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Arabia inaudita

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(19 Giugno 2011) Enzo Apicella
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Il mondo arabo in fiamme

Una nota del collettivo redazionale del pane e le rose

(6 Marzo 2011)

Sono passati due mesi dall'inizio della rivolta nel Maghreb. All'inizio di gennaio le prime manifestazioni in Algeria e Tunisia contro gli aumenti dei prezzi. Poi nel giro di due mesi Ben Alì è stato cacciato dalla Tunisia, Mubarak dall'Egitto e la rivolta si è estesa allo Yemen, alla Giordania, al Bahrein ... alla Libia.

Il pane e le rose ha cercato di raccontare al meglio questo crescendo anche se con il passare delle settimane si sono fatti sempre più evidenti i limiti di questa narrazione: in primo luogo il numero ridotto di informazioni dirette e/o di comunicati dei soggetti della rivolta, in secondo luogo una generale carenza di approfondimento analitico sulla struttura economica-sociale dei paesi in rivolta.

Quindi il racconto è diventato sempre di più il racconto delle reazioni del resto del mondo a fronte della rivolta, e in particolare delle speranze, delle illusioni e dei timori che questa ha suscitato nei soggetti della sinistra anticapitalista italiana.

Un limite che crediamo non sia solo del pane e le rose, essendo invece conseguenza dell'impostazione generale dell'informazione in questa fase storica. Oggi, il dominio borghese si traduce anche in un monopolio dell’informazione che, al di là della in apparenza enorme quantità di fonti, non offre vere e proprie analisi dei fatti, al contrario dando un incredibile risalto all’opinionismo.

Una impostazione che si riproduce nell'informazione comunista e anticapitalista che spesso insegue quella borghese e padronale sul suo terreno, tentando di contrapporre opinioni ad opinioni.

Questa situazione è diventata più evidente nel momento in cui la rivolta si è estesa alla Libia. E la discussione si è polarizzata tra due punti di vista che potremmo, usando classificazioni tradizionali, definire come "internazionalista" e "antimperialista".

Ma se la questione libica ha reso lampanti tutti i problemi, questi erano presenti fin dal primo momento. Infatti, da una parte abbiamo assistito ai consueti, innumerevoli tentativi di "cavalcavare la tigre", senza approfondire troppo le ragioni e motivazioni delle rivolte popolari in corso. Dall'altra si sono manifestate spinte di segno opposto, legate a quelle letture "dietrologiche" che hanno portato a parlare ora di infiltrazioni dell'islam radicale, ora di una variante araba delle "rivoluzioni colorate".

Lo scopo di questa breve nota redazionale è quindi quello di tracciare alcune linee di aprofondimento come contributo alla discussione dei comunisti, senza la pretesa di dare risposte conclusive, muovendo invece dalla necessità di evidenziare le domande a cui sarebbe centrale rispondere ed i terreni di ricerca da sviluppare.

Il primo punto che ci pare doveroso sottolineare è il nesso tra queste rivolte e la crisi economica.

Algeria, Tunisia ed Egitto sono i paesi più industrializzati del continente (fatta eccezione per il Sud Africa), sono del tutto inseriti nel ciclo economico capitalistico e nonostante la crisi la loro economia è continuata a crescere con tassi di aumento del Pil che nel 2009 sono stati del 2,4% in Algeria, del 4,5 in Tunisia, del 4,7% in Egitto.
In Libia la crescita è stato negativa nel 2009 ma positiva del 10,6% nel 2010. 1)

Ma comunque si tratta di economie dipendenti, ad esempio la Tunisia produce principalmente per l'esportazione e la Libia vive sull'esportazione del petrolio. Per cui le popolazioni di questi paesi sono state costrette a pagare una parte del conto complessivo della crisi economica mondiale.

I prezzi al consumo negli ultimi anni sono aumentati oltre il 5% annuo in Algeria, del 4,9% in Tunisia, del 16% in Egitto, dell 10,4% in Libia.

Il tasso di disoccupazione è di quasi il 10% in Algeria e in Egitto, del 14% in Tunisia, del 30% in Libia e questo senza contare la percentuale di popolazione costretta ad emigrare in cerca di lavoro.

Sviluppo economico ipotecato dalla divisione internazionale del lavoro, disoccupazione, inflazione... le ragioni della rivolta sociale ci sono tutte.

Ma non è stata solo una rivolta proletaria. E questo è il secondo punto che vogliamo sottolineare.

La crisi ha messo a nudo le contraddizioni tra una struttura economica e sociale che si è evoluta e una sovrastruttura politica rimasta immutata per decenni.
La Tunisia, per esempio, che negli anni 60 era quasi esclusivamente agricola, oggi ha una percentuale di occupati in agricoltura ridotta al 18% (pari a quella dell'Italia negli anni 70).

Sono state costruite fabbriche, è avanzata l'industrializzazione. E con le fabbriche sono cresciute le classi moderne, il proletariato così come la borghesia industriale. Se certamente quello che è sceso in piazza contro l'aumento dei prezzi e la disoccupazione è stato il primo, sarebbe necessario chiedersi il peso che ha avuto la seconda nella cacciata dei vecchi regimi.

