere questo piuttosto che quel governo afghano. Mi piacerebbe avere un parlamento decente. Sull’Afghanistan continuano a dire agli italiani bugie clamorose, palle gigantesche. L’unica cosa da fare è smettere di sostenere questa classe politica.”(2) Strada ha capito molte cose, ma parla ancora di “parlamento decente”, richiesta che non ha più riscontri in una società dove la truffa, le intimidazioni mafiose, i privilegi sfacciati, l’evasione fiscali, la prostituzione di lusso, l’aggiotaggio sono diventati modelli di vita. C’è un’opposizione di princisbecco. Come questa lega di rame, stagno e zinco, che ha un aspetto simile all’oro, anche il Pd, lega a freddo di frattaglie dei DS, democristiani e altri gruppi, brillava e si presentava come un partito egemone, promettendo governi progressisti, o almeno un’opposizione energica. In realtà ha condotto una politica del tutto simile a quella di Berlusconi, e, mancando la differenziazione politica, calca la mano soprattutto sugli aspetti scandalistici, sui quali il cavaliere offre spunti a non finire.

Nell’estrema sinistra c’è chi invita a fare come in Tunisia ed Egitto, e crede di poter travolgere il regime in breve tempo con manifestazioni di piazza. Non è corretto fare facili analogie. Tunisia ed Egitto (la Libia è un caso a sé) sono paesi dipendenti, mentre l’Italia, pur con tutti i condizionamenti atlantici e americani, è un paese imperialista, e quindi le modalità di lotta sono piuttosto diverse. Inoltre, è presto per dire quali risvolti avranno queste rivoluzioni, sono appena all’inizio, perché, se è vero che i dittatori, campioni dei brogli elettorali, sono stati cacciati, il potere è passato ai militari e non certo ai lavoratori. Manca, poi, un vero partito di classe, senza il quale le masse insorte vengono ingannate e sviate.

Come tutti i paesi imperialisti, l’Italia scarica almeno in parte il peso della crisi su paesi meno sviluppati. Attraverso la mediazione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, l’imperialismo condanna alla fame i paesi in via di sviluppo, e anche la parte meno forte di quelli già sviluppati. Ci può essere un effetto riflesso, la ribellione in Libia ha già influenza sull’Italia, che vi si rifornisce di petrolio e gas, e un’eventuale caduta dei regimi in Marocco e Algeria avrebbe conseguenze gravissime sulla Francia.

Quale incidenza possano avere sull’Italia i moti africani, è presto per dire. Il fatto grave è che manca il soggetto politico, un partito con una forte influenza sulla classe almeno a livello nazionale, che compia un’azione propagandistica diffusa nei confronti dell’esercito, condizione essenziale perché le lotte non finiscano con la repressione. Se si pensa con quale facilità, tra l’indifferenza generale, l’esercito di leva è stato sostituito da quello professionale, poco sensibile alla propaganda di classe, si capirà quali ulteriori ostacoli alla rivoluzione si sono aggiunti negli ultimi anni. In queste condizioni, senza un’analisi approfondita della situazione italiana, un appello a “fare come in Tunisia e in Egitto” diventa un puro slogan. I bolscevichi poterono portare fino in fondo la lotta per il potere perché avevano dalla propria parte almeno metà dell’esercito.

Non è marxista chi non tiene conto dei rapporti di forza, ma non lo è neppure chi rinuncia a lottare per cambiarli. Siamo entrati in un’epoca di guerre e rivoluzioni, ma, mentre alla fine della I guerra mondiale l’Italia faceva esperienze rivoluzionarie d’avanguardia – e proprio contro queste la borghesia scatenò il fascismo, controrivoluzione preventiva – oggi siamo in grave ritardo, e non è possibile superarlo con la retorica rivoluzionaria. E’ essenziale, invece, porci obiettivi precisi.

Fare come in Tunisia e in Egitto? Con quale progetto politico? Abbiamo visto che la restaurazione delle costituzione è impossibile o reazionaria. Altre proposte, come quelle riguardanti la decrescita, felice o no, pretendono di lasciare in piedi il meccanismo del profitto, e perciò inducono in errore le masse, cercando di persuaderle che si può giungere a una società armoniosa ed equilibrata senza bisogno di sbaragliare la borghesia.

Quando i lavoratori lottano su rivendicazioni borghesi o piccolo borghesi, e a rimorchio di queste classi sociali, la loro sconfitta è inevitabile. Sarebbe tragico se con gravi sacrifici impiegassero le loro forze per passare dalla padella nella brace, cioè da Berlusconi al PD. Tanto più che, se lavoratori cercassero di liberarsi di Berlusconi con metodi di classe, i primi a fare da pompieri sarebbero i sedicenti oppositori, da Di Pietro e Vendola a Fini e Casini.

