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Elezioni d'Egitto

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(14 Giugno 2012) Enzo Apicella

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TUTTO È POSSIBILE
QUALI CONSEGUENZE, DALLE RIVOLTE NEL NORDAFRICA? GUERRA O RIVOLUZIONE?

(2 Marzo 2011)

L’articolo di Tommaso Di Francesco (Verso un’altra guerra «umanitaria», «Il Manifesto», 25 febbraio 2011, vedi sotto) pone il problema di una possibile «guerra umanitaria» (espressione che in questi anni è stata usata per esaltare le aggressioni alla ex Iugoslavia, all’Iraq, all’Afghanistan ecc.) a «favore» della Libia. L’ipotesi è plausibile; gli interessi in campo sono assai pesanti, a partire dal
petrolio; le cannoniere già si stanno muovendo.
Prendendo spunto da questo scenario, Stefano Macera avanza alcune osservazioni sulla fu «sinistra», che brancola tra spinte «socialimperialiste» (come un tempo si diceva) e spinte islamiste (dalla padella nella brace); contro questo guazzabuglio pone l’esigenza inderogabile di mettere in primo piano la lotta contro la nostra borghesia.
Lasciamo perdere le troppe balle in circolazione (per ignoranza o malafede) e veniamo al dunque. Da parte mia, ritengo che nulla sia scontato, che tutto sia possibile. E che i giochi siano aperti.
Dopo 5 giorni di tremendi scontri alla testa della rivolta, gli operai del distretto di Tagiura hanno costretto le milizie governative compresi i mercenari a ritirarsi verso Tripoli.

LA VARIABILE RIMOSSA: LA CRISI SISTEMICA DEL CAPITALISMO
Nell’ipotesi delineata da Tommaso Di Francesco (e condivisa da molti altri «politologi») manca un importante variabile: la crisi sistemica del modo di produzione capitalistico.
Nel giro di un paio d’anni, la situazione mondiale è profondamente mutata, i mutamenti sono in corso, e con esiti del tutto imprevedibili.
La crisi, è crisi del processo di accumulazione; la crisi nasce nel cuore del sistema, che è l’industria; il capitalismo ha cercato e cerca di rivitalizzarsi, con un rimedio peggiore del male, la speculazione finanziaria, che è la conseguenza, e non la causa della crisi.
Ed è la speculazione sui prodotti alimentari (commodity future) che ha provocato gli aumenti senza precedenti dei beni di prima necessità (sull’argomento ho diffuso numerosi contributi, miei e di altri), che sono alla base delle rivolte nordafricane, nate come «rivolte della baguette» (e solo dopo, del «gelsomino», con una trasparente intento politico di segno democratico).
Di fronte allo tsunami della crisi, di questa crisi, tutti gli Stati stanno vivendo uno sconvolgimento profondo, che li rende incapaci di prendere decisioni comuni, per affrontare problemi comuni.
L’esempio lampante è la Ue, un’unione creata solo sulla carta (moneta). La Ue è stata del tutto impotente ad affrontare i primi fallimenti dei suoi soci (Grecia, Romania, Irlanda), ai quali ne potrebbero seguire altri (Portogallo, Spagna, Italia e/o Inghilterra).
Ma altrettanto potrebbe avvenire negli Stati Uniti, dove molti Stati (i cosiddetti CANI: California, Alabama, New York e Illinois, più altri 18, tra cui il Wisconsin), si dibattono in gravi difficoltà economiche, a rischio default; senza alcun aiuto da parte di Washinghton. All’inesorabile declino economico degli Stati Uniti, fa da contraltare un pletorico apparato militare. Che però perde i pezzi per strada, e sempre più deve ricorrere ai contractors (ovvero ai mercenari).