La Libia è una questione diversa senza dubbio, perchè la rivolta invece che essere gestita dalla borghesia, è stata interpretata dalla struttura sociale tribale. E in questo passaggio legato al particolarismo invece che all'interesse generale del capitale (per quanto locale) molto probabilmente sta la radice della tragedia che sta investendo l’ex colonia italiana.

Il terzo punto riguarda il conflitto interimperialista che si inasprisce nella crisi.

L'Africa è sempre più territorio di contesa tra i diversi poli imperialisti per la rapina delle sue materie prime e lo sfruttamento della sua forza lavoro.

In questo contesto, ha forse poco senso indugiare sul ruolo passato della Libia di Gheddafi. Si può anche discutere di quanto l’esperienza della Jamahiria sia stata, in un’altra fase storica, progressista, ma oggi le questioni sono altre. La sostanza degli accordi con le potenze europee rivela che il problema non è certo la rimozione di una spina nel fianco dell’imperialismo. Si pensi in particolare ai Trattati di Amicizia con l’Italia che, oltre ad includere le ben note funzioni di controllo dei flussi migratori, hanno favorito la creazione di una zona speciale (collocata nell’area di Misurata) riservata alle imprese italiane per lo sfruttamento della manodopera immigrata e respinta dall’UE 2).

Questo atteggiamento nei confronti degli interessi stranieri, conferma che l’attuale spinta di europei ed americani ad intervenire militarmente in Libia non è rivolta contro tendenze antimperialiste. Semmai, nella situazione fluida che si è creata dopo la caduta di regimi amici, risulta necessario mantenere e rinvigorire il controllo della situazione in tutto il Nord Africa. Una presenza militare occidentale in Libia, può essere funzionale all’obiettivo di ipotecare gli sviluppi politici di paesi limitrofi come Tunisia ed Egitto. Inoltre, in molti auspicano un interlocutore diverso e, soprattutto, più debole rispetto a Gheddafi. Si intende forse arrivare ad un governo libico che svolga alcune delle funzioni attuali (incluse quelle di polizia contro gli immigrati), però con una minore capacità di contrattazione nei confronti dei paesi occidentali. Un governo, cioè, che non avanzi richieste considerate onerose come i 5 miliardi di euro per impedire “l’invasione dei neri”, di cui ha parlato il Colonnello al terzo vertice fra l’Unione Europea e l’Unione Africana 3).

Di più, nell’attuale, aspra partita per il controllo dell’Africa, sono malvisti quei leaders che pretendano di sviluppare a un tempo buone relazioni con i paesi occidentali e con la Cina. Proprio il grande paese asiatico è oggi il quarto acquirente del petrolio libico, in un quadro che vede “il commercio cino-libico in forte crescita (circa il 30% solo nel 2010)” 4). Una nuova spartizione delle risorse energetiche libiche potrebbe penalizzare in prospettiva, più che l’Italia – come paventato da alcuni compagni che rischiano involontariamente di identificarsi con i destini dell’imperialismo nostrano – la Cina, la cui presenza in Africa è in vertiginosa ascesa.

In conclusione, proprio a fronte della possibilità di un nuovo fronte di guerra imperialista nella sponda sud del Mediterraneo è necessaria una lettura più materialista e meno ideologicizzata.

Va cioè detto con chiarezza che la rivolta nel Nord Africa non è nè l'inizio di una nuova rivoluzione proletaria, nè il prodotto della perfidia imperialista. E’ vero, il venir meno di sovrastrutture politiche antiquate può, in alcuni casi, aprire nuovi spazi al conflitto di classe, ma gli effetti di questa situazione “sbloccata” non si dispiegheranno a breve termine. Così come l’evidente spinta delle potenze imperialiste ad intervenire sulle contraddizioni dei processi di cambiamento in atto per volgerli a proprio favore, non può portare a leggere ciò che è accaduto sinora come la conseguenza di un piano preordinato fuori dai paesi in fibrillazione.

Il mondo arabo in fiamme non è che una conseguenza della crisi del modo di produzione capitalistico che si sta evolvendo in conflitto globale, tra poli imperialisti, tra stati, tra classi.

Note

1) http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2010/02/pdf/tables.pdf

2) Fa riferimento a quest’area un articolo del giornale della Confidustria, scritto al principio dei disordini in Libia. http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2011-02-23/simest-rischio-zona-franca-231059.shtml?uuid=Aa0vsyAD#continue

3) http://www.corriere.it/politica/10_novembre_29/gheddafi-libia-vertice_48d7680c-fbb6-11df-bfbe-00144f02aabc.shtml

4) Manlio Dinucci, La Libia nel grande gioco. Al via la nuova spartizione del continente Africa. http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/ricerca-nel-manifesto/vedi/nocache/1/numero/20110225/pagina/05/pezzo/298007/

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