Perché i lavoratori possano ottenere risultati, ci vuole un progetto, occorre sviluppare un sistema di rivendicazioni tendenti a ridurre la forza della borghesia, ad organizzare il proletariato, e far capire che è in pericolo la sopravvivenza stessa dei lavoratori e delle masse sfruttate se il capitalismo perdura.

Le lotte non devono solo essere aderenti ai bisogni delle masse, ma essere suscettibili di dare origine a una struttura organizzativa. Le rivendicazioni più modeste, in un periodo di crisi, diventano incompatibili con la sopravvivenza del capitalismo. Non si dice niente di nuovo, si tratta di riscoprire concetti, esperienze, forme di lotta conosciute a perfezione dai nostri predecessori, da Marx a Lenin al Partito di Livorno, che l’azione congiunta di imbonimento capitalistico e opportunismo sono riusciti quasi a cancellare dalla memoria storica, o almeno a manipolare e fuorviare, dopo il massacro, con le guerre mondiali o con le stragi politiche, di intere generazioni di rivoluzionari. I comunisti del tempo di Lenin sapevano che, nell’era imperialistica, era ormai vano formulare piani di riforme di struttura, di nazionalizzazioni all’interno del sistema capitalistico, di restaurazioni costituzionali, ma occorreva porre l’accento sui bisogni immediati dei lavoratori e su queste basi formulare una serie di rivendicazioni, da portare avanti scontrandosi con le direzioni opportuniste dei sindacati, costituendo organismi, come consigli di fabbrica e persino soviet. Rispetto a quel tempo le differenze storiche sono abissali, e oggi i vecchi sindacati opportunisti si sono trasformati in sindacati di regime. Senza alcuna pretesa di esaurire il problema, elenchiamo alcune delle principali esigenze dei lavoratori, dei disoccupati, dei pensionati per trarne indicazioni per la lotta. E si ricordi che è un banale errore pensare che le rivendicazioni immediate siano incompatibili con la propaganda del comunismo e con la lotta per la formazione del partito di classe. Ne sono, anzi, il terreno più propizio.

Innanzitutto un problema urgentissimo è la lotta contro gli interventi militari. L’Afghanistan è lontano, e molti giornali ne parlano solo quando arrivano salme di soldati italiani. Ma gli eventi libici ci stanno portando la guerra in casa. Non è sfuggita ai buoni osservatori la sfacciata insistenza dei media sulla fosse comuni, anche quando dalle immagini risulta che si tratta di ben allineate tombe individuali in un cimitero. Si grida al genocidio in Libia, mentre si nasconde che le vittime dei pogrom di Mubarak sono state assai più di quelle dichiarate. Ci vengono in mente le campagne propagandistiche contro Ceausescu, con i filmati su centinaia di cadaveri, in realtà sottratti ai camposanti, o i falsi genocidi con cui si giustificò l’intervento “umanitario” contro la Serbia. Persino i radicali hanno denunciato la campagna di disinformazione condotta da Sayed al Shanuka e El- Hadi Shallouf, spacciatisi come responsabili di organi della Corte Penale Internazionale, i quali parlavano di 10.000 morti e 50.000 feriti. (Manifesto, 25/2/2011).

Tre navi da guerra tedesche con 600 soldati, dice lo Spiegel, sono già nelle acque tra Malta e la Libia, tre navi militari italiane, la San Marco, la San Giorgio e il cacciatorpediniere Mimbelli, sono in viaggio verso la Libia. Scopo ufficiale è provvedere all’evacuazione dei nostri connazionali. Quanto ai lavoratori di altri paesi africani e asiatici, presenti in grandissimo numero in Libia, nessuno si occupa di loro.

Centinaia di ufficiali e sottufficiali francesi e inglesi sono già sbarcati in Cirenaica: “ Fra le prime attività poste in essere vi è stata quella di sostituirsi nei ruoli chiave della gestione dell’apparato militare e bellico dell’esercito libico. Alcuni componenti sono stati impegnati nel mantenere il più elevato controllo possibile delle basi e soprattutto degli armamenti abbandonati. A seguito delle controffensive attuate dall’esercito libico in alcune aree e città della Cirenaica, gli uomini dell’ intelligence occidentali si stanno impegnando proprio in queste ore, per organizzare e gestire militarmente le unità dell’esercito libico passate dalla parte dei manifestanti.”(3)

Obama sta pensando ad un intervento su vasta scala, in cui l’Italia fungerebbe da testa di turco. Non si tratta solo del controllo del petrolio, perché l’installazione di due basi militari USA in Tripolitania e in Cirenaica darebbe agli USA un controllo incontrastato del Mediterraneo. Il premio Nobel per la pace Obama otterrebbe un risultato che l’aperto militarista Bush neppure poteva sognarsi. Non solo: ogni azione tendente ad unificare le lotte dei lavoratori arabi sarebbe condizionata, se non interrotta, da questa ingombrante presenza militare.