GUERRE E RIBELLIONI
Sono queste le «potenze» imperialiste, che dovrebbero stabilire il nuovo ordine mondiale, costruendo nuovi Stati. Ma cosa possono mettere in campo, se alle spalle hanno solo pesanti fallimenti?
Sotto i nostri occhi abbiamo: le inanguinate sabbie mobili dell’Iraq, l’instabilità
permanente della Palestina (con le appendici Israelo-libanesi), l’inferno afghano, con la metastasi pakistana.
In queste condizioni, la guerra è una scelta «estremista», con esiti imprevedibili. Oggi, la guerra non può costruire un nuovo ordine, può costruire solo il caos, dove tutto è possibile: o l’orrore senza fine o la rivoluzione.
Già oggi, molti Paesi dell’Africa si avvicinano a situazioni «incontrollate» di tipo somalo (frutto di una delle prime «guerre umanitarie»); anche perché questi Paesi sono le prime vittime della carestia.
E la fame sta mordendo anche gli astri nascenti di una presunta rinascita capitalistica: l’India e la Cina; aggravando i problemi preesistenti, connessi all’accelerata industrializzazione: dai contrasti interetnici ai disastri ecologici, per finire con le dilaganti tensioni sociali, nelle fabbriche e nelle città.
La nostra bell’Italia, per ora, è solo lambita dallo tsunami della crisi. Per ora, ha solo patito le prime ventate: maggiore disoccupazione, maggiore sfruttamento e minore salario. E si tira a campare.
Ma la situazione potrebbe precipitare. E allora le tensioni sociali, oggi a macchia di leopardo, potrebbero prendere consistenza e diffusione. Con questa minaccia, c’è poco da organizzar spedizioni «coloniali». Il controllo militare che, da due anni, vige in molte città d’Italia, non basterà ad assicurare la pace sociale.
E soprattutto, non basterà di fronte al crescente flusso di profughi africani (e di altri continenti), che potrebbe invadere la penisola.
Lasciando perdere le sparate leghiste sull’esodo biblico, il problema è reale. Ed è bene porlo sul tappeto. Anche perché, questo problema tocca nel vivo la lotta contro la nostra borghesia, indicata da Stefano Macera.
Banco di prova, per una coerente lotta contro il capitalismo e contro le guerre della nostra borghesia, è la solidarietà di lotta con gli immigrati, figli di una stessa classe.
Fin’ora, la solidarietà dei lavoratori italiani verso gli immigrati è stata assai tiepida. Non è andata oltre a qualche momento di unità di lotta nelle fabbriche e a qualche iniziativa contro i Centri di Identificazione ed Espulsione; soprattutto è mancata una campagna per il permesso di soggiorno per tutti.
Tranne poche eccezioni, la parola è stata data a partiti, sindacati e associazioni varie, tutti collusi con le istituzioni dello Stato, che per conto dei padroni gestisce lo sfruttamento e la repressione dei proletari (italiani e immigrati); in poche parole, partiti, sindacati e associazioni varie affidano alla volpe la difesa del pollaio.
Oggi, non è più possibile essere tiepidi (e imbecilli). Altrimenti ci scaviamo la fossa.

DINO ERBA, Milano 1° marzo 2011.



VERSO UN’ALTRA GUERRA “UMANITARIA”
TOMMASO DI FRANCESCO, «Il Manifesto», 25 febbraio 2011
(http://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o25260)


LA NOTA di STEFANO MACERA (Roma).
L’articolo di Di Francesco è ben impostato, come spesso capita a questo giornalista ... sulla possibilità di una mobilitazione contro la eventuale guerra umanitaria io sarei più che pessimista. Da un lato c'è chi non si pone in termini analitici rispetto ai problemi, agli accadimenti geopolitici e normalmente è mosso da una retorica «umanitario-democraticistica», dall'altro - tra chi si oppone al verbo spacciato dai media - c'è chi le spara grosse... Ossia, ho sentito compagni che fino a ieri esaltavano le masse islamiche in quanto tali abbracciare di colpo una prospettiva islamofobica... così come, tra chi legge diversamente le vicende libiche, vi è anche chi è preoccupato (e magari lo dice esplicitamente) per le sorti del greggio italiano e approda alla difesa dell'ENI. Ora, la mia contrarietà alla missione militare prossima ventura è totale, perché è evidente l'obiettivo di creare una base per la ricolonizzazione integrale dell'area, proprio quando questa è stata attraversata da spinte di libertà che in fondo riprendono e approfondiscono l’anelito anticolonialista tradito dalle élites da decenni al potere.
Tuttavia, del destino dell'Eni e della sua presenza in Nord Africa o altrove non me ne importa un bel niente.
Non dovrebbe essere proprio questo il nostro problema, bensì quello della autodeterminazione delle popolazioni del Medio Oriente, del Maghreb e dell'Africa subsahariana, in un quadro di opposizione a tutti gli imperialismi (incluso quello di casa propria, pure se perde colpi). Senza questa ultima condizione, si possono fare belle disquisizioni geopolitiche da salotto, tipo quelle che fa da anni Claudio Moffa (teorico del "socialismo nazionale" o "nazionalsocialismo" che dir si voglia), ma non si possono porre le basi per una eventuale alleanza tra le masse sfruttate del mondo arabo o africane e le lotte che cominciano a riaffiorare qui da noi.
In sostanza, uno degli scenari che rischia di configurarsi in caso di aggressione umanitaria (anche nella forma "light" di presenza militare per gestire il post-Gheddafi) è quello di una polarizzazione tra gente che col suo verbo democraticistico-umanitario si pone - consapevolmente o meno - "sotto l'ombrello della Nato" (come nel ’99, quando parecchi dei centri sociali romani andarono a guerra finita a gestire campi umanitari nel Kosovo controllato dai vincitori) e "antimperialisti" che tendono scivolare nello sciovinismo... Non è un esito scontato, ma non è nemmeno un'ipotesi improbabile.

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