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Una storica sentenza: la vittoria di Pirro

L’Usb vince sull’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori e fa “sperare” la Fiom

(9 Marzo 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.comunistiuniti.it

Una storica sentenza: la vittoria di Pirro

foto: www.comunistiuniti.it

Questa sentenza sancisce in realtà la morte del conflitto, e la premessa per una possibile prossima firma della Fiom, a fronte di una “caramella” come partita di scambio. Ovviamente non è la morte del conflitto in senso assoluto, ma quanto meno prova a gettare solide basi nella temperie della crisi di governo. Un eventuale post-Berlusconi (sempre ammesso che il governo cada), avrà una strada già tracciata in merito all’evoluzione delle Relazioni Industriali. Ed è Civitavecchia, oggi, l'avanguardia di questo pensiero ... In ossequio al fatto che Alitalia ha già svolto la funzione di apripista sul fronte delle Relazioni Industriali. In particolar modo è divertente notare come viene presentato il cuore del problema. Bisogna dire che su questo fatto non ha esclusive colpe l'Usb, che è giusto che goda della sentenza, perché è accompagnato da vari commentatori, complici ed incapaci di andare oltre il proprio ombelico. Semmai l’Usb, in quanto parte in causa, ha le sue attenuanti. Questa sentenza dice esattamente il contrario di quel che sostiene il Tribunale, pur se lo ratifica con le sue rassicuranti frasi ad effetto. E' il vecchio gioco mistificatore del capitale a cui partecipa l'intero establishment: cioè l’importante è presentare persino il carbone della Befana come fosse oro. Se una sentenza, o una qualsiasi cosa, mette oggettivamente le briglie all’avversario di classe (cioè il lavoratore, perché nel complesso oggi sono solo i padroni a fare la lotta di classe) l’importante è che ci sia qualcuno pronto a dichiarare con dovizia di particolari che la “lieta novella” è liberatrice delle energie sociali e vitali. Poi, ovvio che ci si deve pure curare di far vedere che i reazionari/innovatori alla Colaninno-Marchionne si battono contro questa cosa mettendo su un simpatico teatrino. Il nulla è servito. E così via annuendo ... In pratica, alzato il polverone sul nulla il capitale avanza spedito. Dunque, il Tribunale di Civitavecchia asserisce, tra il giubilo degli astanti, che non sono le aziende che possono decidere del riconoscimento dei sindacati, perché per legge questo deriva da due condizioni: la firma del contratto collettivo e la partecipazione attiva al processo di formazione del contratto. Che in pratica significa portare a compimento il progetto corporativo di stampo borghese, nonostante l’apparenza del gioco di parole e le fanfare.

È bene ricordare che da un punto di vista storico l’idea di uno Stato corporativo, per noi italiani, deriva dallo stato liberale pre-fascista (giolittiano in ultima istanza), convertito poi nelle pure corporazioni fasciste. Nel dopo-guerra il modello si è ulteriormente raffinato giungendo al neo-corporativismo (da noi con la variabile p-duista), che a ben vedere è stato introdotto su larga scala, in Europa, dalle socialdemocrazie nordiche sin dagli anni '70. Proprio quelle socialdemocrazie che piacciono tanto ai riformisti keynesiani di ogni risma, non a caso, perché probabilmente hanno visto nel neocorporativismo il proseguimento ed il superamento dei limiti del Keynesismo in senso stretto. Si manifestava infatti una brusca battuta d’arresto dell’espansione della “domanda” ed una prima delegittimazione del Welfare State, per via del prodursi della crisi di sovrapproduzione e del saggio di profitto su scala mondiale (che ci trasciniamo da allora), e che portò poi alla ribalta il neoliberismo proprio a partire dagli anni ’80. A voler essere ancor più completi nei riferimenti storici, i prodromi del corporativismo potremmo dire che nascono addirittura nella Prussia con Bismark (con l’unificazione dell’Impero tedesco), quel noto personaggio politico dell’800 sulla cui lapide, ironia della sorte, c'è un epitaffio che lo ricorda come "leale servo (tedesco) del Kaiser" … “E ho detto tutto”, come diceva Peppino a Totò. Proprio del Kaiser!

Entrando ora nel merito della sentenza, possiamo dire che i due nodi centrali a cui si è accennato in apertura sono:

1. Il Tribunale dice espressamente che un'organizzazione sindacale non può esercitare il diritto di assemblea "se non firmataria di contrattocollettivoaziendale, e, quindi, priva di r.s.a. costituite in azienda". E precisa, con riferimento alla giurisprudenza costituzionale, che la "rappresentatività
del sindacato non deriva dal riconoscimento del datore di lavoro, espresso in forma pattizia, ma è una qualità giuridica attribuita dalla legge alle associazioni sindacali che abbiano stipulato contratti collettivi (nazionali, locali o aziendali) applicati nell'unità produttiva
". Ora il punto è che la frase: "la rappresentatività del sindacato non derivadalriconoscimento del datore di lavoro", smentisce se stessa se poi la sentenza continua asserendo che tale riconoscimento emana direttamente dalla legge, ma per le sole "associazioni sindacali che abbiano stipulato contratti collettivi" (il comunicato Usb omette questo passaggio ovviamente, vista la contraddizione evidente della richiesta di firma di adesione su tutto il resto per rientrare nella trattativa e godere delle agibilità sindacali). Tant'è che uno stesso articolo del Fatto quotidiano esalta il testo della sentenza senza alcuna considerazione critica. Anzi, spinge chiaramente, tacendo sul merito, affinché la Fiom prenda spunto e firmi quei contratti capestro già firmati da Cisl Uil ed Ugl, facendo intuire che in questo modo si ripristina un ordine legale (ed una pace sociale). Ma la giustizia? E' evidente che in questo modo, pur indirettamente, è sempre “il datore di lavoro” che decide infine del riconoscimento e delle agibilità delle OO.SS. dal momento che è lo stesso datore di lavoro a sottoporre ai sindacati la firma di un contratto collettivo. Per non dire poi che basta avere una Cisl, Uil ed Ugl, sempre compiacenti e pronti a firmare di tutto, per completare il giochetto, mettendo all'angolo qualsiasi organizzazione sindacale che dovesse contrapporsi.

Ne deriva allora che il punto nodale, sul quale bisognerebbe ritornare ed approfondire il ragionamento, rimane proprio l'annosa questione delle agibilità sindacali. Ci si domanda se queste possano essere introiettate da un sindacato a tal punto da divenire formula di ricatto e premio aziendale, salvo poi dichiararsi sindacato conflittuale e di classe. Queste, possono essere vissute come indispensabili per la sopravvivenza di un sindacato? A che punto siamo arrivati se è tacitamente accettato tutto ciò? Non sarebbe forse il caso di tornare a considerare ogni agibilità sindacale solo come valore aggiunto, strappato alla controparte esclusivamente tramite misurazione dei rapporti di forza, e non come valore introdotto a sistema (e alfine burocratizzato), ed utile alla mera sopravvivenza? Che forza può esprime un sindacato se non può fare a meno della "gentile concessione/premio di accondiscendenza"? Altra cosa sarebbe infatti se si fosse vinta una causa del genere (art. 28 Statuto dei lavoratori), ripristinando le agibilità sindacali, ma a fronte però di una mancata volontà di firma di un sindacato dissidente. In questo caso il tribunale avrebbe sì sancito il diritto per i lavoratori di essere realmente rappresentati.

2. C'è un ulteriore passaggio che potrebbe sfuggire ai meno accorti, e riguarda la seguente frase: "che non è, perciò, sufficiente la meraadesione formale a un contratto negoziato da altri sindacati, ma occorre una partecipazione attiva al processo di formazione del contratto". Questo significa che pur di avere e mantenere le agibilità sindacali (che esercitano a questo punto un vero e proprio effetto boomerang) le varie OO.SS. all'atto di una vertenza (non ne parliamo poi se muta le Relazioni Industriali dell'intero paese) sono "spinte" a non produrre un conflitto, perché magari impegnate in una trattativa che andrebbe in ogni caso avanti con Cisl Uil Ugl (e Cgil in diversi contesti), e quindi in qualche modo minacciosamente "consigliate" a concluderla fino in fondo assieme alle altre, semmai con l'ipotesi finale di una firma tecnica. Questo ovviamente frena la già difficile azione conflittuale dei sindacati, stemperando ogni ipotesi di drammatizzazione ed esplosione delle contraddizioni che si possono generare dal conflitto capitale-lavoro, e come si dice in gergo, gettando acqua o mo' di pompieri. La fiducia poi dei lavoratori nella possibilità di ottenere qualche vittoria proprio a partire dal riconoscimento della natura conflittuale del rapporto di lavoro, e nella sua possibile rappresentanza sindacale, è conseguentemente mutilata e umiliata, e ciò non può che generare sconforto e subordinazione totale alle logiche della classe padronale (che vede la sua sintesi nello stato corporativo), a supporto di chi vuole costantemente privare di coscienza l’intera classe lavoratrice.

Il sindacato dovrebbe far di tutto per sfuggire a questi ricatti, ritrovando una sua dignità e una reale autonomia in ragione della classe che dovrebbe rappresentare.

In sintesi, questa sembra piuttosto essere una sentenza dall'amaro sapore corporativo. Non rendersene conto, e presentarla come una vittoria, significa partecipare assieme a tutti quanti alla mistificazione della realtà. Ma di questo, in un contesto talmente arretrato al punto che diversi lavoratori direttamente coinvolti si sono sentiti sollevati e spronati dalla "vittoria di Pirro", si teme non sia possibile parlare. La già delicata psicologia del lavoratore verrebbe ulteriormente destabilizzata. Ma ci sarà un tempo affinché si possa considerare il lavoratore un adulto dotato di senno, e potergli dire le cose in faccia, così come stanno?

Riccardo Filesi

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