Berlusconi ha già scaricato Gheddafi, e non farà resistenza ad Obama, se questi chiederà un intervento militare, ma i più zelanti fautori dell’intervento “umanitario” si trovano nelle opposizioni.

Senza un fortissimo impegno contro il militarismo americano ed europeo, tutte le aspirazioni dei lavoratori d’Europa e del mondo arabo sarebbero vanificate. Compito specifico dei comunisti d’Italia è denunciare l’imperialismo di casa nostra. Bisogna collegare la lotta contro la guerra ai problemi più immediati dei lavoratori. Le spese militari sono un pozzo senza fondo, e continuano a crescere incessantemente. La denuncia contro il militarismo si lega alla richiesta che tali somme siano invece utilizzate per dare una seria indennità al numero crescente dei disoccupati. Nella consapevolezza che la crisi non è superata se non per gli sfruttatori, che la disoccupazione colpirà in forme sempre più gravi e croniche, che il salvataggio delle aziende uscite fuori mercato dà risultati provvisori, e quasi sempre si riduce ad una truffa ai danni dei lavoratori, occorre rivendicare un vero salario ai disoccupati, anche per togliere ai padroni l’arma del ricatto (lavoro nero, sottopagato, condizioni insalubri, ecc). Gli opportunisti di ieri e di oggi tendono a confondere intenzionalmente i disoccupati con il sottoproletariato. Occorre, invece, accoglierli nelle organizzazione dei lavoratori, perché la loro presenza è il rimedio migliore rispetto alle spinte corporative miopi e collaborazioniste. Lo stesso vale per gli immigrati, anzi, l’atteggiamento verso questi ultimi migranti è la vera pietra di paragone dell’atteggiamento internazionalista.

Altro punto essenziale: la casa. Molte famiglia in Italia sono proprietarie dell’abitazione in cui risiedono, ma molte fasce (coppie giovani, immigrati, nullatenenti, nomadi...) hanno gravissime difficoltà.

Uno dei fattori che hanno provocato la protesta africana sono i vergognosi favoritismi nella assegnazione delle casi popolari. In Algeria, a Bordj Menaiel (70 Km ad est di Algeri) un padre di 6 figli si è dato fuoco dopo che gli era stata rifiutata ancora una volta una casa popolare.(4)

In Italia c’è un grande numero di case sfitte, che vengono negate perché spesso, a causa delle tasse, l’affitto non è rimunerativo. C’è una quantità enorme di edifici di proprietà ecclesiastica, o di enti pubblici o di società private, per non parlare delle ville di Berlusconi e di tanti esponenti del regime, di destra o di “sinistra”. Dobbiamo rivendicare che siano assegnati a lavoratori, disoccupati o pensionati, italiani o immigrati, con affitti a prezzo politico, e in certi casi gratuitamente.

Le tariffe sono un altro peso insopportabile. Con la svendita del patrimonio statale molti imprenditori hanno lasciato il settore produttivo, preferendo un introito sicuro dato da autostrade, compagnie telefoniche, gas, luce e, dove possono, acqua. E’ un segno infallibile del crescente carattere parassitario dell’imprenditoria italiana. Bisogna costringere con la lotta lo stato a porre un limite a questi cartelli di rapina, con una cospicua riduzione delle tariffe, senza cadere nella ultraliberale retorica della “lotta ai monopoli”, o nel sogno una libera concorrenza che, se mai è esistita allo stato puro, era possibile solo in una società preimperialistica.

Per attenuare la concorrenza tra i lavoratori, la rivendicazione, già indicata da Marx come la più unificatrice, della riduzione per legge dell’orario di lavoro. E’ pressoché impossibile, soprattutto in tempo di crisi, ottenere una riduzione sul piano puramente sindacale. Proprio Marx pose in rilievo che, con lo sviluppo del mercato mondiale, i rapporti puramente economici avrebbero favorito sempre più la borghesia. Per questo, propose di passare sul piano politico, attraverso una pressione, con la lotta e non con le false speranze in manovre parlamentari – il parlamento è una controparte come i padroni - per ottenere una legge che riducesse l’orario di lavoro. E’ tempo di riprendere questo tipo di rivendicazioni, prima che la diffusione del modello Marchionne indebolisca ancor di più la forza dei lavoratori. L’arma da usare è lo sciopero politico.

Per fare questo, bisogna rompere con ogni criterio di compatibilità con le esigenze del capitale. Non si tratta di riformette, ma della sopravvivenza dei lavoratori, che non sopportano le condizioni di perenne disoccupazione imposte a buona parte della società, a cominciare dai giovani. Il capitale sa sfruttare al massimo chi ha un lavoro, ma spreca una quantità immane di risorse umane, condannando all’inattività e alla miseria milioni di persone, spesso preparatissime sul piano professionale.

E’ necessario capire che c’è un legame preciso tra la difesa degli interessi anche immediati dei lavoratori e l’insieme dei problemi politici e anche militari. Quando, attraverso la compressione dei salari e del welfare, si crea un’eccedenza a favore della borghesia e del suo stato, questa non è impiegata nella creazione di nuovi posti di lavoro, ma in avventure militari, in consumi antisociali (dalla cocaina alle ville di lusso), in speculazione finanziaria, in corruzione. Difendere il livello di vita dei lavoratori, significa perciò sottrarre fondi alle manovre di borsa, agli armamenti, alla corruzione. E’ la vecchia alternativa “burro o cannoni”, che ha assunto forme nuove.

Il capitale non si limita a imporre sacrifici, ma li accompagna con miti, destinati a confondere le idee dei lavoratori, servendosi di pennivendoli, di politici funzionali al sistema, di tutte le astuzie delle psicologia di massa. Ci hanno raccontato infinite favole, per farci credere in pretese svolte del capitalismo, in una sua progressiva umanizzazione: prima il mito del neocapitalismo, secondo il quale le crisi economiche vere e proprie erano evitabili con l’intervento dello stato, che poteva trasformare i devastanti crolli economici in innocue recessioni. Poi che il liberismo fosse una svolta senza ritorno, e che lo stato fosse cacciato dall’orizzonte economico, e ciò è stato smentito recentemente dal più massiccio intervento statale di tutti i tempi, per salvare banche e industrie. Si disse che le rivoluzioni erano divenute impossibili, e ci si è trovati di fronte a un movimento che non si fermerà certamente ai popoli arabi, che, alla faccia dei leghisti xenofobi, ci stanno dando ogni giorno lezioni di coraggio. Oggi, s’inganna la popolazione con miti liberali, ma, con la diffusione crescente dell’impoverimento sociale, non si avrà difficoltà a rispolverare miti pseudo-socialisti o fascisti, pur di stornare i proletari dal perseguimento dei loro bisogni concreti. Lo stato borghese è un avversario, e agisce a favore della borghesia, però le lotte possono strappargli concessioni, purché non si caschi nella trappola della concertazione, cioè in quella che in tempi meno confusi si chiamava collaborazione di classe. Quest’ultima, quando non è una pura e semplice svendita compiuta da vertici venduti ai padroni, è sempre in perdita, perché la borghesia, scaltrita da secoli di dominio politico, immobilizzato il proletariato con accordi, continua, in forma aperta o mascherata la lotta, stracciando tutti i contratti non appena la situazione le è favorevole.

Sono chiare le difficoltà: manca il partito di classe - non lo possono certo sostituire le piccole organizzazioni politiche esistenti - e i grandi sindacati sono in mano ai concertatori. Tuttavia le lotte, a condizioni che non siano indirizzate a falsi scopi come la restaurazione della costituzione o la sostituzione di Berlusconi con Bersani, sono un fattore favorevole alla rinascita di autentiche organizzazioni dei lavoratori. E non bisogna dimenticare che la lotta di classe è fondamentalmente unitaria in tutti i suoi aspetti, anche se spesso per esigenze tecniche e organizzative è necessario affidare a organismi diversi e a compagni differenti la lotta sindacale e quella teorica, la propaganda e l’agitazione. Nessuno deve sentirsi non coinvolto. Terenzio diceva “nulla di umano mi è estraneo”, niente di ciò che riguarda la lotta di classe ci deve essere estraneo.


27 febbraio 2011

Note
1) Cremaschi “In piazza finché Berlusconi non se ne va”, Repubblica, 18/ febbraio 2011.
2) Gino Strada : “L’Afghanistan ci costa 51 milioni al mese”.
3) : http://corrieredellacollera.com in “Come Donchisciotte”, Feb 26, 2011. “Libia: un intervento militare è già in corso”, ComeDonChisciotte Feb 25, 2011.
4) « Algérie : Pour que la révolte porte enfin ses fruit », e « Dossier. L’Europe de la crise ».In “Convergences Révolutionnaires” n, 73, gennaio - febbraio 2011.

Michele Basso

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